In
una lettera del 1888, indirizzata a Margaret Harkness, Friedrich
Engels definisce Balzac “un maestro del realismo di gran lunga
maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e
dell’avvenire”. Tanto da aver "imparato più da lui sull'ascesa sociale e
politica della borghesia che da tutti gli storici professionisti, gli
economisti e gli statisti del periodo, messi insieme".
Pierluigi Pellini
L'età dell’oro del
roman-feuilleton – è del 1843 il successo senza
precedenti dei Misteri di Parigi di Eugène Sue, fra il ’44
e il ’46 Alexandre Dumas padre pubblica I tre
moschettieri e Il conte di Montecristo –
gli anni quaranta dell’Ottocento sembrano segnare il
declino irreversibile di Balzac, il romanziere
che aveva dominato la scena parigina nel decennio
precedente. Ma l’autore della Commedia umana,
capace di far proprie le ricette del romanzo d’appendice senza
rinunciare all’ambivalente complessità di una
narrazione dal ritmo franto e imprevedibile,
nel biennio 1846-’47 torna clamorosamente
in voga, con la pubblicazione di tre assoluti
capolavori: l’ultima parte di Splendori e miserie
delle cortigiane e il dittico dei Parenti poveri,
composto da La cugina Betta e Il cugino Pons.
Dei tre, l’ultimo
romanzo è certamente il meno noto – non il meno
bello – e apre felicemente, nell’ottima
traduzione di Giovanni Bogliolo, il terzo volume
dell’edizione parziale della Commedia umana curata
nei «Meridiani» da Mariolina Bongiovanni
Bertini (Mondadori, pp. 1592, euro 60,00).
Musicista di
scarso successo, e condannato da un fisico
grottesco a rinunciare alle gioie dell’amore,
Pons trova «nei piaceri del collezionismo»
e nel vizio innocente della gola «compensazioni»
capaci di dar sfogo per quarant’anni a tutte le sue energie
libidiche; la sua «mania» antiquaria è
«piacere sublimato in idea»; per i suoi quadri
nutre un’«avarizia insaziabile» e «l’amore di un
innamorato». In questo, è affine al suo
spregiudicato rivale, il mercante ebreo Élie
Magus, «anima votata al lucro, fredda come un pezzo di ghiaccio»,
capace però di infiammarsi di fronte a un Sebastiano
del Piombo; e non è molto distante dai grandi avari
balzachiani – Gobseck, Grandet, Hochon – che
godono del contatto fisico con oro e denaro.
Non c’è
contraddizione, in Pons, fra disarmante
ingenuità nei rapporti umani da un lato e acume
critico nell’individuare i capolavori, astuzia
commerciale nel contrattarne il prezzo
dall’altro: l’antropologia balzachiana, debitrice
del coevo paradigma delle monomanie imposto
dall’alienista Jean-Étienne Dominique Esquirol,
inventa uno «specialismo» delle funzioni
psichiche che pare immagine dell’incipiente
divisione capitalistica del lavoro. E impone
sublimazione, compensazione: è il
testo stesso a suggerire come per Balzac ogni
forma di arte (letteratura compresa) sia ripiego
e rifugio, succedaneo dell’azione
(erotica, economica, politica).
Non a caso, in punto
di morte, dopo l’addio alle «vanità dell’arte», Pons recupera
un’insospettabile lucidità pragmatica, comprende
quali «sacche di fiele» alberghino nell’animo umano
e riesce a giocare ai suoi avversari un tiro
degno di uno scoppiettante vaudeville. Solo in
apparenza, però, la storia rivaleggia sullo
stesso terreno con le complicazioni narrative
e il facile manicheismo del roman-feuilleton: fra
i due estremi dell’arresa, fanciullesca bontà
del pianista tedesco Schmucke, compagno
tenerissimo di Pons, e della luciferina
perversione del pustoloso Fraisier,
avvocaticchio rotto a ogni corruzione,
si squaderna un’umanità opaca, capace di vegetare per
decenni in una sciatta «probità», finché lo sprone
dell’interesse, «idea fissa» in un’epoca «in cui la moneta da
cento soldi si annida in fondo a tutte le coscienze», non ne fa
affiorare l’ignominia.
Così uno dei
personaggi più memorabili di tutto il romanzo
francese, la corpulenta Cibot, «buon cuore di
popolana», in gioventù «bella ostricaia», poi
anonima portinaia (la guardiola diventa per lei
«come il guscio per l’ostrica»), capace di servire per anni
e fedelmente i due musicisti,
immaginandoli poveri, si trasforma in spietato
aguzzino «dall’occhio arancione», in «spaventosa
lady Macbeth di strada», quando scopre il valore della
collezione, e dunque dell’eredità, del
malandato Pons. Nella Commedia umana, diceva
Baudelaire, «anche le portinaie sono geniali»:
e possono esercitare sugli inquilini un
dispotismo che riproduce, nel microcosmo del
quotidiano, la più inumana tirannia sociale.
Più sottile ma non
meno letale, una feroce convergenza di interessi
meschini rende diversamente complici del delitto il
medico curante, i parenti ricchi, i mercanti
d’arte, la serva (nomen omen) Sauvage, «l’illustre
Gaudissart», cialtronesco
e immanicatissimo direttore di teatro:
in una moltiplicazione virtuosistica
di intrighi intersecati che è, come sempre nel
migliore Balzac storico dei «costumi», tanto
inverosimile nel dettaglio quanto
inoppugnabile nella sua evidenza psichica
e sociale – cioè realistica.
Che al contrario l’autore della Commedia umana sia «visionario» almeno quanto realista, e voglia essere filosofo non meno che narratore, è tesi critica di illustre tradizione, dallo stesso Baudelaire a Ernst Robert Curtius: tesi a lungo minoritaria; poi à la page e perfino egemone nei decenni di fine Novecento che hanno bandito il lemma «realismo» dal lessico della teoria letteraria; e oggi senz’altro canonica: benissimo ha fatto perciò Bongiovanni Bertini a offrirne, con i suoi tre «Meridiani» – grande impresa editoriale che giunge a compimento dopo quasi vent’anni: il primo volume è del 1994 –, un’aggiornata illustrazione, di cui è ora possibile apprezzare il disegno coerente, anche se l’opera di Balzac, cattedrale di carta paradossalmente perfetta nella sua proliferante incompiutezza, si presta male all’esercizio antologico.
Se è vero che
qualsiasi rinuncia avrebbe minato i segreti
equilibri architettonici dell’insieme, non
mette conto soffermarsi sul rimpianto per le
inevitabili assenze, che per lo più non
pregiudicano l’esemplarità della scelta (unica
lacuna di rilievo, un sotto-genere eminentemente
balzachiano come il romanzo breve, o racconto
lungo, di argomento contemporaneo: il
sinistro Gobseck, l’inerme Parroco di Tours,
l’enigmatica Honorine). Il primo volume comprende sei
romanzi che hanno decretato il successo dello scrittore
(come il Père Goriot e Eugénie Grandet) e la
Storia dei tredici, splendida trilogia
tramata di enigmi metropolitani e conturbante
erotismo. Il secondo è interamente
occupato dai due grandi romanzi di Lucien de Rubempré,
Illusioni perdute e Splendori e miserie
delle cortigiane.
In questo terzo, il
più eteroclito, al Cugino Pons fanno seguito testi di
genere, ispirazione (e valore) diverso: la breve
incursione nell’esotismo titolata Una passione nel
deserto, storia sensuale del rapporto fra un soldato
francese e una pantera, o leopardo, in
un’oasi egiziana; una vicenda romantica d’amore
impossibile, assoluto e puro, Il giglio nella
valle, ambientato nella familiare Turenna, scritto in
competizione con il Sainte-Beuve di Volupté
e tramato di lussureggianti descrizioni
paesaggistiche e floreali, chiamate
a dare una quasi barocca espressione metaforica
alla passione di Félix de Vandenesse; il primo
successo del Balzac ortonimo, La pelle di zigrino,
concepito sulla scia delle traduzioni di E.T.A.
Hoffmann, ma già capace di piegare la voga del
fantastico e il gusto della deformazione
grottesca all’urgenza di un’allegoria psico-sociale: il
talismano del titolo si restringe, e la vita di Raphaël de
Valentin si accorcia, a ogni desiderio
realizzato.
E, ancora, un racconto
dell’artista notissimo (ma qui proposto nella nuova,
impeccabile versione di Gabriella Mezzanotte),
Il capolavoro sconosciuto , che dà esempio
di un analogo principio di energetica – il
pensiero, come il desiderio, uccide: sulla vicenda di
Frenhofer, il pittore protagonista,
che per ansia di perfezione ritocca un nudo femminile
fino a trasformarlo in un informe «muro di pittura»,
in un caos di «colori confusamente ammassati»,
continuano a interrogarsi, dopo Cézanne
e Picasso, critici, filosofi e storici
dell’arte. C’è poi un omaggio alla moda del racconto
storico, I proscritti , che conta fra
i protagonisti Dante Alighieri
e Sigieri di Brabante, in una pittoresca
Parigi trecentesca che si fa scenario da
melodramma; infine Séraphîta, lo «studio
filosofico» in cui si dispiega, riprendendo il mito
dell’androgino e adottando come sfondo un’improbabile
Norvegia, il misticismo balzachiano,
mutuato da letture assidue quanto disordinate di
teosofi e illuminati, da Swedenborg
a Louis-Claude de Saint-Martin.
Senza discostarsi
dall’ordine, tematico e non cronologico,
della Commedia umana, il volume racchiude dunque
in sé quella sorprendente varietà di materiali
narrativi, generi letterari e soluzioni
stilistiche che fa di Balzac uno scrittore
refrattario alle troppo univoche etichette
di cui lo ha gratificato la critica (principe
del racconto, capostipite del romanzo moderno, padre
della descrizione realista, ecc.); e al tempo
stesso offre esempi numerosi di quelle sotterranee
ricorrenze tematiche che assicurano l’unità
dell’opera.
Così, la passione
esclusiva per l’arte è condivisa non solo dal
mite Pons e dal pittore Frenhofer, ma anche
da Élie Magus che, disponendo di una rete infallibile
di informatori e tessendo le sue trame nei più
diversi contesti sociali, si trasforma in
imprevedibile controfigura del
romanziere; del resto, Magus è antiquario, come
l’inquietante centenario che vende il talismano
a Raphaël, nella Pelle di zigrino, facendosi così
demiurgo della vita del giovane; e antiquario
è anche il ripugnante Rémonencq, truffatore
e omicida nel Cugino Pons: in un corto circuito
vertiginoso fra arte e denaro, fra passato
e presente, fra suggestioni del fantastico
e realtà quotidiana, fra intensità passionale
e ironica derisione, che è forse il nucleo
generativo più profondo della Commedia
umana. Mentre l’utopia di una «perfezione
terrestre» ricollega la protagonista
del Giglio nella valle alla «perfezione celeste» di
Séraphîta.
Se c’è però un
elemento che più di altri accomuna molti di questi
testi è l’insolita densità dei rinvii
autobiografici: al giovane Raphaël toccano
difficoltà e tentazioni di una gioventù
talentuosa e sprovvista di mezzi, trasposte
in quel 1830 che vede il cinico trionfo della bottegaia
monarchia d’Orléans; a Félix de Vandenesse,
Balzac presta il trauma immedicabile di una
carenza d’affetto materno, e l’amore a forte
coloritura edipica per una donna più anziana; a Pons
la «bricabracomania» degli anni tardi, la
passione per anticaglie e oggetti d’arte
d’inestimabile e misconosciuto valore.
Di queste sottili
implicazioni fra il vissuto e l’invenzione
romanzesca danno conto, con eleganza
affabulatoria, le introduzioni della
curatrice; e, per Il cugino Pons, l’imponente apparato di
note, in cui Claudia Moro, con scavo erudito puntiglioso
e ammirevole, illumina gli echi interni alla
Commedia umana, i riferimenti
storico-culturali e appunto l’incidenza delle sublimazioni
autobiografiche: offrendo all’interpretazione
un materiale prezioso e in larga misura nuovo. Spiace
che l’annotazione degli altri testi di questo terzo volume –
con l’eccezione di Una passione nel deserto – sia affidata
a altre mani: il cui lavoro, pur pregevole, non regge
il confronto.
Poco male, perché
Pons è il pezzo forte di un volume che avrebbe guadagnato
molto a includere anche La cugina Bette, l’altro
capolavoro della maturità sacrificato da
Bongiovanni Bertini sull’altare del Balzac
«visionario», per dare spazio al Giglio nella valle
e a Séraphîta – testo, quest’ultimo, che certo ha
avuto «una piccola schiera eletta di cultori», come
Gaston Bachelard e Mircea Eliade, e tuttavia
concede qualche plausibilità alla
definizione di un contemporaneo
recensore cattolico: «un’accozzaglia di
stravaganze […], travestita da apocalisse».
È giusto che una scelta antologica voglia dar
conto anche di un versante dell’opera balzachiana,
quello mistico, poco noto al pubblico italiano; nondimeno
pare incongruo (ed è solo un esempio) che un
gioiello come La zitella, affresco di vita provinciale,
tour de force di ironia scollacciata, allegoria
storico-sociale, quasi rovescio sapido e terragno
di ogni tentazione mistica, non sia mai stato, salvo
errore, tradotto di qua dalle Alpi; mentre I contadini,
romanzo incompiuto su cui György Lukács ha scritto nel 1934 un
saggio insuperato, da anni è assente dalle
nostre librerie.
Conviene chiedersi
se i tempi (di crisi, speculazione finanziaria,
rivolgimenti sociali) non siano maturi per un
ripensamento – non necessariamente una
restaurazione – del canone balzachiano e della
sua tradizione critica. Nell’attesa che un editore,
magari piccolo e visionario, trovi il coraggio
(in barba alla crisi) di mettere finalmente in cantiere
la prima traduzione italiana integrale della
Commedia umana.
Il Manifesto - 25
ottobre 2013
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