28 ottobre 2014

IL RICETTARIO DI P. ARTUSI HA UNIFICATO L'ITALIA



Scapolo, banchiere, Artusi pubblica nel 1891 «La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene», un libro divenuto mitico che si propone di unificare la lingua del paese.
Prima puntata di una breve storia della gastronomia in Italia.

Benedetta Diamanti

Il ricettario che ha fatto l’Italia

Il Nove­cento è il secolo in cui la cul­tura gastro­no­mica ita­liana vive la sua fase di mag­giore con­sa­pe­vo­lezza e atti­vità. Si risco­prono e inven­tano tra­di­zioni, nasce il con­cetto di cucina regio­nale, si asse­gnano appar­te­nenze gastro­no­mi­che, si costrui­sce un lin­guag­gio spe­ci­fico, nascono le spe­cia­lità e i pro­dotti tipici. Pel­le­grino Artusi è il padre di que­sta rivo­lu­zione: ban­chiere sca­polo ori­gi­na­rio di For­lim­po­poli, natu­ra­liz­zato fio­ren­tino, pub­blica a sue spese La scienza in cucina e l’arte di man­giar bene e lo vende per posta. Il 1891 cele­bra lla prima edi­zione del ricet­ta­rio più noto d’Italia che si pro­pone di uni­fi­care il Paese anche in cucina.

Dedi­cato ai suoi gatti, è frutto dello stu­dio di anti­chi ricet­tari, di spe­ri­men­ta­zioni culi­na­rie, ma anche di nume­rosi viaggi in treno alla sco­perta delle tra­di­zioni locali. Artusi va fin dove si estende la rete fer­ro­via­ria, l’Italia che rap­pre­senta è par­ziale e for­te­mente tosca­niz­zata, tutto il Sud e buona parte del cen­tro sono esclusi. Di anno in anno amplia il reper­to­rio con le ricette inviate dalle let­trici, e cura le rie­di­zioni fino al 1911, anno della sua morte.

Secondo Piero Cam­po­resi la Scienza in cucina è riu­scita meglio dei Pro­messi sposi a uni­fi­care la lin­gua e la cul­tura ita­liana. Dedi­cato alle mas­saie bor­ghesi, il libro pro­pone una cucina che fil­tra tra­di­zione e inno­va­zione attra­verso un gusto medio che Artusi con­tri­bui­sce a creare in maniera deci­siva. Se molte regioni riman­gono escluse, tut­ta­via con Artusi ini­zia quel pro­cesso di uni­fi­ca­zione e valo­riz­za­zione della cucina ita­liana che passa attra­verso il rico­no­sci­mento delle pecu­lia­rità locali: sono le diver­sità a costi­tuire la ric­chezza uni­ta­ria. Pro­prio que­sto aspetto soprav­vive e carat­te­riz­zerà poi il Novecento.

Il seme get­tato da Artusi incon­tra tra gli anni Venti e Trenta una nuova spinta pro­pul­siva: il dif­fon­dersi del viag­gio e della let­te­ra­tura ode­po­rica. Gior­na­li­sti e scrit­tori par­tono alla sco­perta di un’Italia inso­lita, attratti da iti­ne­rari poco bat­tuti, lon­tano dalle città, alla ricerca delle tra­di­zioni. Nascono così nume­rosi sot­to­ge­neri della let­te­ra­tura di viag­gio, tra cui pro­prio il viag­gio gastro­no­mico, molto pro­li­fico negli anni Trenta. Se da que­gli anni è pos­si­bile vedere un incre­mento del repor­tage culi­na­rio è anche gra­zie all’uscita e alla dif­fu­sione di due testi sin­go­lari, che fanno da apri­pi­sta, ispi­ra­zione e stru­mento utile di viag­gio: Oste­ria di Hans Barth (1909) e la Guida Gastro­no­mica d’Italia del Tou­ring Club Italiano(1931).



Hans Barth è tede­sco, ma vive a Roma ed è cor­ri­spon­dente del Ber­li­ner Tage­blatt; parla l’italiano, cono­sce il latino e ama la civiltà clas­sica. Ma ama anche il vino e il cibo, così decide di par­tire alla volta delle mag­giori città ita­liane alla sco­perta delle can­tine migliori, per farne una guida per i suoi con­na­zio­nali, che esce nel 1908 e l’anno suc­ces­sivo viene tra­dotta in ita­liano col titolo di Oste­ria, Guida spi­ri­tuale delle oste­rie ita­liane da Verona a Capri. Il viag­gio di Barth non è tanto inno­va­tivo dal punto di vista delle mete toc­cate, che rispec­chiano sostan­zial­mente quelle del Gran Tour, ma nella moda­lità del viag­gio, libera e not­turna, svin­co­lata dalle pre­scri­zioni della guida Bae­dec­ker.

Il vero motore del viag­gio è l’atavica sete del viag­gia­tore. Barth abban­dona impo­ma­tati hotel per le oste­rie, ter­mine che indica per lui i luo­ghi più dispa­rati, basta che si beva: entriamo in bir­re­rie, caf­fet­te­rie, can­tine, bot­ti­glie­rie, fia­schet­te­rie e così via. Il cibo ha un ruolo secon­da­rio, di accom­pa­gna­mento. Dato che spesso nei locali si serve solo da bere, tro­viamo indi­cate anche bot­te­ghe di piz­zi­ca­gnoli e salu­mai dove poter acqui­stare quel poco che basta a far scor­rere meglio il vino.

La qua­lità dei vini, il loro legame col ter­ri­to­rio non inte­ressa, si cerca la quan­tità, l’economicità, l’ebbrezza, non solo del vino, ma del luogo, dell’atmosfera, della sto­ria, dei seni delle ostesse, degli odori degli ambienti, dello scam­bio con gli avven­tori abitudinari.



Il secondo testo a dare un’impronta deci­siva allo svi­luppo del viag­gio gastro­no­mico è la Guida gastro­no­mica d’Italia del TCI del 1931. Que­sta guida nasce da un’operazione inno­va­tiva e lun­gi­mi­rante, che colma una grande lacuna nel mer­cato in espan­sione del turi­smo e delle guide, stru­menti pra­tici che devono rispon­dere a tutti i pos­si­bili biso­gni del viag­gia­tore.

Se il patri­mo­nio cul­tu­rale, la rete stra­dale, i mer­cati, le oste­rie, gli alber­ghi erano stati cen­siti dal TCI in appo­site guide, man­cava ancora un cen­si­mento uffi­ciale dei cibi ita­liani, uno stru­mento per orien­tarsi e che mostrasse un’identità gastro­no­mica unita, utile sia ai viag­gia­tori nostrani che ai viag­gia­tori stra­nieri. Solo un’associazione con una forte iden­tità nazio­nale, un radi­ca­mento sul ter­ri­to­rio e una visione geo­gra­fica come il Tou­ring poteva com­piere un’impresa del genere. La trat­ta­zione avviene per regione, poi per pro­vin­cia, segna­lando anche sin­gole loca­lità che si distin­guono per un pro­dotto spe­ci­fico. Non tutte le regioni sono sullo stesso piano, Basi­li­cata e Sar­de­gna per esem­pio sono affron­tate sommariamente.

Pellegrino Artusi
















È evi­dente quanto sia forte il mes­sag­gio poli­tico e ideo­lo­gico che porta la Guida Gastro­nomica: le mol­te­plici realtà e spe­cia­lità pro­po­ste non vanno inter­pre­tate come prova di mille iden­tità ali­men­tari diverse, bensì come testi­mo­nianza di unità.

La Guida con­tri­bui­sce all’invenzione delle «cucine regio­nali» ita­liane, dimen­sione che non dà una cor­retta inter­pre­ta­zione sto­rica e cul­tu­rale della realtà, in cui sarebbe più giu­sto par­lare di cucine «locali» e «cit­ta­dine», unite in una rete, a for­mare una varie­gata cucina «nazio­nale»; tut­ta­via la dimen­sione regio­nale sem­pli­fica la gestione e la comu­ni­ca­zione delle infor­ma­zioni. L’unificazione gastro­no­mica è ormai com­piuta, la strada è aperta a grandi viag­gia­tori golosi, come Paolo Monelli e Mario Sol­dati , che con la loro penna con­tri­bui­ranno a for­mare l’identità ita­liana in cucina.


Il Manifesto – 17 ottobre 2014

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