Scapolo, banchiere,
Artusi pubblica nel 1891 «La scienza in cucina e l'arte di mangiare
bene», un libro divenuto mitico che si propone di unificare la
lingua del paese.
Prima puntata di una breve storia della gastronomia
in Italia.
Benedetta Diamanti
Il ricettario che ha
fatto l’Italia
Il Novecento è il
secolo in cui la cultura gastronomica italiana vive
la sua fase di maggiore consapevolezza
e attività. Si riscoprono e inventano
tradizioni, nasce il concetto di cucina regionale,
si assegnano appartenenze gastronomiche,
si costruisce un linguaggio specifico,
nascono le specialità e i prodotti tipici.
Pellegrino Artusi è il padre di questa
rivoluzione: banchiere scapolo originario
di Forlimpopoli, naturalizzato
fiorentino, pubblica a sue spese La scienza
in cucina e l’arte di mangiar bene e lo vende
per posta. Il 1891 celebra lla prima edizione del
ricettario più noto d’Italia che si propone di
unificare il Paese anche in cucina.
Dedicato ai suoi
gatti, è frutto dello studio di antichi
ricettari, di sperimentazioni culinarie,
ma anche di numerosi viaggi in treno alla scoperta delle
tradizioni locali. Artusi va fin dove si estende la rete
ferroviaria, l’Italia che rappresenta
è parziale e fortemente toscanizzata,
tutto il Sud e buona parte del centro sono esclusi. Di anno
in anno amplia il repertorio con le ricette inviate dalle
lettrici, e cura le riedizioni fino al 1911, anno
della sua morte.
Secondo Piero Camporesi
la Scienza in cucina è riuscita meglio
dei Promessi sposi a unificare la
lingua e la cultura italiana. Dedicato alle
massaie borghesi, il libro propone una cucina che
filtra tradizione e innovazione
attraverso un gusto medio che Artusi contribuisce
a creare in maniera decisiva. Se molte regioni rimangono
escluse, tuttavia con Artusi inizia quel processo
di unificazione e valorizzazione
della cucina italiana che passa attraverso il
riconoscimento delle peculiarità locali:
sono le diversità a costituire la ricchezza
unitaria. Proprio questo aspetto sopravvive
e caratterizzerà poi il Novecento.
Il seme gettato da
Artusi incontra tra gli anni Venti e Trenta una nuova
spinta propulsiva: il diffondersi del viaggio
e della letteratura odeporica.
Giornalisti e scrittori partono alla
scoperta di un’Italia insolita, attratti da itinerari
poco battuti, lontano dalle città, alla ricerca delle
tradizioni. Nascono così numerosi sottogeneri
della letteratura di viaggio, tra cui proprio
il viaggio gastronomico, molto prolifico
negli anni Trenta. Se da quegli anni è possibile
vedere un incremento del reportage culinario
è anche grazie all’uscita e alla diffusione
di due testi singolari, che fanno da apripista,
ispirazione e strumento utile di
viaggio: Osteria di Hans Barth (1909) e la Guida
Gastronomica d’Italia del Touring Club
Italiano(1931).
Hans Barth è tedesco,
ma vive a Roma ed è corrispondente
del Berliner Tageblatt; parla l’italiano,
conosce il latino e ama la civiltà classica. Ma ama
anche il vino e il cibo, così decide di partire alla volta
delle maggiori città italiane alla scoperta delle
cantine migliori, per farne una guida per i suoi
connazionali, che esce nel 1908 e l’anno
successivo viene tradotta in italiano col titolo
di Osteria, Guida spirituale delle osterie
italiane da Verona a Capri. Il viaggio di Barth non
è tanto innovativo dal punto di vista delle mete
toccate, che rispecchiano sostanzialmente quelle
del Gran Tour, ma nella modalità del viaggio, libera
e notturna, svincolata dalle prescrizioni
della guida Baedecker.
Il vero motore del
viaggio è l’atavica sete del viaggiatore.
Barth abbandona impomatati hotel per le osterie,
termine che indica per lui i luoghi più disparati,
basta che si beva: entriamo in birrerie, caffetterie,
cantine, bottiglierie, fiaschetterie
e così via. Il cibo ha un ruolo secondario, di
accompagnamento. Dato che spesso nei locali si serve
solo da bere, troviamo indicate anche botteghe di
pizzicagnoli e salumai dove poter
acquistare quel poco che basta a far scorrere meglio
il vino.
La qualità dei
vini, il loro legame col territorio non
interessa, si cerca la quantità, l’economicità,
l’ebbrezza, non solo del vino, ma del luogo, dell’atmosfera,
della storia, dei seni delle ostesse, degli odori degli
ambienti, dello scambio con gli avventori abitudinari.
Il secondo testo a dare
un’impronta decisiva allo sviluppo del viaggio
gastronomico è la Guida gastronomica
d’Italia del TCI del 1931. Questa guida nasce da
un’operazione innovativa e lungimirante,
che colma una grande lacuna nel mercato in espansione del
turismo e delle guide, strumenti pratici che
devono rispondere a tutti i possibili
bisogni del viaggiatore.
Se il patrimonio
culturale, la rete stradale, i mercati, le
osterie, gli alberghi erano stati censiti dal TCI in
apposite guide, mancava ancora un censimento
ufficiale dei cibi italiani, uno strumento per
orientarsi e che mostrasse un’identità gastronomica
unita, utile sia ai viaggiatori nostrani che ai
viaggiatori stranieri. Solo un’associazione con una
forte identità nazionale, un radicamento sul
territorio e una visione geografica
come il Touring poteva compiere un’impresa del genere. La
trattazione avviene per regione, poi per provincia,
segnalando anche singole località che si distinguono
per un prodotto specifico. Non tutte le regioni sono
sullo stesso piano, Basilicata e Sardegna
per esempio sono affrontate sommariamente.
Pellegrino Artusi |
La Guida contribuisce
all’invenzione delle «cucine regionali» italiane,
dimensione che non dà una corretta interpretazione
storica e culturale della realtà, in cui sarebbe
più giusto parlare di cucine «locali» e «cittadine»,
unite in una rete, a formare una variegata cucina
«nazionale»; tuttavia la dimensione regionale
semplifica la gestione e la comunicazione
delle informazioni. L’unificazione gastronomica
è ormai compiuta, la strada è aperta a grandi
viaggiatori golosi, come Paolo Monelli e Mario
Soldati , che con la loro penna contribuiranno
a formare l’identità italiana in cucina.
Il Manifesto – 17
ottobre 2014
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