Latenza
di Remo Ceserani
La parola latenza (dal latino “lătēre”,
stare nascosto, imparentato con il greco “lethe”, oblivio, e con lontane
radici indoeuropee) è presente in tutte le lingue occidentali (è invece
specificamente italiana la parola latitanza, dal latino latitare; forse
perché siamo un paese di banditi e fuorilegge?).
Il primo a lanciare la parola sul piano
culturale è stato, nel 1904, Sigmund Freud, prendendola dal linguaggio
medico (latenza di una malattia) per indicare, in psicoanalisi, il
periodo che va dai cinque anni alle prime manifestazioni della pubertà,
contrassegnato da una desessualizzazione delle relazioni oggettuali e
dalla nascita di sentimenti come il pudore e la repulsione e di
aspirazioni etiche ed estetiche, conseguenti a un blocco dell’evoluzione
sessuale del soggetto. Da allora la parola ha esteso il suo campo di
applicazioni: nel 1909 l’antropologo francese Anton Van Gennep ha
distinto, nei riti di passaggio delle società primitive, tre fasi: la
separazione o «morte» della precedente condizione, il momento di
«latenza» e l’aggregazione o «seconda nascita». Nel 1951 il sociologo
americano Talcott Parson, fondatore della scuola
struttural-funzionalista, nel libro Il sistema sociale, ha
chiamato latenza una delle quattro funzioni nei sistemi sociali del
cosiddetto AGIL: accanto alla funzione adattiva, quella del
raggiungimento dei fini, quella dell’integrazione, la funzione del
mantenimento del modello latente. In anni recenti il termine si è esteso
ad altre discipline: in fisiologia sperimentale, tempo di latenza è
lo spazio di tempo che intercorre fra l’applicazione di uno stimolo e
la manifestazione della corrispondente reazione; in informatica, latenza di risposta
viene chiamato il tempo impiegato da un’informazione per passare da
un’unità all’altra di un sistema, in particolare da un sensore al
relativo elaboratore.
Siamo, con un concetto come latenza,
in atmosfera post-strutturalista: al posto della logica binaria
(significante/significato, soggetto/oggetto, memoria/oblio,
rimozione/affioramento, repressione/liberazione,
materializzazione/sublimazione, ecc.) c’è la logica ternaria (che risale
alla semiotica di Peirce): nella dualità memoria/oblio o
presenza/assenza si inserisce il terzo elemento: la latenza.
È abbastanza nuova l’utilizzazione del
concetto di latenza nella teoria della storia (in convergenza con teorie
della filosofia e della letteratura). Si tratta di tentativi di muovere
oltre le storie della cultura, le storie della mentalità care ai
francesi delle «Annales» o agli inglesi di «Past and Present», le storie
quantitative e statistiche.
Do due esempi interessanti: uno dal
campo degli studi storici, l’altro da quello degli studi letterari. La
carriera dell’olandese Eelco Runia è esemplare: egli ha studiato storia e
psicologica all’Università di Leida e ha ricevuto un dottorato nel 1995
con una tesi molto premiata, intitolata Die pathologie van de veldslag. Geschiedenis en geschiedschrijving in Tolstoj’s Oorlog en vrede (Patologia della battaglia. Storia e storiografia in Guerra e pace
di Tolstoj). Dal 1999 ha lavorato, nelle vesti di psicologo e
psicoanalista, come istruttore/supervisore di studenti di medicina. In
quegli anni ha pubblicato un secondo libro in olandese, Waterloo Verdun Auschwitz:De liquidatie van het verleden
(Waterloo Verdun Auschwitz: La liquidazione del passato), in cui
cercava di rispondere alle domande: perché dopo 50, 60 anni l’olocausto
rimane «un passato che non riesce a passare», e che funzione svolgono
consciamente o inconsciamente gli storici, i romanzieri, i pittori, i
curatori di museo, i registi di film nel processo di superamento di
eventi traumatici? «Si tratta di una risposta specifica a una
tribolazione specifica (colpa, umiliazione, perdita di disinvoltura,
senso di discontinuità, esperienza della contingenza) oppure si tratta
di un tipo immutabile di lavoro onirico (Trauerarbeit)?». Runia ha pubblicato anche (2003) un romanzo che ha suscitato scalpore: Inkomend vuur
(Fuoco incipiente) sulla disastrosa missione dei caschi blu olandesi a
Srebenica nel 1993. Un secondo romanzo, anch’esso in olandese, è stato
pubblicato nel 2008: Breukylag (linea di faglia): ha la forma di
un blog e si presenta come «un esperimento per capire come la ‘realtà’
deve essere seppellita in un testo per tenerla in vita». All’inizio del
2003 è diventato uno storico e un teorico della storia a pieno regime,
come ricercatore nell’Università di Groningen, come frequente visitatore
in università americane e partecipante a progetti e colloqui
internazionali, come autore di numerosi articoli in rivista, saggi in
volumi collettivi, curatore di volumi e libri suoi, in olandese e in
inglese. Tra i più significativi i saggi Presence, in «History and Theory» del 2006; Burying the dead, creating the past, in «History & Theory» del 2007; Inventing the new from the old – from White’s ‘tropics’ to Vico’s topics, in «Rethinking History» del 2010; Ein Kurzschluss in der Lustmaschine: Lenin, Geschichte und Evolution (Un cortocircuito nella macchina del piacere: Lenin, storia ed evoluzione), in Latenz. Blinde Passagiere in den Geistenwisseschaften (Latenza.
Passeggeri clandestini nelle scienze umane), a cura di H. U. Gumbrecht e
F. Klinger, Göttingen 2011; e il libro più recente Moved by the Past. Discontinuity and Historical Mutation,
New York 2014, in cui si sforza di collegare fra loro storia degli
eventi, storia delle idee e storia dell’evoluzione («gli esseri umani
sono animali che hanno preso l’evoluzione nelle proprie mani») e
sostiene la tesi che è ormai tempo di riconnettere una filosofia della
storia di tipo critico con una di tipo sostanziale: «non dobbiamo
sollevarci sopra le cose che si sono svolte nel passato, ma piuttosto
prendere la strada bassa e cercare di entrare in contatto con quelle che
possiamo chiamare le bowels (viscere) della storia […], e tener conto che entrare in contatto con la storia, con quella che io chiamo la presenza della storia, è molto più difficile che osservarla a distanza, da una prospettiva lunga».
Negli scritti di Runia il significato
della parola presenza è molto vicino a quello della parola latenza. Si
tratta di una presenza latente. Nel saggio del 2007 egli introduce, per
spiegare il suo concetto di presenza latente, l’immagine del passeggero
clandestino su un transatlantico (stowaway in inglese), e
naturalmente subito la nostra enciclopedia culturale ci ha consegnato la
locandina di un film musicale di successo del 1936: Stowaway, in italiano Cin Cin,
diretto da William Seiter, con Shirley Temple nei panni di una piccola
orfana, imbarcata clandestinamente su un bastimento diretto a Shanghai,
che incontra sulla nave un ricco playboy e risolve i problemi propri e
di lui, spingendolo a crearsi una famiglia, che finirà per adottarla).
Runia ricorda che per trent’anni ormai, a partire dal famoso libro di Hayden White, Meta-history,
la ricerca sul nostro passato ha vissuto sotto l’egida delle teorie
della rappresentazione e della narrazione, ma che quelle teorie hanno
perso vigore, di fronte a fenomeni come i luoghi della memoria, i traumi
dei grandi eventi, le problematiche del ricordo. Secondo lui i difetti
della storia narrata e rappresentata derivano dal fatto che essa è
guidata soltanto dai processi di «trasferimento del significato». Alla
metastoria egli contrappone la «presenza» della storia (il modo «non
rappresentato in cui il passato è presente nel presente»). Ci vuole (e
qui recupera Vico) una visione «topica» della storia e una visione
«metonimica» della storia (mentre la metastoria, come trasferimento di
significato, privilegia la figura della metafora). Detto in termini più
semplici: la nuova storia auspicata da Runia punta alla concretezza,
alla densità (nel senso in cui l’antropologo Clifford Geertz usava un
termine come thick description: descrizione densa), alla
profondità e stratificazione dei significati anziché al loro
allineamento orizzontale nella narrazione, quasi alla presenza fisica
(pur se latente) della storia. «La realtà storica viaggia nel bastimento
storiografico non come passeggero pagante ma come clandestino. La
metonimia, come un passeggero clandestino, come ciò che è assente o
inconsapevolmente presente sul piano del tempo, funziona essa stessa
come metafora della discontinuità, o piuttosto, dell’intreccio fra
continuità e discontinuità».
Non credo che sia necessario rievocare
qui in dettaglio la carriera di Hans Ulrich Gumbrecht (Sepp, per amici,
colleghi e studenti); alcuni dei suoi libri sono tradotti anche in
italiano. Si tratta di un filologo romanzo che ha fatto studi in Italia e
Spagna, è stato allievo di Jauss e ultimo rappresentante della
cosiddetta «Scuola di Costanza», promotrice della critica della
ricezione; si è poi trasferito in America, come professore a Stanford,
ha ripudiato l’eredità di Jauss e ha allargato di molto i suoi interessi
e ambiti di studio: verso gli studi culturali, verso il recupero della
storia della filologia, verso l’ermeneutica e contro l’ermeneutica,
verso il recupero della filosofia di Heidegger, verso l’esistenzialismo
di tradizione francese. Ha anche vissuto una trasformazione ideologica:
dal ribellismo di sinistra giovanile a un certo conservatorismo in età
matura. Fra i suoi libri più noti: In 1926: Living at the edge of time (Cambridge 1997); Corpo e forma: letteratura, estetica, non-ermeneutica (Milano 2001); Production of presence: what meaning cannot convey (Stanford 2004); Stimmungen Lesen: über eine verdekte Wirklichkeit der Literatur
(Leggere le Stimmungen: su una realtà nascosta della letteratura)
(Monaco 2011). Spesso in questi libri si è soffermato su concetti come
«presenza», «latenza» o l’introducibile tedesco «Stimmung» (atmosfera,
clima, sentimento vago di una percezione). In un libro come 1926
ha cercato di ritrovare il clima di un’intera epoca storica, scegliendo
un anno su cui concentrarsi. Quando la Harvard University Press ha
commissionato a David E. Wellbery e Judith Ryan una nuova storia della
letteratura tedesca (2004), Gumbrecht, che ha lavorato come consulente,
ha incoraggiato gli autori a organizzare il libro sulla base di date
significative, «presenze» simili a quelle che lui stesso aveva messo in
opera con il libro sull’anno 1926.
Ora, nel libro più recente, intitolato nell’edizione americana After 1945. Latency as origin of the present (Stanford 2013; edizione tedesca: Nach 1945: Latenz und Ursprung der Gegenwart, Berlin 2012), ha fatto una mossa anche più ardita: ha cercato di ricostruire la Stimmung,
soprattutto in Germania, degli anni immediatamente successivi alla
guerra, mescolando ricordi autobiografici, evocazione di fatti storici,
testimonianze letterarie, tutti sotto il segno di una presenza
clandestina, di una clamorosa latenza, fatta di buchi neri e imbarazzi
del ricordo. Per esempio: egli, nato nel 1948 in una famiglia
medio-borghese e simpatizzante del nazismo, ricorda i canti di Natale
sotto l’albero nella casa di campagna del nonno nell’immediato
dopoguerra, la visione di un carro armato americano che per sbaglio ha
ridotto in poltiglia un’automobile tedesca con i suoi passeggeri,
l’album della nonna da cui sono state strappate (lasciando dei vuoti
latenti) alcune fotografie (imbarazzanti?) dell’anteguerra. Oppure: ha
recuperato la prima pagina del giornale di Monaco, la «Süddeutsche
Zeitung», del 15 giugno 1948, con la notizia della riforma della moneta
del paese sotto l’occupazione alleata; riletto criticamente la lettera
di Heidegger del 1947 sull’umanesimo scritta in risposta al filosofo
francese Jean Beufrer sotto l’impressione di lettura del saggio di
Sartre L’existentialisme est un humanisme; ricordato che in
quell’anno l’assunzione media di calorie di un cittadino tedesco era
passata da 3000 a 900, il numero medio di divorzi da 8.9 per mille nel
1939 a 18 nel 1948.
Le citazioni del Godot di Beckett si allineano accanto al Dottor Živago di Pasternak, quelle del dramma di Sartre Huis clos accanto a al dramma di Wolfgang Borchert Draussen vor der Tür (Fuori, davanti alla porta), il Rapporto Kinsey accanto al trattato di Sartre L’être et le néant, Don Camillo e Peppone di Guareschi accanto al film Some like it hot con la Monroe, i verbali del processo di Norimberga accanto al romanzo Studenti di Jurij Trifonov, il grosso libro di Curtius sulla tradizione latino-medievale accanto alle Ceneri di Gramsci
di Pasolini. Il ricordo di aver seguito, alla radio, nel 1964, il
trionfo del pugile Cassius Clay divenuto Muhammed Ali si allinea con
quello di una visita, nel 1966, al sito dove si stava costruendo la
nuova capitale Brasilia nel paese sudamericano, il ricordo degli anni di
impegno politico rivoluzionario e di un arresto durante una
manifestazione contro la guerra del Vietnam si allinea con il ricordo
della disistima provata a Costanza verso il suo maestro Hans Robert
Jauss e, qualche anno dopo, la scoperta che dietro le tante
dichiarazioni di fede democratica di Jauss, che a lui giovane assistente
suonavano false, si celava una precedente esperienza di ufficiale delle
SS.
A un certo puto capita fra le mani di
Sepp Gumbrecht la fotografia di una famiglia portoghese, che lui
descrive in dettaglio: in piedi da un lato una madre bellissima,
sorridente, dall’altro lato un padre dall’aspetto goffo e perturbante, e
in mezzo, su una sedia, una bambina di circa tre anni, vestita alla
moda, carina, quasi angelica, ma con una fisionomia che fa pensare che
da grande il suo viso assomiglierà piuttosto a quello del padre:
Gumbrecht sospetta che ci sia una storia latente nella foto, di quelle
che non si possono inventare: un vero dramma, complicato, forse
doloroso, forse la storia di un difetto fisico, di un tradimento,
addirittura forse di un delitto.
Gli episodi autobiografici, i ricordi collettivi, i testi offrono gli spunti per una riflessione su una particolare Stimmung,
una qualità confusa e labirintica dell’atmosfera culturale degli anni
del dopoguerra: «Le immagini nella pubblicità del dopoguerra di lame di
rasoio sulle guance di bambini, di mariti violenti, di nonni agitati ci
toccano sulla nostra pelle e svegliano al tempo stesso sentimenti di
malessere interiore, che non sappiamo come esprimere. Nel doppio
significato di contatti fisici superficiali e sentimenti che non
sappiamo controllare, le Stimmungen formano una parte oggettiva
delle situazioni e dei periodi storici. Come tali – vale a dire, come
condizioni di una “sensibilità oggettiva” – essi costituiscono una
dimensione centrale, anche se largamente trascurata, di ciò che può
rendere per noi presente il passato – un immediato e intuitivo
presente». La conclusione, di questo intellettuale che è nato subito
dopo la fine della guerra, e ha vissuto l’intreccio di ricordi,
dimenticanze e latenze proprio di quel periodo, è abbastanza sconsolata:
«L’incapacità di trovare un rapporto stabile con il passato che abbiamo
ereditato è stata, credo, la storia delle nostre vite, e non ci rimane
abbastanza futuro per liberarci da questo destino. Penso che l’unico
scopo più o meno realistico stia [...] nel descrivere il decennio
successivo alla fine della seconda guerra mondiale per capire come la Stimmung della latenza emerse, si diffuse e, forse, si trasformò con il passare del tempo».
[Questo articolo è già uscito su «La Ricerca»].
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