Un celebre fotogramma della
Corazzata Potëmkin
Il rapporto fra
ucraini e russi è sempre stato conflittuale soprattutto per quanto
riguarda il controllo della costa del mar Nero. Lo testimonia la
storia della Crimea e ancora di più di Odessa.
Fabrizio Scrivano
Se si interroga un
motore di ricerca/immagini, la prima foto di Odessa è quella
del terminal portuale. Come Sevastopol in
Crimea sarebbe divenuta sede della flotta militare
russa e sovietica, così Odessa fu piuttosto
scalo commerciale della vasta regione meridionale
che Caterina di Russia, negli ultimi decenni del
Settecento, annesse all’impero per merito dell’ammiraglio
Potëmkin, strappandola alle popolazioni
tartare e agli eserciti ottomani.
Evidentemente,
la città ucraina è ancora porta di transito di un’area
geografica di grande interesse. C’è poi un’altra
immagine, proprio strana: la cartina della battaglia
di Odessa in cui si muovono le forze della Federazione
e quelle del principato di Zoan. È una
deformazione fantasy di ciò che era accaduto
durante la seconda guerra mondiale con l’avanzamento delle
truppe rumene e naziste. Una rievocazione in
costume della vera battaglia del 1941 si celebra
ogni anno.
Si può anche
facilmente scovare Odessa in fiamme, un film del 1942,
regia di Carmine Gallone a coproduzione
italo-rumena, in cui la presa di Odessa viene interpretata
come rivincita sui soprusi sovietici e antidoto
alla decadenza dei costumi. Per associazione,
potrebbe venire in mente un libro/film di una certa fama, Dossier
Odessa: ma attenzione, si tratta solo di un ingannevole
acrostico che nulla c’entra con la città.
Finalmente appare
un’immagine familiare: la scalinata Richelieu
in una foto del 1935, dove ancora conserva le fattezze che
aveva nel 1925, quando S. M. Ejzenštein vi girò la
celeberrima scena di Corazzata Potëmkin.
Ed ecco che, riapparendo questo nome, può
terminare il breve surfing su quella buccia di
superficialità dell’informazione che il Web
sempre offre: almeno ora si possiede un cerchio, che
ha qualche validità di stereotipo, entro cui
raccogliere i quasi 230 anni di storia
della città.
Ma se si volesse avere
qualche riscontro di questa superficiale
immagine di Odessa a soccorrerci arriva un libro
di gradevolissima lettura, accompagnato
da ventinove immagini in b/n, appena uscito nella
neo-collana «La Biblioteca» di Einaudi: l’autore è Charles
King, il titolo Odessa Splendore e tragedia di
una città di sogno (traduzione di Cristina
Spinoglio, pp. XIII-326, euro 30,00).
Il racconto
storico, che va dalla fondazione alla fine della
seconda guerra mondiale, è interessante anche
per un altro aspetto, marginale al suo contesto,
ma pienamente riconoscibile: per essere
cioè uno strumento di analisi dei contesti
interculturali e di verifica della
costruzione degli stereotipi.
L’autore si muove da
un’osservazione di Mark Twain, che arrivandovi nel 1867,
registrava in un suo diario di viaggio, Innocenti
all’estero, un testo un po’ trascurato dall’editoria
italiana più recente, una sensazione di
familiarità. Da che proviene quest’aria di casa?
Twain vi giunge una settantina d’anni dopo la sua
fondazione moderna e neppure a cinquant’anni
da che prendesse un aspetto simile a quel che lui poteva
vedere.
Prima, su quella sponda compresa tra l’estuario del Dnepr e la foce del Dnestr, c’era assai poco: Khadjibey era un villaggio con una fortificazione turca. Quelle terre meridionali, agli occhi dei Russi dovevano sembrare una specie di Frontiera, come il West: erano da colonizzare e civilizzare per sfruttarne le terre e per avere uno sbocco navale verso sud. Così nasce il progetto della Nuova Russia. Ma a costruire la metropoli ci pensarono in successione tre uomini: il mercenario napoletano De Ribas, il nobile fuggiasco francese Richelieu e finalmente il russo Voroncov, però cresciuto ed educato a Londra.
Non c’è da stupirsi
che Puškin, mandato d’autorità a Odessa, dove
scrisse gran parte dell’Evgenij Onegin e dove
amoreggiava con la moglie di Voroncov, manifestasse
disagio per questo «stile di vita europeo», dato
che si aspettava di trovare lì un porto orientale.
Ma lo «stile europeo» apparteneva alle classi
dominati e alle architetture, e modellava
l’aura cosmopolita da cui la città fu circondata
per lunghi anni, ma che poi perse in modo tragico.
La popolazione
nel suo insieme rispondeva di più a un’immagine
multietnica: a questa brulicante
umanità si devono la varietà dei commerci, di lingue,
colori e odori. Greci, turchi, italiani, inglesi,
francesi e, sentiti come una nazione a parte, gli
ebrei, che sin dalle origini furono i quasi due terzi
della popolazione. Per tutto l’Ottocento Odessa fu
immaginata un po’ come una nuova porta d’oriente, una
nuova Istanbul.
Lo stereotipo
più solido nasce proprio in questo contesto
meno elitario: l’astuzia levantina, la furbizia
opportunistica ma anche la vocazione alla
criminalità, dal furtarello alla frode,
diventano tratti indelebili appiccicati
agli abitanti e alla città. L’immagine, seppur con
valori diversi dall’esecrazione, si sarebbe rafforzato
anche tramite Isaak Babel’, che nei suoi Racconti di
Odessa non volle dissimulare questi aspetti
della città in cui era nato (molte pagine del libro di King sono
dedicate al grande intellettuale sovietico, ed
ebreo come tanti odessiti, che nel 1940 sparì
misteriosamente negli uffici della polizia).
Il deflagrare del
modello multietnico e cosmopolita forse non
si deve tutto al cattivo governo della città. La sua stessa
floridezza economica comincia
a scricchiolare dopo la guerra di Crimea (1853),
quando l’occidente non vede più nei flussi commerciali
delle granaglie quel grande tesoro da difendere.
Nella seconda metà dell’Ottocento, la Russia è investita
dal terrore: dei complotti e delle rivolte come della
repressione crudele e del controllo ferreo
di ogni movimento politico. In questo contesto
si scriverebbe la seconda parte della storia di
Odessa.
La complicata
composizione di quest’organismo urbano, secondo
King fu ampiamente sfruttata per contenere
e sedare le più diverse tensioni politiche
e rivendicazioni: ora di un nazionalismo
crescente, che ideologicamente tendeva
a limitare e a prevaricare i diritti
delle tante componenti culturali e nazionali;
ora in nome di maggiore uguaglianza, che confusamente
identificava posizione economico-sociale
e appartenenza etnica. La parte di popolazione
che più soffrì di questo clima di ostilità fu
quella di religione ebraica. In circa trenta anni, il pogrom
divenne sempre più frequente e tanto temuto da
accelerare la fuga di ebrei dalla città.
L’apice di queste violenze si raggiunse in un contesto davvero eccezionale di insurrezioni e scioperi e rivolte: è l’anno 1905, quello che sarebbe poi diventato per i Bolscevichi l’anno della piccola rivoluzione. Se è vero che è un mito, come King in tutti i modi si adopera a dimostrare, Corazzata Potëmkin avrebbe contribuito molto alla sua definizione. Certo il film riesce a condensare in una sola immagine l’eroicità e il sacrificio della rivolta popolare come l’audacia di singoli uomini: e tutto accade su quella scalinata che in questo modo avrebbe identificato a sé Odessa e con la città lo spirito della rivoluzione. Mito, forse sì, comunque ispirato da un’idea di solidarietà tra popoli e classi sociali che avrebbe anche potuto contribuire ad attenuare le rivalità interculturali perseveranti.
L’autore non ha del
tutto torto a concentrare l’attenzione, nel finale
del libro, sul destino degli ebrei di Odessa: quando nel 1941 le
truppe rumene prendono il controllo della città,
compiono l’atto sistematico di concentrazione,
deportazione e soppressione della
popolazione ebraica e chi sopravvive è in
fuga. Una tragedia che per fortuna non si
è amalgamata con l’immagine della città, pur
essendone necessario il ricordo. Almeno questo
episodio non sopravvive in nessuno stereotipo.
Il Manifesto/Alias – 14
novembre 2013
Charles King
Odessa. Splendore
e tragedia di una città di sogno
Einaudi, 2013
euro 30,00
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