“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
30 marzo 2014
LA SOLITUDINE DI OCTAVIO PAZ
Riprendiamo dal blog delle edizioni Sur un articolo di Valerio Magrelli uscito originariamente come prefazione a Intervista con Octavio Paz di Alfred Macadam. Il libro, pubblicato nella collana Macchine da scrivere di minimum fax, risale al 1996, quando il poeta messicano era ancora in vita.
Alquanto singolare è la miscela che fa di Octavio Paz uno tra i massimi poeti viventi, un intellettuale militante, e un maître à penser. Tra i numerosi titoli tradotti in italiano, spiccano da una parte le raccolte di versi Libertà sulla parola (edito da Guanda), Vento cardinale e altre poesie (Mondadori) e Il fuoco di ogni giorno (Garzanti), dall’altra, un’opera saggistica di impressionante vastità e varietà. Mentre SE ha proposto il memorabile testo su Marcel Duchamp Apparenza nuda, Garzanti, dopo Una terra, quattro o cinque mondi e Passione e lettura, ha dato alle stampe il dotto, sterminato, capillare studio Suor Juana o le insidie della fede (Garzanti). Bastano questi pochi dati per comprendere quanto complessa sia l’opera di un autore capace di spaziare con uguale competenza e passione dall’antropologia alla critica letteraria, dalla sociologia alla storia dell’arte, dalle avanguardie storiche alla mistica barocca.
Nato a Città del Messico nel 1914, Paz fonda a soli diciassette anni la rivista Barandal, luogo d’incontro tra letterature ispanoamericane ed europee, nonché primo abbozzo della futura Vuelta, il periodico di cui è tuttora direttore. Seguendo il consiglio di Pablo Neruda, console del Cile in Messico, abbraccia la carriera diplomatica come già avevano fatto Paul Morand, Paul Claudel o Saint-John Perse. Dopo un soggiorno in Giappone, diventa ambasciatore del suo paese in India, carica da cui dà le dimissioni nel 1968 per protesta contro la strage compiuta nel corso delle Olimpiadi messicane. Infine, a coronare il suo lavoro poetico e saggistico, riceve nel 1990 il Premio Nobel.
A tutte queste esperienze corrisponde, in un rapporto di costante tensione tra energia centrifuga e centripeta, un impellente richiamo alle origini. Infatti, rinunciando tanto alla tentazione di un passivo nazionalismo, quanto al fascino di suggestioni culturali così disparate, lo scrittore ha cercato piuttosto di stabilire confronti, misurare distanze, constatare fratture. L’immagine centrale del suo metodo potrebbe essere indicata nella lacerazione, un tema che ritorna con insistenza in testi quali Congiunzioni e disgiunzioni, L’arco e la lira e Figli del fango, tradotti dal Melangolo. Questo scavo politico e archetipico culmina nel saggio Il labirinto della solitudine (pubblicato vari anni fa dal Saggiatore). Pietra focaia e pietra di paragone, ha notato Franco Mogni nella sua introduzione, il libro scaturisce dall’attrito tra le due culture rivali del Messico e degli Usa, Sud versus Nord, cattolicesimo contro protestantesimo.
Secondo Paz, l’interesse di questo scontro risiede nel fatto che la condizione dell’homo mexicanus, rimasta per cinque secoli marginale, periferica e minoritaria, rappresenta ormai quella di molti popoli: «La messicanità è un oscillare tra diversi progetti storici universali, via via trapiantati o imposti, e oggi inservibili. La messicanità è un modo di non essere noi stessi, una ripetuta maniera di essere e di vivere qualcosa d’altro».
Valerio Magrelli
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