25 ottobre 2014

LINGUA E POTERE IN GIORGIO VASTA





         L'edizione palermitana di Repubblica  ha pubblicato ieri una parte  del saggio  di Giorgio Vasta che analizza acutamente i  linguaggi verbali e non verbali che occupano la scena dell'ultimo geniale film di Franco Maresco (Belluscone) , di cui abbiamo già parlato in questo blog.
           Mi riservo di ritornare sul saggio di Vasta - integralmente pubblicato sulla rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi - non appena sarà disponibibe sulla rete. 
          Oggi, anche per fornire qualche chiave in più per la migliore comprensione del pensiero di questo interessante giovane scrittore, recupero un suo profilo critico pubblicato l'anno scorso:

Giorgio Vasta: la militanza del linguaggio

 di Giacomo Raccis
Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente
(G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani)
Tutto deve partire da una considerazione semplice quanto assiomatica: Giorgio Vasta è uno dei migliori scrittori della sua generazione. Si tratta di una dato unanimemente riconosciuto. E la cosa è tanto più sorprendente se si considera la produzione narrativa al suo attivo. Molti racconti sparsi in antologie e riviste hanno anticipato il sorprendente esordio romanzesco, Il tempo materiale (minimum fax 2008), che ha riscosso notevoli apprezzamenti e una candidatura al Premio Strega – che di questi tempi è tutta da interpretare! A quel romanzo però sono seguiti due “organismi testuali ibridi”, che solo in parte possono soddisfare i lettori che erano rimasti folgorati dalla straordinaria abilità di Vasta nel coniugare una sapiente calibratura stilistica con la coerente architettura narrativa: Spaesamento (Laterza 2010) si può considerare, infatti, una sorta di spin-off di quel primo romanzo (di cui riprende l’ambientazione e “aggiorna” alcune considerazioni), vincolato per di più a esigenze di coerenza editoriale (la vocazione “topografica” della collana Contromano); Presente (Einaudi 2012), invece, scritto a quattro mani con Andrea Bajani, Michela Murgia e Paolo Nori, è il risultato del progetto «Diario in Circolo», ideato e curato da Vasta per il Circolo dei Lettori di Torino. Due prove che permettono sicuramente di ritrovare la potenza mitopoietica e l’etica severa della scrittura di Vasta, ma che risultano eccessivamente condizionate da una progettualità esterna per poter essere messe sullo stesso piano di quella prima opera d’autore.
Tuttavia, se così “debole” risulta la bibliografia narrativa di Vasta, si deve anche dire che altre sono le prove e le forme di scrittura che completano il suo profilo intellettuale, rendendolo una delle figure di riferimento nel panorama culturale italiano. Quella che abitualmente viene considerata la produzione “collaterale” nell’attività di uno scrittore – consulenze editoriali (Einaudi, Chiarelettere, :duepunti), collaborazioni con i giornali («il manifesto», «la Repubblica»), scrittura in rete (dai tanti articoli su «Nazione Indiana» all’attuale collaborazione a «minima&moralia»), curatela di volumi (come Anteprima nazionale, minimum fax 2009) -, nell’opera di Vasta diventa parte integrante di una militanza culturale più ampia, che trova un’ulteriore declinazione nell’organizzazione materiale della cultura: a lungo insegnante alla Scuola Holden di Torino, Vasta è ideatore e collaboratore di manifestazioni come Torino Spiritualità, Scrittorincittà a Cuneo e Roland Macchine & Animali a Milano, dalla primavera del 2011 è tra i principali animatori del movimento TQ e negli ultimi due anni ha tenuto presso l’Università di Bergamo un laboratorio sugli Strumenti per interpretare il presente.
Al giorno d’oggi, si sa, di sola letteratura non si vive, e tanti scrittori sono chiamati sempre più spesso a un disparato lavoro culturale che li rende a un tempo onnipresenti e ininfluenti. L’attivismo di Vasta, invece, si distingue per il suo essere pervasivo eppure silenzioso, mai fuori dalle righe, animato com’è da un progetto preciso che trascende i specifici contesti e le diverse contingenze. Comprendere, spiegare e prendere posizione: questi sono i capisaldi di una militanza intellettuale che trova nell’intervento culturale la naturale prosecuzione della scrittura.
E non è un caso che proprio il concetto di militanza sia centrale nella poetica di Vasta. Il tempo materiale racconta la vicenda di tre ragazzini palermitani che rifiutano la realtà che li circonda: l’irresponsabile banalità affettiva dei genitori, l’inerte spirito emulativo dei coetanei, l’enfasi vacua del linguaggio dello spettacolo e l’indignazione altrettanto vacua del discorso politico nei giorni del sequestro Moro sono i contrassegni di un mondo – Palermo, l’Italia – verso il quale i tre ragazzini covano un odio sordo, che li spinge a maturare una coscienza critica e ideologica sorprendente – per non dire inverosimile – per la loro età. Da questo odio nasce una spropositata reazione: Nimbo, Volo e Raggio – questi i nomi che i tre si danno per sancire l’ingresso nella militanza – fondano il “NOI”, Nucleo Osceno Italiano, cellula brigatista che prova a farsi carico di tutto ciò che il resto della comunità evita ed esorcizza: la responsabilità. A partire da questa consapevolezza prende forma una rivolta metodica e intransigente, che deve necessariamente passare per la colpa, unica alternativa all’ignavia, all’ignara complicità di cui tutti si macchiano nel momento in cui nascono al mondo: perché «essere colpevoli è una responsabilità» (74). Lo scontro si radicalizza e sfocia nella violenza (il sequestro e l’uccisione di un compagno di classe), unico modo per infierire sul corpo di un paese «tiepido», assuefatto a tutto e incapace di reazione (come gli animali agonizzanti per i vicoli di Palermo). Il loro progetto tuttavia è senza fine, destinato a fallire: se proprio la sconfitta viene invocata a sancire, in un rigurgito di titanismo romantico, la tragica necessità della loro azione, qualcosa nel finale sembra evadere dai rigidi schemi con cui i tre brigatisti avevano pensato di poter “esaurire” il mondo.
In Spaesamento e Presente, testi rubricabili sotto l’ambigua etichetta dell’autofiction, quel senso di responsabilità disciplinata e severa cambia forme, trova motivazioni diverse, ma rimane immutata nella sostanza. Nel primo testo, per tre giorni, l’io autoriale si trasforma in «sonda umana» e attraversa Palermo e i suoi dintorni in un esercizio di metodica flânerie: esplorando e raccontando luoghi, persone e percezioni, cerca di trovare una spiegazione alla «malinconia fisiologica» (95) che lo affligge. Quell’interrogazione prosegue in Presente, scandita dallo scorrere dei giorni sulle pagine del diario: per un anno la vicenda dello scrittore si intreccia con la storia quotidiana di un paese, l’Italia, che ha perso il senso del tempo e vive immerso in un eterno presente, sempre uguale a se stesso. In questi racconti alla verticalità terroristica dei ragazzini ideologici si sostituisce l’orizzontalità esplorativa dei due narratori: un paragonabile grado di violenza viene raggiunto perforando la superficie delle cose e sprofondandovi dentro, fino ad arrivare a scuoterne le stratificazioni di senso, le concrezioni simboliche. Viene meno una forte impalcatura narrativa – quella che rende Il tempo materiale un bel romanzo, oltre che un libro imprescindibile – e il «carotaggio» della realtà diventa ragione autosufficiente della scrittura. La precisione lessicale – consolidata da un’impressionante padronanza delle più distanti terminologie -, l’intensità figurale, il rigore sintattico, la profondità analitica diventano le armi e le pratiche di un nuovo terrorismo. All’azione fisica degli attentati, dei sequestri, delle torture, si sostituiscono il rigore percettivo e la disciplina linguistica.
Questo carotaggio ­si spinge fino al livello microscopico, dove scopre una realtà organica e magmatica, composta da un flusso di materia in continua trasformazione. Quella di Vasta è una concezione “fisiologica” del mondo, che riconosce anche nella più avanzata modernità, il regno di una Natura leopardiana, che attraversa il tempo e resta indifferente ai significati che l’uomo attribuisce alle sue momentanee conformazioni. All’origine è la materia, verso la quale ogni uomo avverte un istintivo desiderio di ritorno: contro il demone dell’indistinzione, tuttavia, la civiltà ha elaborato una strategia, la costruzione di un palinsesto che dia al mondo una struttura, un senso, un fine. Strumento di questa sfida che l’uomo lancia alla Natura è il linguaggio. Attraverso la parola la realtà viene minuziosamente cartografata; l’occhio vi si muove per riconoscere nei simboli dei segni concreti. Occhio e parola collaborano allo scopo di «conficcare nello spazio più tempo possibile» (Presente, 263). Alla lettera, recuperare il “tempo materiale”.
È su questo piano che la militanza di Vasta trova traduzione sulla pagina, tanto a livello tematico, quanto a livello metaletterario. Nel linguaggio si svolge il primo apprendistato dei ragazzini ideologici del Tempo materiale: la costruzione delle frasi diventa il loro modo di distinguersi da una civiltà che ha reso sterile la lingua attraverso l’ironia e la retorica. Il linguaggio è anche il tema centrale delle riflessioni dei “Giorgio Vasta” che parlano in Presente e Spaesamento: l’attento riconoscimento dei cortocircuiti tra politica, cultura di massa e costume nazionale, che hanno prodotto l’immaginario moderno, si associa sempre alla consapevolezza che è il linguaggio il mezzo attraverso cui questo immaginario si trasmette. E non si tratta di uno strumento imparziale: al contrario esso dice sempre la posizione morale di chi lo adotta. «Non è vero che la metafora è uno spazio neutro, strutturalmente innocente. Il linguaggio non è mai innocente. La metafora descrive di riflesso chi la inventa e la usa, ne fa un ritratto fedele» (Presente, 75). Il linguaggio è infine, nella vita “reale”, il «denominatore comune» dei lavoratori della conoscenza che hanno dato vita a TQ, che provano a dare alle parole una presenza fisica, che dia significato alla comune esperienza del presente.
Quando Andrea Cortellessa, introducendo la sezione a dedicata a Vasta nel recente Narratori degli anni Zero (Ponte Sisto 2012), lo definisce «instancabile demiurgo delle nostre giovani lettere», non intende riferirsi solo alla sua attività di organizzatore culturale, di cui sopra s’è detto, bensì, e soprattutto, alla sua capacità di trasformare la pagina scritta nel luogo di un incontro e di uno scontro, di un’azione politica, a un tempo individuale ed esemplare. Nella scrittura la lingua del discorso analizzato, decostruito e interpretato si confronta con la lingua utilizzata per analizzare, decostruire e interpretare. Chi scrive, mentre descrive i comportamenti linguistici, le deformazioni, le mistificazioni e le censure che il discorso contemporaneo implicitamente impone, avanza parallelamente il proprio modello. Alla devastante ironia con cui Berlusconi rende inutilizzabile il linguaggio, affermando al tempo stesso una cosa e il suo contrario (la politica delle battute e delle smentite), Vasta contrappone uno stile che tende alla distinzione, alla demarcazione degli spazi, alla definizione univoca dei significati. Tuttavia, di fronte a questa operazione di depurazione cartesiana si staglia un limite.
I tre piccoli brigatisti elaborano un linguaggio gestuale che permetta loro di liberarsi dalla lingua abusata e fiacca della comunicazione comune: l’alfamuto, alfabeto gestuale che risemantizza le pose più note della cultura mediatica, sembra poter incarnare il loro sogno di una nuova espressione, priva di ambiguità e capace di agire sulla realtà. E invece questo sogno si deve scontrare con i suoi corti orizzonti: mancano dei vocaboli, ci sono dei concetti che non si possono tradurre in segno. Allo stesso modo, in Presente e Spaesamento, la spietata analisi del linguaggio quotidiano, la nitida consapevolezza della reciproca, devastate influenza che esercitano pensiero “dialettale” e vulgata massmediatica, non rende l’io capace di intervenire, di contraddire. “Giorgio Vasta” rimane isolato e muto: ha distrutto il mondo verbale che detesta, ma non trova i termini per rifondarne un altro. «Io sono ciò che resta quando qualcosa finisce, quando non si trova il fiato, quando la scrittura sparisce» (Presente 78).
Non è un caso se su tutti questi testi aleggia il senso di una sconfitta non rassegnata, ma inevitabile. È la sconfitta dei personaggi, di Nimbo, dei suoi compagni brigatisti, ma è soprattutto la sconfitta dell’autore e della figura che egli sa di incarnare: l’intellettuale. È proprio l’intellettuale il protagonista implicito di ogni discorso, di ogni riflessione, e compare in tutta la sterilità a cui lo condanna questo asfittico presente. L’intellettuale è come un padre putativo, desideroso di imporre la sua paternità al mondo eppure drammaticamente infecondo. Agogna una rivoluzione che gli restituisca la capacità di generare, di produrre, in primo luogo conseguenze. L’esplorazione narrativa di Vasta arriva a spiegare il motivo di questa drammatica sterilità e svela una paradossale complicità che questo intellettuale ha con il mondo: «siamo indistinguibili da ciò che pensiamo di contrastare» (Spaesamento 91). Egli ha riconsegnato un senso delle parole, ha recuperato la consapevolezza del linguaggio, ma continua a esprimersi nello stesso idioma della civiltà che vorrebbe zittire: «mi faccio complice silenzioso perché anche il silenzio, questo mio silenzio, fa parte del discorso» (100). L’esibita facoltà di comprensione si rivela un semplice alibi, tanto più dannoso quanto più appare credibile. S’impone un senso di colpevolezza e di impotenza: «questa intelligenza fa parte della resa» (107).
Resta, tuttavia, lo spazio per la speranza di un’intelligenza «utile», che arrivi a riscattare l’attuale infecondità dell’uomo. E sono, inaspettatamente, delle bambine a farsene carico: c’è Wimbow, la ragazzina muta che nel Tempo materiale mette Nimbo di fronte alla violenza espressiva di un silenzio capace di dire ciò che le parole non riescono a dire; c’è la Stefi, bambina dialettale che riduce il mondo, con il suo ordine e il suo caos, in un semplice gesto; e c’è Marta, la «treenne» che in Presente insegna a “Giorgio Vasta”, con il suo italiano traballante, che le storie sono oggetti malleabili, forme mobili e mai definitive. Su di loro si dirige l’ultimo sguardo dello scrittore. Ammirato e disorientato, egli trova in queste bambine il luogo in cui il linguaggio viene sospeso e l’uomo riesce a ricostruire dei legami, evadendo dal proprio isolamento. Riconosce l’ingenuità e la delicatezza della loro azione rivoluzionaria, sa quanto poco basti a corromperle definitivamente. Ma decide ugualmente di investirle di «una fiducia incoerente e infondata… qui, nel cosciente disincanto» (118). Dalla loro capacità di violare ogni paradigma s’innesca una nuova tensione di cui investire la propria militanza. Nella loro capacità di continuare a generare storie Giorgio Vasta riesce finalmente a scrivere la possibilità di un futuro.
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23 luglio 2013
Pubblicato su

L'articolo è  uscito in versione cartacea sulla rivista "Orlando Esplorazioni" (Giulio Perrone Editore), n. 2-marzo 2013

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