10 marzo 2014

SUDISMO E MERIDIONALISMO






Anche se l'autore di questo interessante articolo  ignora del tutto il punto di vista gramsciano ci sembra utile proporne la lettura:


Sudismo e meridionalismo

di Alessandro Leogrande


Una cosa è il sudismo, altra cosa è il meridionalismo. Nel recente dibattito alimentato sulle pagine del “Corriere del Mezzogiorno” da vari fattori (l’uscita del libro di Emanuele Felice “Perché il Sud è rimasto indietro”, la scarsa attenzione mostrata verso la “questione meridionale” da parte del neopremier Renzi, il persistere di indicatori come quello sulla disoccupazione giovanile che inchiodano le regioni meridionali), la distinzione sembra essere evidente. Eppure su scala nazionale, nonché in molte parti del Sud, è andata smarrita.
È giusto sottolineare come compito delle coscienze critiche di questa parte del paese sia innanzitutto quello di individuare non le responsabilità “del” Sud, bensì quelle rintracciabili “nel” Sud. È stata questa la lezione del meridionalismo migliore, quello di Salvemini, Dorso, Sturzo, Manlio Rossi-Doria, Tommaso Fiore, teso a decostruire un realtà non monolitica e ad analizzare innanzitutto le colpe delle classi dirigenti locali, della “borghesia lazzarona”, dei tanti azzeccagarbugli annidati sotto lo status quo, della politica ingessata dal trasformismo dei cacicchi e dei viceré. Non perché le colpe siano solo “nel” Sud, ma per il semplice fatto che ogni critica dell’esistente deve sempre partire da sé, dalla necessaria anticamera dell’autocritica. È un fatto di onestà intellettuale, prima ancora che una strategia politica.
Il meridionalismo migliore ha sempre perseguito il rinnovamento di sé in un’ottica cosmopolita e illuminista. Ha sempre avversato il ripiegarsi su se stesso dell’identità, del mito delle radici. Ha sempre pensato che non bisognasse chiedere “per” il Sud, attivando la solita economia di scambio gestita dai sottopoteri, ma trasformare il Sud, seguendo la strada di un riformismo sostanziale.
Cosa rimane oggi di questo meridionalismo? Molto poco. È come se tra i rapporti allarmati sfornati anno dopo anno da Censis, Istat e Svimez sul disastro di molte parti del Sud e i governi che dovrebbero rimuovere le sue cause non ci sia più quella terra di mezzo in cui veniva elaborato un discorso cultural-politico volto alla trasformazione. La prateria è vuota. Da una parte c’è il sudismo, il piagnisteo neoborbonico di chi vagheggia il ritorno a un buon tempo andato che non è mai esistito, e vede i mali solo e sempre altrove (nel Nord, a Roma, a Bruxelles o a Francoforte), emendando di fatto le responsabilità delle élite meridionali. Dall’altra ci sono i “professionisti del Mezzogiorno”, i mediatori tra centro e periferie che provano a rinnovare – nel nuovo secolo – ciò che resta dello scambio novecentesco tra fondi pubblici e consenso.
E allora è inutile lamentarsi della scarsa presenza di meridionali nel nuovo governo o stare lì a contare quante volte Renzi nomina la parola Sud (conto che effettivamente si riduce alle dita di una sola mano). Dal momento che le cause della crisi “dei” Sud sono innanzitutto “nei” Sud, occorre rompere la tenaglia tra sudisti e “professionisti del Mezzogiorno”, recuperando quella “spinta meridionale” che Rossi-Doria vedeva in via d’esaurimento già negli anni settanta del secolo scorso: cioè quella tensione critica verso se stessi e il mondo che ci circonda, per comprenderlo e poi cambiarlo.

Questo pezzo è uscito sul Corriere del Mezzogiorno oggi

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