21 marzo 2014

LA COMMEDIA UMANA SECONDO HONORE' DE BALZAC




In una lettera del 1888, indirizzata a Margaret Harkness, Friedrich Engels definisce Balzac “un maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire”. Tanto da aver "imparato più da lui sull'ascesa sociale e politica della borghesia che da tutti gli storici professionisti, gli economisti e gli statisti del periodo, messi insieme".
Pierluigi Pellini

Le proiezioni di Balzac, un grande realista visionario


L'età dell’oro del roman-feuilleton – è del 1843 il suc­cesso senza pre­ce­denti dei Misteri di Parigi di Eugène Sue, fra il ’44 e il ’46 Ale­xan­dre Dumas padre pub­blica I tre moschet­tieri e Il conte di Mon­te­cri­sto – gli anni qua­ranta dell’Ottocento sem­brano segnare il declino irre­ver­si­bile di Bal­zac, il roman­ziere che aveva domi­nato la scena pari­gina nel decen­nio pre­ce­dente. Ma l’autore della Com­me­dia umana, capace di far pro­prie le ricette del romanzo d’appendice senza rinun­ciare all’ambivalente com­ples­sità di una nar­ra­zione dal ritmo franto e impre­ve­di­bile, nel bien­nio 1846-’47 torna cla­mo­ro­sa­mente in voga, con la pub­bli­ca­zione di tre asso­luti capo­la­vori: l’ultima parte di Splen­dori e mise­rie delle cor­ti­giane e il dit­tico dei Parenti poveri, com­po­sto da La cugina Betta e Il cugino Pons.

Dei tre, l’ultimo romanzo è cer­ta­mente il meno noto – non il meno bello – e apre feli­ce­mente, nell’ottima tra­du­zione di Gio­vanni Bogliolo, il terzo volume dell’edizione par­ziale della Com­me­dia umana curata nei «Meri­diani» da Mario­lina Bon­gio­vanni Ber­tini (Mon­da­dori, pp. 1592, euro 60,00).

Musi­ci­sta di scarso suc­cesso, e con­dan­nato da un fisico grot­te­sco a rinun­ciare alle gioie dell’amore, Pons trova «nei pia­ceri del col­le­zio­ni­smo» e nel vizio inno­cente della gola «com­pen­sa­zioni» capaci di dar sfogo per quarant’anni a tutte le sue ener­gie libi­di­che; la sua «mania» anti­qua­ria è «pia­cere subli­mato in idea»; per i suoi qua­dri nutre un’«avarizia insa­zia­bile» e «l’amore di un inna­mo­rato». In que­sto, è affine al suo spre­giu­di­cato rivale, il mer­cante ebreo Élie Magus, «anima votata al lucro, fredda come un pezzo di ghiac­cio», capace però di infiam­marsi di fronte a un Seba­stiano del Piombo; e non è molto distante dai grandi avari bal­za­chiani – Gob­seck, Gran­det, Hochon – che godono del con­tatto fisico con oro e denaro.

Non c’è con­trad­di­zione, in Pons, fra disar­mante inge­nuità nei rap­porti umani da un lato e acume cri­tico nell’individuare i capo­la­vori, astu­zia com­mer­ciale nel con­trat­tarne il prezzo dall’altro: l’antropologia bal­za­chiana, debi­trice del coevo para­digma delle mono­ma­nie impo­sto dall’alienista Jean-Étienne Domi­ni­que Esqui­rol, inventa uno «spe­cia­li­smo» delle fun­zioni psi­chi­che che pare imma­gine dell’incipiente divi­sione capi­ta­li­stica del lavoro. E impone subli­ma­zione, com­pen­sa­zione: è il testo stesso a sug­ge­rire come per Bal­zac ogni forma di arte (let­te­ra­tura com­presa) sia ripiego e rifu­gio, suc­ce­da­neo dell’azione (ero­tica, eco­no­mica, poli­tica).

Non a caso, in punto di morte, dopo l’addio alle «vanità dell’arte», Pons recu­pera un’insospettabile luci­dità prag­ma­tica, com­prende quali «sac­che di fiele» alber­ghino nell’animo umano e rie­sce a gio­care ai suoi avver­sari un tiro degno di uno scop­piet­tante vau­de­ville. Solo in appa­renza, però, la sto­ria riva­leg­gia sullo stesso ter­reno con le com­pli­ca­zioni nar­ra­tive e il facile mani­chei­smo del roman-feuilleton: fra i due estremi dell’arresa, fan­ciul­le­sca bontà del pia­ni­sta tede­sco Sch­mucke, com­pa­gno tene­ris­simo di Pons, e della luci­fe­rina per­ver­sione del pusto­loso Frai­sier, avvo­ca­tic­chio rotto a ogni cor­ru­zione, si squa­derna un’umanità opaca, capace di vege­tare per decenni in una sciatta «pro­bità», fin­ché lo sprone dell’interesse, «idea fissa» in un’epoca «in cui la moneta da cento soldi si annida in fondo a tutte le coscienze», non ne fa affio­rare l’ignominia.

Così uno dei per­so­naggi più memo­ra­bili di tutto il romanzo fran­cese, la cor­pu­lenta Cibot, «buon cuore di popo­lana», in gio­ventù «bella ostri­caia», poi ano­nima por­ti­naia (la guar­diola diventa per lei «come il guscio per l’ostrica»), capace di ser­vire per anni e fedel­mente i due musi­ci­sti, imma­gi­nan­doli poveri, si tra­sforma in spie­tato aguz­zino «dall’occhio aran­cione», in «spa­ven­tosa lady Mac­beth di strada», quando sco­pre il valore della col­le­zione, e dun­que dell’eredità, del malan­dato Pons. Nella Com­me­dia umana, diceva Bau­de­laire, «anche le por­ti­naie sono geniali»: e pos­sono eser­ci­tare sugli inqui­lini un dispo­ti­smo che ripro­duce, nel micro­co­smo del quo­ti­diano, la più inu­mana tiran­nia sociale.

Più sot­tile ma non meno letale, una feroce con­ver­genza di inte­ressi meschini rende diver­sa­mente com­plici del delitto il medico curante, i parenti ric­chi, i mer­canti d’arte, la serva (nomen omen) Sau­vage, «l’illustre Gau­dis­sart», cial­tro­ne­sco e imma­ni­ca­tis­simo diret­tore di tea­tro: in una mol­ti­pli­ca­zione vir­tuo­si­stica di intri­ghi inter­se­cati che è, come sem­pre nel migliore Bal­zac sto­rico dei «costumi», tanto inve­ro­si­mile nel det­ta­glio quanto inop­pu­gna­bile nella sua evi­denza psi­chica e sociale – cioè rea­li­stica.

Che al con­tra­rio l’autore della Com­me­dia umana sia «visio­na­rio» almeno quanto rea­li­sta, e voglia essere filo­sofo non meno che nar­ra­tore, è tesi cri­tica di illu­stre tra­di­zione, dallo stesso Bau­de­laire a Ernst Robert Cur­tius: tesi a lungo mino­ri­ta­ria; poi à la page e per­fino ege­mone nei decenni di fine Nove­cento che hanno ban­dito il lemma «rea­li­smo» dal les­sico della teo­ria let­te­ra­ria; e oggi senz’altro cano­nica: benis­simo ha fatto per­ciò Bon­gio­vanni Ber­tini a offrirne, con i suoi tre «Meri­diani» – grande impresa edi­to­riale che giunge a com­pi­mento dopo quasi vent’anni: il primo volume è del 1994 –, un’aggiornata illu­stra­zione, di cui è ora pos­si­bile apprez­zare il dise­gno coe­rente, anche se l’opera di Bal­zac, cat­te­drale di carta para­dos­sal­mente per­fetta nella sua pro­li­fe­rante incom­piu­tezza, si pre­sta male all’esercizio antologico.

Se è vero che qual­siasi rinun­cia avrebbe minato i segreti equi­li­bri archi­tet­to­nici dell’insieme, non mette conto sof­fer­marsi sul rim­pianto per le ine­vi­ta­bili assenze, che per lo più non pre­giu­di­cano l’esemplarità della scelta (unica lacuna di rilievo, un sotto-genere emi­nen­te­mente bal­za­chiano come il romanzo breve, o rac­conto lungo, di argo­mento con­tem­po­ra­neo: il sini­stro Gob­seck, l’inerme Par­roco di Tours, l’enigmatica Hono­rine). Il primo volume com­prende sei romanzi che hanno decre­tato il suc­cesso dello scrit­tore (come il Père Goriot e Eugé­nie Gran­det) e la Sto­ria dei tre­dici, splen­dida tri­lo­gia tra­mata di enigmi metro­po­li­tani e con­tur­bante ero­ti­smo. Il secondo è inte­ra­mente occu­pato dai due grandi romanzi di Lucien de Rubem­pré, Illu­sioni per­dute e Splen­dori e mise­rie delle cor­ti­giane.

In que­sto terzo, il più ete­ro­clito, al Cugino Pons fanno seguito testi di genere, ispi­ra­zione (e valore) diverso: la breve incur­sione nell’esotismo tito­lata Una pas­sione nel deserto, sto­ria sen­suale del rap­porto fra un sol­dato fran­cese e una pan­tera, o leo­pardo, in un’oasi egi­ziana; una vicenda roman­tica d’amore impos­si­bile, asso­luto e puro, Il giglio nella valle, ambien­tato nella fami­liare Turenna, scritto in com­pe­ti­zione con il Sainte-Beuve di Volupté e tra­mato di lus­su­reg­gianti descri­zioni pae­sag­gi­sti­che e flo­reali, chia­mate a dare una quasi barocca espres­sione meta­fo­rica alla pas­sione di Félix de Van­de­nesse; il primo suc­cesso del Bal­zac orto­nimo, La pelle di zigrino, con­ce­pito sulla scia delle tra­du­zioni di E.T.A. Hof­f­mann, ma già capace di pie­gare la voga del fan­ta­stico e il gusto della defor­ma­zione grot­te­sca all’urgenza di un’allegoria psico-sociale: il tali­smano del titolo si restringe, e la vita di Raphaël de Valen­tin si accor­cia, a ogni desi­de­rio rea­liz­zato.

E, ancora, un rac­conto dell’artista notis­simo (ma qui pro­po­sto nella nuova, impec­ca­bile ver­sione di Gabriella Mez­za­notte), Il capo­la­voro sco­no­sciuto , che dà esem­pio di un ana­logo prin­ci­pio di ener­ge­tica – il pen­siero, come il desi­de­rio, uccide: sulla vicenda di Fre­n­ho­fer, il pit­tore pro­ta­go­ni­sta, che per ansia di per­fe­zione ritocca un nudo fem­mi­nile fino a tra­sfor­marlo in un informe «muro di pit­tura», in un caos di «colori con­fu­sa­mente ammas­sati», con­ti­nuano a inter­ro­garsi, dopo Cézanne e Picasso, cri­tici, filo­sofi e sto­rici dell’arte. C’è poi un omag­gio alla moda del rac­conto sto­rico, I pro­scritti , che conta fra i pro­ta­go­ni­sti Dante Ali­ghieri e Sigieri di Bra­bante, in una pit­to­re­sca Parigi tre­cen­te­sca che si fa sce­na­rio da melo­dramma; infine Séra­phîta, lo «stu­dio filo­so­fico» in cui si dispiega, ripren­dendo il mito dell’androgino e adot­tando come sfondo un’improbabile Nor­ve­gia, il misti­ci­smo bal­za­chiano, mutuato da let­ture assi­due quanto disor­di­nate di teo­sofi e illu­mi­nati, da Swe­den­borg a Louis-Claude de Saint-Martin.

Senza disco­starsi dall’ordine, tema­tico e non cro­no­lo­gico, della Com­me­dia umana, il volume rac­chiude dun­que in sé quella sor­pren­dente varietà di mate­riali nar­ra­tivi, generi let­te­rari e solu­zioni sti­li­sti­che che fa di Bal­zac uno scrit­tore refrat­ta­rio alle troppo uni­vo­che eti­chette di cui lo ha gra­ti­fi­cato la cri­tica (prin­cipe del rac­conto, capo­sti­pite del romanzo moderno, padre della descri­zione rea­li­sta, ecc.); e al tempo stesso offre esempi nume­rosi di quelle sot­ter­ra­nee ricor­renze tema­ti­che che assi­cu­rano l’unità dell’opera.

Così, la pas­sione esclu­siva per l’arte è con­di­visa non solo dal mite Pons e dal pit­tore Fre­n­ho­fer, ma anche da Élie Magus che, dispo­nendo di una rete infal­li­bile di infor­ma­tori e tes­sendo le sue trame nei più diversi con­te­sti sociali, si tra­sforma in impre­ve­di­bile con­tro­fi­gura del roman­ziere; del resto, Magus è anti­qua­rio, come l’inquietante cen­te­na­rio che vende il tali­smano a Raphaël, nella Pelle di zigrino, facen­dosi così demiurgo della vita del gio­vane; e anti­qua­rio è anche il ripu­gnante Rémo­nencq, truf­fa­tore e omi­cida nel Cugino Pons: in un corto cir­cuito ver­ti­gi­noso fra arte e denaro, fra pas­sato e pre­sente, fra sug­ge­stioni del fan­ta­stico e realtà quo­ti­diana, fra inten­sità pas­sio­nale e iro­nica deri­sione, che è forse il nucleo gene­ra­tivo più pro­fondo della Com­me­dia umana. Men­tre l’utopia di una «per­fe­zione ter­re­stre» ricol­lega la pro­ta­go­ni­sta del Giglio nella valle alla «per­fe­zione cele­ste» di Séra­phîta.

Se c’è però un ele­mento che più di altri acco­muna molti di que­sti testi è l’insolita den­sità dei rin­vii auto­bio­gra­fici: al gio­vane Raphaël toc­cano dif­fi­coltà e ten­ta­zioni di una gio­ventù talen­tuosa e sprov­vi­sta di mezzi, tra­spo­ste in quel 1830 che vede il cinico trionfo della bot­te­gaia monar­chia d’Orléans; a Félix de Van­de­nesse, Bal­zac pre­sta il trauma imme­di­ca­bile di una carenza d’affetto materno, e l’amore a forte colo­ri­tura edi­pica per una donna più anziana; a Pons la «bri­ca­bra­co­ma­nia» degli anni tardi, la pas­sione per anti­ca­glie e oggetti d’arte d’inestimabile e misco­no­sciuto valore.

Di que­ste sot­tili impli­ca­zioni fra il vis­suto e l’invenzione roman­ze­sca danno conto, con ele­ganza affa­bu­la­to­ria, le intro­du­zioni della cura­trice; e, per Il cugino Pons, l’imponente appa­rato di note, in cui Clau­dia Moro, con scavo eru­dito pun­ti­glioso e ammi­re­vole, illu­mina gli echi interni alla Com­me­dia umana, i rife­ri­menti storico-culturali e appunto l’incidenza delle subli­ma­zioni auto­bio­gra­fi­che: offrendo all’interpretazione un mate­riale pre­zioso e in larga misura nuovo. Spiace che l’annotazione degli altri testi di que­sto terzo volume – con l’eccezione di Una pas­sione nel deserto – sia affi­data a altre mani: il cui lavoro, pur pre­ge­vole, non regge il confronto.

Poco male, per­ché Pons è il pezzo forte di un volume che avrebbe gua­da­gnato molto a inclu­dere anche La cugina Bette, l’altro capo­la­voro della matu­rità sacri­fi­cato da Bon­gio­vanni Ber­tini sull’altare del Bal­zac «visio­na­rio», per dare spa­zio al Giglio nella valle e a Séra­phîta – testo, quest’ultimo, che certo ha avuto «una pic­cola schiera eletta di cul­tori», come Gaston Bache­lard e Mir­cea Eliade, e tut­ta­via con­cede qual­che plau­si­bi­lità alla defi­ni­zione di un con­tem­po­ra­neo recen­sore cat­to­lico: «un’accozzaglia di stra­va­ganze […], tra­ve­stita da apo­ca­lisse». 
È giu­sto che una scelta anto­lo­gica voglia dar conto anche di un ver­sante dell’opera bal­za­chiana, quello mistico, poco noto al pub­blico ita­liano; non­di­meno pare incon­gruo (ed è solo un esem­pio) che un gio­iello come La zitella, affre­sco di vita pro­vin­ciale, tour de force di iro­nia scol­lac­ciata, alle­go­ria storico-sociale, quasi rove­scio sapido e ter­ra­gno di ogni ten­ta­zione mistica, non sia mai stato, salvo errore, tra­dotto di qua dalle Alpi; men­tre I con­ta­dini, romanzo incom­piuto su cui György Lukács ha scritto nel 1934 un sag­gio insu­pe­rato, da anni è assente dalle nostre librerie.

Con­viene chie­dersi se i tempi (di crisi, spe­cu­la­zione finan­zia­ria, rivol­gi­menti sociali) non siano maturi per un ripen­sa­mento – non neces­sa­ria­mente una restau­ra­zione – del canone bal­za­chiano e della sua tra­di­zione cri­tica. Nell’attesa che un edi­tore, magari pic­colo e visio­na­rio, trovi il corag­gio (in barba alla crisi) di met­tere final­mente in can­tiere la prima tra­du­zione ita­liana inte­grale della Com­me­dia umana.


Il Manifesto - 25 ottobre 2013  



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