Massimo Montanari
L’Europa è
un’Unione fondata sul maiale
Dal Medioevo
la nostra cultura comune nasce anche a tavola con pane e carne,
vino e birra
Esiste
una cucina europea? Si direbbe di no: la varietà degli
ingredienti, dei modi di preparazione, dei gusti che
caratterizzano i singoli paesi e le singole regioni dei singoli
paesi sta a testimoniare una diversità di culture, di vicende
storiche, di atteggiamenti nei confronti del cibo. Tuttavia, è
anche evidente l’esistenza di una comune identità, che,
nell’insieme, contraddistingue come un’unità queste
diverse culture. Un’identità in qualche modo analoga a
quella che si ritrova all’interno di ciascun paese, che
dall’esterno appare dotato di una cultura omogenea ma poi si
rivela, a guardarlo più da vicino, articolato e differenziato.
Anche l’Europa
nel suo insieme funziona così: grandi diversità locali,
regionali, nazionali; forte identità complessiva. Fra questi
due poli solo apparentemente contraddittori si muove la cultura
alimentare degli europei. L’identità si forma con la nascita
stessa dell’Europa ed è, dunque, una creazione medievale.
Essa nasce dall’incontro - dapprima soprattutto uno scontro -
tra culture diverse e contrapposte: quella dei romani (nozione
estremamente diversificata al suo interno, che esprime
un’appartenenza civile e non etnica) e quella dei barbari, le
popolazioni di stirpe germanica e slava che nel Medioevo
entrano in Europa: esattamente da questo incrocio prende
vita la nuova civiltà medievale, né romana né
barbarica, ma le due cose insieme.
Agli albori del
Medioevo, lo scontro fra romani e barbari è anche uno scontro
di modelli alimentari: la cultura del pane, del vino e
dell’olio (simboli della civiltà agricola romana) si oppone
alla cultura della carne, della birra e del burro (simboli
della civiltà barbarica e in particolare delle popolazioni
germaniche, più legate all’uso della foresta che alla
pratica dell’agricoltura).
Ma i due mondi a
poco a poco si integrano e si viene delineando un modello
alimentare romano- barbarico che rispecchia da vicino ciò che
sta avvenendo in tutti i campi del vivere civile, sul piano
delle strutture sociali (con il mescolarsi delle etnie),
delle istituzioni (la formazione dei cosiddetti regni
romanobarbarici), della cultura giuridica (l’innesto delle
consuetudini non scritte delle nuove popolazioni nella
tradizione legislativa romana).
I modi di
sfruttamento del territorio e i costumi alimentari vengono
anch’essi uniformandosi, con l’incrocio tra cultura
agricola e cultura forestale, che dà vita a modi di produzione
complessi che mescolano cereali, la viticoltura e l’orticoltura
all’allevamento brado del bestiame, alla caccia.
Il fascino dei
modelli antichi (tradizione romana) e il prestigio della nuova
classe dirigente (in prevalenza barbarica) sono veicoli di
questa integrazione, che finisce per assegnare non a uno, ma a
due prodotti-chiave, il pane e la carne, il ruolo di
protagonista. Se per la cultura romana il pane era il cibo
ideale dell’uomo, e se per la cultura barbarica questo ruolo
spettava alla carne, nel Medioevo si afferma una nuova cultura
che vede nella compresenza di pane e carne (dei prodotti
vegetali e dei prodotti animali) il modello perfetto di regime
alimentare.
In tale processo di
osmosi è decisiva la diffusione del cristianesimo, da un lato
perché essa significa una forte promozione d’immagine del
pane, del vino e dell’olio, simboli e strumenti della nuova
fede; dall’altro perché la Chiesa introduce obblighi di
alternanza fra cibi diversi - “di grasso” e “di magro”:
se durante la Quaresima (e in altri giorni di penitenza)
si doveva rinunciare alla carne e ai grassi animali,
sostituendoli con cereali e verdure e con gli oli vegetali, non
meno vincolante era la consuetudine di segnalare con il consumo
di carne e di lardo le feste (per non parlare del Carnevale).
In questo modo si sollecitava la presenza di tutti i cibi, di
tutti i grassi, di tutti i condimenti su tutte le tavole
dell’Europa cristiana.
Soprattutto un
tipo di carne, quella di maiale, diventerà il simbolo di
questa Europa, non solo per motivi di carattere economico (la
centralità della pastorizia suina) ma anche per cause
culturali e religiose: il maiale, escluso dalla mensa ebraica e
da quella isla- mica, funzionava perfettamente da
indicatore dell’identità cristiana.
Questo fenomeno di
integrazione, che nei secoli medievali venne delineando una
comune identità alimentare dell’Europa, si percepisce anche
sul piano della gastronomia, ossia nella preparazione degli
alimenti. Innanzitutto dietro tali scelte si intravede una
comune cultura dietetica, basata sui fondamenti dettati dalla
scienza di Ippocrate e Galeno.
Le modalità di
cottura, gli accostamenti tra carni e salse, si definiscono in
base a regole ribadite in tutti i trattati di medicina del
tempo: combinare le diverse qualità degli alimenti (umida o
secca, fredda o calda) in rapporto alle necessità;
temperarle fino a raggiungere un punto ideale di
equilibrio...
Queste norme si
travasano nelle pratiche di cucina, rendendole
“filosoficamente” coerenti e omogenee. Anche per questo i
ricettari manoscritti del XIV-XV secolo rivelano, al di là
delle differenze regionali, una forte circolarità di idee, una
sorta di koinè gastronomica che unisce i paesi europei nel
nome di ricette simili, di gusti affini.
L’agrodolce, per
esempio, trionfa ovunque. Così l’uso delle spezie, legato
sia alle teorie dietetiche del tempo (che assegnavano a quei
prodotti capacità digestive) sia al prestigio che le costose
polveri orientali conferivano alla tavola.
Eppure, questa
cucina internazionale conosce infinite varianti locali. Una
micro-storia è istruttiva poiché ci mostra lo straordinario
spessore storico che si nasconde dietro le tradizioni di
cucina. Nei modi diversi di preparare il cibo si percepisce un
forte retrogusto storico, e non è difficile intuire quanta
ricchezza e varietà di sapori possa aver prodotto una storia
travagliata e complessa come quella dell’Europa medievale e
moderna.
Dietro ogni
prodotto, dietro ogni piatto, dietro ogni sapore c’è una
storia diversa, e si è ormai fatta strada con forza l’idea
che valga la pena studiare queste storie, conservare e
valorizzare quei prodotti, quei piatti, quei sapori come
altrettanti “beni culturali”. In tale direzione si muovono
recenti iniziative della Ue, volte a censire le varietà
gastronomiche locali nel segno della cosiddetta tipicità.
La Repubblica – 10
aprile 2014
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