15 ottobre 2014

IL GIOCO SACRO DELL'ALTALENA




Volare alti nel cielo, staccarsi da terra, salire. Questo in poche parole il senso dell'altalena. Una riflessione affascinante ne delinea origini mitiche e rivisitazioni rituali.


Raffaele K. Salinari
Il turbamento dell’altalena. Un gioco sacro
«Luce luce lon­tana, più bassa delle stelle, quale sarà la mano che ti accende e ti spe­gne? Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un giorno la pren­derò come fa il vento alla schiena…». Così Fabri­zio De Andrè poe­tizza, e dun­que rin­nova, una vec­chia sto­ria: quella di Eri­gone, la ver­gine sposa di Dio­niso tra­sfor­mata poi in costel­la­zione, che fondò il mito dell’altalena.

Ma che senso ha ricer­care que­ste ascen­denze arcai­che, richia­mare i signi­fi­cati sacri, gli usi visio­nari? In fondo l’altalena è solo un gioco, un inno­cente pas­sa­tempo per bam­bini che però, qui sta l’arcano, mai lascia indif­fe­renti, sem­pre turba l’anima in modo inspie­ga­bile. Forse è per­ché viene da un tempo lon­tano, quando le distanze tra l’umano e il divino non erano, come oggi, incom­men­su­ra­bili, e quel gioco sim­bo­leg­giava la loro con­giun­zione: una pra­tica esta­tica, per rige­ne­rarsi al cospetto della zōḗ.

Nell’antica Gre­cia zōḗ signi­fi­cava Vita, senza nes­suna carat­te­riz­za­zione ulte­riore e senza limiti: esi­stenza incon­di­zio­nata. E que­sta zōḗ, che non ha con­torni e nep­pure defi­ni­zioni, ha il suo sicuro oppo­sto in thá­na­tos, la morte. Ciò che in zōḗ risuona in modo certo e chiaro è «non morte»: qual­cosa che non la lascia avvi­ci­nare a sé; da que­sto Bataille vedrà nell’erotismo l’affermazione della Vita sino den­tro la morte.

Rileg­gere un mito, in realtà, signi­fica ren­derlo attuale; Schel­ling dice che nulla di ciò che è, e di ciò che diviene, può essere e dive­nire senza che un’altra cosa con­tem­po­ra­nea­mente sia e divenga, poi­ché all’interno della natura stessa non esi­ste nulla di ori­gi­na­rio, nulla di asso­luto e per sé stante: gli atti di culto che hanno pre­ce­duto quelli attuali non erano sem­plici gesti di super­sti­zione dovuti all’ignoranza dei feno­meni natu­rali, ma crea­zioni pos­senti gene­rate da que­sta consapevolezza.



La ver­ti­gine e la maschera

L’altalena è dun­que un gioco ori­gi­na­ria­mente sacro, ma che tipo di gioco è? Secondo Roger Cail­lois nel suo La ver­ti­gine e la maschera, essa risponde al prin­ci­pio dell’Ilinx, della «ver­ti­gine»: l’ebbrezza che strappa al mondo razio­nale e mette, sep­pur per un solo momento, sull’orlo dell’imponderabile, espo­sti alla visione del gorgo — que­sto signi­fica in greco la parola Ilinx- nel quale gor­go­gliano le forze che gover­nano il mondo senza che le si possa mai governare.

Ancora e sem­pre l’attrazione per la «ver­ti­gine» resta una neces­sità della vita psi­chica; anche se la civi­liz­za­zione odierna l’ha voluta con­fi­nare in luo­ghi sepa­rati — come i Luna Park nei quali l’ebbrezza “nor­ma­liz­zata” non deve aprire le porte all’incontro con le forze della natura — una libera e sem­plice alta­lena, con il suo movi­mento “lunare”, ciclico, può gene­rare un fugace incon­tro con l’Intelligenza della zōḗ.

Per­ché il cielo, ed il mondo sotto di esso, si muo­vono con movi­mento cir­co­lare? Si chiede l’egizio Plo­tino nelle Enneadi, e lui stesso risponde: per­ché imi­tano l’Intelligenza.

E il movi­mento cir­co­lare, pro­se­gue il filo­sofo: «È un movi­mento della coscienza, della rifles­sione, e della vita che ritorna su se stessa, che non esce mai da sé e non passa ad altro, appunto per­ché deve abbrac­ciare tutto in sé. Ma non l’abbraccerebbe se rima­nesse immo­bile, né avendo un corpo, man­ter­rebbe in vita le cose che con­tiene: infatti la vita del corpo è movi­mento. Sic­ché il movi­mento cir­co­lare risulta com­po­sto del movi­mento del corpo e di quello dell’anima, e sic­come il corpo si muove per natura in linea retta, e l’anima lo trat­tiene, dai due deriva quel movi­mento che ha del movi­mento e della quiete».

E allora, nes­sun gioco come l’altalena può sim­bo­leg­giare meglio la visione di un corpo e di un’anima uniti nel gene­rare que­sta com­bi­na­zione di quiete e movi­mento che riflette, sul piano del micro­co­smo umano, l’Intelligenza stessa che ordina ed abbrac­cia il Cosmo.

«Io, se non lo sapete figliuoli, vi ho data vita per mezzo della voluttà e del moto» dice la Venere rina­sci­men­tale e neo­pla­to­nica di Mar­si­lio Ficino, divi­nità della Vita che genera altra vita secondo «voluttà e moto»; prin­ci­pio fem­mi­nile che for­ni­sce alla zōḗ quell’animazione carat­te­riz­zante pro­pria delle vite par­ti­co­lari: le sin­gole bíos.

Venere, «anima del Mondo» secondo Plo­tino, agi­sce dun­que attra­verso il moto ondeg­giante che il suo pare­dro, Eros, sug­ge­ri­sce ai corpi. E come non asso­ciare que­ste carat­te­ri­sti­che alle sen­sa­zioni ecci­tanti, ero­ti­che, che pro­viamo in alta­lena: la voluttà sen­suale evoca il suo moto, il suo moto ondeg­giante porta seco la voluttà.

Ma que­sta sen­sua­lità, l’erotismo del don­do­lio, arriva a noi dalla tra­sfor­ma­zione di un gioco — l’altalena — che anti­chi miti descri­vono come sim­bo­liz­za­zione della morte; per que­sto il nesso tra morte ed ero­ti­smo sfugge a chiun­que non ne veda il senso reli­gioso! Inver­sa­mente, il senso delle reli­gioni sfugge a chiun­que tra­scuri il legame che esso pre­senta con la morte e l’erotismo.

Esten­dere la trama delle ana­lo­gie signi­fica essere soste­nuti, nella nostra ricerca, dalla tela della realtà; que­sta pre­ziosa unità ana­lo­gica poten­zia il nostro essere nel Mondo.

Un obiet­tivo esi­sten­zial­mente ed essen­zial­mente poli­tico dun­que, poi­ché que­sti ter­mini sono aspetti di uno stesso dive­nire, di una potenza dell’esserci che mani­fe­stiamo attra­verso la nostra sin­go­la­rità pie­na­mente dispiegata.



Il mito greco: Erigone

Ecco, allora, il mito delle ori­gini: un pastore di nome Ica­rio rice­vette da Dio­niso il segreto del vino. Di que­sto net­tare egli fece dono ai suoi col­le­ghi pastori che, cre­den­dosi avve­le­nati, lo ucci­sero. La fedele cagna Maira corse a cer­carne la figlia Eri­gone che, di fronte al cada­vere del padre, lan­ciò una male­di­zione prima di impic­carsi per il dolore: da quel giorno, nella ricor­renza del suo gesto, tutte le ver­gini si sareb­bero impic­cate sino a quando gli assas­sini del padre non fos­sero stati tro­vati ed il suo sacri­fi­cio espiato.

E così andò; di fronte a quel sus­se­guirsi di impic­ca­gioni ver­gi­nali gli abi­tanti di Atene si rivol­sero all’oracolo del­fico, che sen­ten­ziò la neces­sità di inven­tare un gioco che potesse sim­bo­leg­giare l’impiccagione senza cau­sare la morte. Così nac­que il rito dell’altalena.

Ma, per com­pren­dere appieno il mito, dob­biamo situarlo all’interno della sua evo­lu­zione: le sto­rie non vivono mai vite soli­ta­rie, sono inse­rite in un grande albero del quale dob­biamo ritro­vare le radici attra­verso i rami.

Il fon­da­mento sto­rico cul­tuale sul quale si basa que­sta rico­stru­zione del rito tratto dal mito risale ad un’epoca molto più remota: alla tau­ro­ca­tap­sia minoica in onore della Grande Dea medi­ter­ra­nea. Il salto tra le corna del toro, infatti, sim­bo­leg­giava il moto oscil­lante dell’altalena sulla quale stava seduta la Dea, men­tre l’animale era una sua ipo­stasi teriomorfa.

A riprova di ciò, nella zona che cir­conda il palazzo di Aghia Triada, presso Phae­stos, venne tro­vata una sta­tuina di ter­ra­cotta, risa­lente al XVI secolo a.C., che rap­pre­senta una figura fem­mi­nile che si don­dola in alta­lena. Il luogo di rin­ve­ni­mento era un pic­colo reli­quia­rio e la sta­tuetta, sor­mon­tata da due uccelli che stanno per spic­care il volo, forse media­tori tra il mondo dei mor­tali e quello degli dei, evoca, all’interno dell’arte minoica, l’ipostasi della divi­nità che, in que­sta cul­tura, signi­fica l’altro da sé, lo «spet­ta­tore divino».



A Mal­thi in Mes­se­nia e a Mari in Meso­po­ta­mia si tro­va­rono altre due sta­tuette della Dea, risa­lenti allo stesso periodo, seduta e appron­tata per la sospensione.

Una figura fem­mi­nile in trono che doveva essere desti­nata a don­do­larsi la tro­viamo anche in un san­tua­rio della dea babi­lo­nese Nin­hur­sag, risa­lente al III mil­len­nio a.C., come pure in varie parti della Gre­cia sono state rin­ve­nute figure pre­i­sto­ri­che che, come gli oscilla romani, erano desti­nate allo stesso scopo.

Alle ori­gini, dun­que, la sfera del mito e del suo rito appare molto più ampia e deci­sa­mente meno tin­teg­giata di toni oscuri rispetto al mito greco, essendo cer­ta­mente pre­sente il tema della morte ma, più ancora, quello della rinascita.

E di morte e rina­scita parla il sim­bolo più cono­sciuto di Cnosso, il regno della Grande Dea: il labi­rinto. «Una grande figura fem­mi­nile della cer­chia dio­ni­siaca apparve su una tavo­letta di Cnosso, in un con­te­sto di poche parole senza nomi; e tut­ta­via fu il primo per­so­nag­gio divino della mito­lo­gia greca che poté essere imme­dia­ta­mente cono­sciuto […] è la Signora del Labi­rinto: essa deve essere stata una Grande Dea. […] Socrate, nel dia­logo che Pla­tone pub­blicò con il titolo di Euti­demo, nominò il laby­rin­thos e lo descrisse come una figura in cui è faci­lis­simo rico­no­scere una linea a spi­rale o a mean­dro che si ripete all’infinito. […] Sia la spi­rale sia il mean­dro vanno intesi come per­corsi che si fanno invo­lon­ta­ria­mente avanti ed indie­tro, se si con­ti­nua a seguirli»; così ci dice Keré­nyi nel suo Dio­niso.

E «Io sono il tuo labi­rinto… », dirà Dio­niso ad Arianna nella poe­sia di Nie­tzsche. Arianna «moglie di Dio­niso», come dice Euri­pide nell’Ippo­lito, è una divi­nità lunare, legata alla parte umbra­tile dell’esistenza, come Per­se­fone e Demetra.



Su alcune monete di Cnosso la tro­viamo raf­fi­gu­rata su una fac­cia, men­tre su quella oppo­sta com­pa­iono i mean­dri del labi­rinto con iscritta una falce di luna. Que­sta sua carat­te­ri­stica affi­nità con la costru­zione deda­lica le con­sen­tirà di orien­tare Teseo, ma anche di iden­ti­fi­carsi con il movi­mento dell’altalena, che ripro­duce le fasi lunari nel loro con­ti­nuo muta­mento: come i mean­dri del labirinto.
Le tre fasi della luna si riflet­te­vano anche nella figura della Grande Dea come ver­gine, ninfa e vegliarda. Altra iden­ti­fi­ca­zione fu quella che vedeva la ver­gine asso­ciata all’aria, la ninfa alla terra e la vegliarda al mondo infero.

Que­ste let­ture get­tano luce anche sulla moda­lità della morte di Arianna, o di una delle sue morti, quella per sui­ci­dio mediante impic­ca­gione, che la iden­ti­fi­cherà poi con Eri­gone. Il mito, in que­sto caso «esi­sten­ziale» — come lo sto­rico delle reli­gioni Raf­faele Pet­taz­zoni defi­niva quelli che sim­bo­liz­zano le fasi della vita — non va sepa­rato dal rito che lo richiama e lo attualizza.

E allora pos­siamo pen­sare all’altalena come ad un gioco che “svolge” il labi­rinto; una sorta di tra­sfor­ma­zione del per­corso ter­re­stre, forse in ori­gine una danza, in moto pen­do­lare: la tra­iet­to­ria, che richiama la falce di luna, ne risolve i mean­dri in eterne oscillazioni.

Luna ed alta­lena diven­gono così le facce di una meta­fora aerea che richiama le fasi di una perenne ricerca inte­riore, mai ter­mi­nata, ine­sau­sta; una prova con­ti­nua, a tratti mor­tale, che sem­bra tor­nare inces­san­te­mente al punto di par­tenza, e della quale il labi­rinto è sem­pre stato il sim­bolo più immediato.

Anche nei Misteri di Eleusi le danze labi­rin­ti­che rap­pre­sen­ta­vano il cam­mino dell’anima verso la sua libe­ra­zione; i motivi a mean­dro, pre­senti in maniera ubi­qui­ta­ria in ogni tempo e luogo, sono un sim­bo­lico rife­ri­mento alla zōḗ non pas­si­bile di inter­ru­zioni. Seguendo que­ste sug­ge­stioni capiamo per­ché nel palazzo di Cnosso il cor­ri­doio dal sof­fitto a mean­dri con­duce verso la prin­ci­pale fonte di luce della costru­zione, chiara sim­bo­lo­gia della rinascita.



Dio­niso e l’altalena

Que­sti rife­ri­menti ini­ziali ad Arianna, ed al labi­rinto come per­corso ripe­ti­tivo, un «avanti ed indie­tro», ser­vono ad inqua­drare le ascen­denze dio­ni­sia­che del mito fon­da­tore: la sto­ria di Eri­gone, l’«Arianna di Ika­rion» che diverrà la prima bac­cante, ver­gine e amante del dio; una delle tante per­so­ni­fi­ca­zioni della Grande Dea che, all’inizio della sto­ria medi­ter­ra­nea, pre­sie­deva al rin­no­va­mento eterno della Vita.

E allora entriamo più a fondo nel mito greco che, per primo, come tutti i miti, ci descrive la festa delle alta­lene, e fac­cia­molo guar­dando al fir­ma­mento, alla costel­la­zione cele­ste in cui è fis­sato per sem­pre. Se l’andare in alta­lena è un rife­ri­mento polare nel cielo micro­co­smico delle nostre imma­gini arche­ti­pi­che, è natu­rale che abbia un cor­ri­spet­tivo pro­prio nella costel­la­zione che ci narra la sua sto­ria: la Ver­gine o, in altre ver­sioni, Sirio.

Nel mito, ripreso da Era­to­stene, Sirio appare come la cagna Maira, la “scin­til­lante”, un nome pro­prio per una tale stella. È la «luce lon­tana» che si vede in inverno cui fa rife­ri­mento De Andrè nella sua can­zone Ho visto Nina volare, dove il mito­lo­gema dell’altalena viene ripreso in ogni suo aspetto.
È que­sta cagna, poi tra­sfor­mata da Dio­niso in lumi­noso astro, che tro­verà il cada­vere di Ica­rio, l’eroe del dêmos di Ika­rion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle rela­zioni dise­guali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la fini­tezza dell’umanità e l’indifferenza delle divi­nità — direbbe Var­rone: par­chis­sime di mise­ri­cor­dia — il segreto pro­ce­di­mento si rivela, per il suo por­ta­tore, una maledizione.

Ica­rio, infatti, viene ucciso dai suoi amici — man­driani dei boschi di Mara­tona presso il monte Pen­te­lico — poi­ché accu­sato ingiu­sta­mente di averli avve­le­nati pro­po­nendo loro di gustare il net­tare senza tagliarlo con l’acqua, come Eno­pione più tardi con­si­gliò di fare. Dio­niso dun­que, il dio che muore e rina­sce, pro­ta­go­ni­sta della tra­ge­dia greca, signore della zōḗ, è all’origine del mito greco dell’altalena, che a lui sarà legata anche da altre pra­ti­che tutte ricon­du­ci­bili all’essenza del «dio dell’ebbrezza», quella situa­zione par­ti­co­lare di «vor­tice» del quale il vino è l’araldo.

Gli anti­chi mito­grafi, quelli pre­ce­denti Era­to­stene, dicono che dopo l’uccisione di Ica­rio da parte dei pastori che si cre­de­vano avve­le­nati, la cagna Maira, fedele com­pa­gna dell’emissario dio­ni­siaco, torna da sua figlia Eri­gone per avver­tirla della tra­ge­dia paterna. Comin­cia così l’angosciante erranza della ragazza alla ricerca del corpo amato, un topos che include, tra molti altri, la ricerca del cada­vere smem­brato di Osi­ride da parte della sorella-amante Iside.


Signi­fi­ca­tiva pre­fi­gu­ra­zione di quello che sarà lo stru­mento sim­bo­lico che libe­rerà le ver­gini atti­che dalla sua male­di­zione, l’altalena appunto, Eri­gone, «copiosa figlio­lanza», tra­duce il suo nome Gra­ves, oppure «nata all’alba» — tutti appel­la­tivi che la inclu­dono in uno degli aspetti della Grande Dea — viene, nei miti più anti­chi, chia­mata Alê­tis, l’errante, con rife­ri­mento non solo all’errabonda e dispe­rata ricerca del cada­vere, ma anche al suo carat­tere lunare, di perenne muta­zione astrale.

La luna e la morte — aspetti della Grande Dea — si sovrap­pon­gono alla figura di Eri­gone sulla sua alta­lena, così come lo sbocco del mito sarà verso la rige­ne­ra­zione e la vita.

Eri­gone erra dun­que come la luna nel cielo, senza posa. A volte scom­pare, nera ed invi­si­bile, minac­ciosa, come inghiot­tita dal mondo infero. Se per la civiltà greca Dio­niso è ora­mai il dio dellazōḗ, la vita senza carat­te­riz­za­zioni, Eri­gone, figura epi­gona della Dea, ne è il prin­ci­pio ani­ma­tore, carat­te­riz­zante: colei che dà l’anima alle bíos.

La zōḗ indif­fe­ren­ziata, infatti, cerca l’animazione: per carat­te­riz­zare le sue forme, le sue bíos, ha sem­pre biso­gno del prin­ci­pio fem­mi­nile. Que­sto «fare anima» — mutuando la cele­bre espres­sione di Keats — è neces­sa­rio alla zōḗ per tra­scen­dere il suo sta­dio semi­nale, toti­po­tente ma indi­stinto, e tra­sfor­marlo in atto. Eri­gone, quindi, è il prin­ci­pium indi­vi­dia­tio­nis di Dioniso.

Qui la com­ple­men­ta­rietà sim­bo­lica tra le due divi­nità è evi­dente; si può dire che siano aspetti dello stesso Prin­ci­pio che si esprime attra­verso attri­buti diversi; dalla rela­zione tra Eri­gone e Dio­niso nascerà anche un figlio, Sta­fi­los, che può essere inteso come la zōḗ che si rende carne: Sta­fi­los morirà e risor­gerà, come il dio stesso.

Anche con Arianna avviene tutto que­sto: una ver­sione del mito ci narra della «Signora del Labi­rinto» che muore di parto e del figlio nato nell’Ade; una nascita mistica che riprende così il mito­lo­gema della Grande Dea che pro­crea la sua discendenza.

«E così Arianna divide con tutti coloro che appar­ten­gono a Dio­niso un destino tra­gico e, coi più eletti di que­sti, anche la sua libe­ra­zione dall’Ade dopo la morte e la sua ele­va­zione all’Olimpo», ci ricorda Otto.

In altre ver­sioni del mito, nar­rate da Igino, Apol­lo­doro ed Eliano, è Dio­niso stesso che viene ucciso dai pastori, ed Eri­gone piange il suo sposo affetta da una forma di mania che la raf­fi­gura così come la prima bac­cante. Si impicca dun­que ad un albero che potrebbe essere anche una vite sca­tu­rita dal corpo dell’amante; in tempi lon­tani que­sta svi­lup­pava un vero e pro­prio tronco, ancora visi­bile in alcuni musei di sto­ria natu­rale, come quello di Firenze.

Gra­ves sostiene invece l’ipotesi del pino, nomi­nato da Vir­gi­lio nelle Geor­gi­che: lo stesso albero sotto il quale il fri­gio Attis fu castrato. In altre nar­ra­zioni dal corpo del dio sca­tu­rirà la vite, e il suo sacri­fi­cio darà agli uomini il mezzo per rag­giun­gere l’ebbrezza, attra­verso la quale egli tor­nerà ogni volta a rina­scere, con­ti­nuando così il ciclo della Vita.

Eri­gone dun­que, come nel mito di Iside e Osi­ride, ter­mina il suo vagare al ritro­va­mento del corpo del padre o amante, Ica­rio o Dio­niso, che l’antica festa ate­niese delle Anthe­stḗ­ria — la festa dei ger­mo­gli — faceva coin­ci­dere col Giorno delle Broc­che (Choēs), nelle quali si tra­sfe­riva il vino per essere bevuto, ed in grandi paioli si cuci­nava la pan­sper­mia, una miscela di pro­dotti vege­tali che esal­ta­vano le forze vivi­fi­ca­trici della natura risorta. Lo stesso giorno le gio­vani ver­gini ricor­da­vano il sacri­fi­cio di Eri­gone andando sulle alta­lene, le Aiðra.

Era il momento in cui l’inverno vol­geva alla fine ed i fiori comin­cia­vano a spun­tare dalla neve resi­dua. Il verbo antheîn, che indica que­sto movi­mento flo­reale, dà appunto il nome alla festa,Anthe­stḗ­ria, ed al suo mese, Anthe­stē­rin.

I versi di un diti­rambo dice­vano: «Ora è venuto il tempo, ora ci sono i fiori». Ma la scena del diti­rambo non era l’Atene nei giorni della festa, bensì un richiamo ai fiori che Per­se­fone stava cogliendo quando venne rapita da Ade, il signore del mondo infero. Ecco che torna, impe­rioso, il rac­cordo tra il gioco dell’altalena, la ver­gine impic­cata, e la sto­ria del dio che in que­sto periodo emerge dal mondo sot­ter­ra­neo por­tando con sé anche le anime dei defunti ad abbe­ve­rarsi alle broc­che col vino.

Le anime dei morti veni­vano chia­mate díspioi: le asse­tate, e non di sem­plice acqua ave­vano sete, bensì del vino dei píthoi, i grandi reci­pienti di argilla aperti nel primo giorno della festa e dai quali il net­tare dio­ni­siaco veniva tra­sfe­rito nelle broc­che, nelle choēs, che davano il nome al terzo giorno delle celebrazioni.



Qui ci tro­viamo immersi pie­na­mente in un’atmosfera fram­mi­sta di ebbrezza e spi­riti dei morti: dun­que aperta al puro ero­ti­smo, ne dedur­rebbe Bataille. Era que­sto delle Anthe­stḗ­ria, infatti, anche il tempo in cui Dio­niso, tor­nato dagli inferi, gia­ceva con le donne di Atene, tutte sim­bo­leg­giate dalla Basi­linna, la moglie dell’árchōn basi­leús.

In epoca romana lo stesso periodo veniva defi­nito Mun­dus patet: il mondo infero restava aperto, sep­pure per pochi giorni, ma senza l’ebbrezza dio­ni­siaca, e dun­que senza l’erotismo della festa ateniese.

E così, il giorno delle broc­che, le gio­vani anda­vano in alta­lena, in onore di Eri­gone; anche ai bam­bini era con­sen­tito don­do­larsi, per­ché quel giorno essi imi­ta­vano tutto quanto acca­deva pub­bli­ca­mente nella grande festa. I gio­vani Kuroi beve­vano il vino per la prima volta.

La rela­zione tra la morte e l’altalena dun­que, come vediamo dal mito, è diretta: essa è un’attività comun­que poten­zial­mente letale: per que­sto può sim­bo­leg­giare la tra­sfi­gu­ra­zione sim­bo­lica della morte pro­prio a par­tire dalle sue intrin­se­che caratteristiche.

Il legame tra l’altalena e la morte rituale durante le cele­bra­zioni dio­ni­sia­che è anche dovuto all’indubbio carat­tere cto­nio del dio poi­ché, come dice ica­sti­ca­mente Era­clito «Ade e Dio­niso […] sono un’unica e mede­sima cosa», a sot­to­li­neare la cifra infera di una divi­nità legata, per metà della sua esistenza/ciclo, al mondo dei morti.

Ed infatti, durante le Anthe­stḗ­ria risor­ge­vano le anime dei defunti ma anche i keres, forme che vei­co­la­vano mia­smi, influenze nefa­ste che dove­vano essere puri­fi­cate con kathar­moi. L’ultimo giorno della grande festa, in con­clu­sione di tutte le cele­bra­zioni, nelle case veni­vano scac­ciate que­ste entità insieme alle anime dei defunti, ora­mai appa­gate dai culti a loro dedi­cati e dalle liba­gioni di vino, col grido «fuori i keres, sono finite le Anthe­stḗ­ria!».

Ecco che, allora, come dice Otto, pie­nezza di vita e vio­lenza di morte, ambe­due sono in Dio­niso egual­mente misu­rate: nulla è atte­nuato, ma nulla è distorto.

Ma dove c’è Tha­na­tos c’è anche Eros, e la festa delle alta­lene è impre­gnata di sen­sua­lità e di vera e pro­pria ses­sua­lità, intesa e vis­suta anche come momento pro­ble­ma­tico della vita mulie­bre, in cui avviene un pas­sag­gio non sem­pre facile a compiersi.

Erne­sto De Mar­tino, nel suo stu­dio sui taran­to­lati, coglie appieno il legame tra fase pube­rale — dun­que ancora “vir­gi­nale” della vita fem­mi­nile — e la sta­gione suc­ces­siva, quella matri­mo­niale, con il cor­teo di pul­sioni sui­cide legate al tra­va­glio del momento.
La festa delle Aiðra assume dun­que un con­no­tato ses­suale evi­dente, dato che il giorno dopo si cele­bra­vano le nozze della regina con Dio­niso, e che la notte delle alta­lene era vista come pre­pa­ra­zione a que­ste. In sin­tesi le ver­gini, iden­ti­fi­can­dosi con Eri­gone, si pre­pa­ra­vano esse stesse all’incontro col dio, pro­prio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito.

L’idea che qual­cosa di alta­le­nante ser­visse come scon­giuro della cat­tiva sorte, auspi­cio beneau­gu­rale, o come gesto di puri­fi­ca­zione, la tro­viamo “imbal­sa­mata” anche nel rito romano deglioscilla, che richiama il mito ori­gi­na­rio sep­pur “disumanizzato”.

Nel Libro II delle Geor­gi­che (vv. 388 sgg.), infatti, com­pa­iono que­sti versi oltre­modo indi­ca­tori: «Et te, Bac­che, vocant per car­mina laeta, tibi­que oscilla ex alta suspen­dunt mol­lia pinu» (E te, Bacco, invo­cano con lieti carmi e in tuo onore appen­dono oscilla agli alti pini).

Il ter­mine latino oscilla, da cui l’odierno «oscil­la­zione», deriva da os-oris, bocca o più esten­si­va­mente fac­cia; pro­ba­bil­mente in ori­gine un’effigie del dio stesso. Dun­que è in onore di Dio­niso, durante le Paga­na­lia o le Semen­ti­vae fae­riae, feste della semina, che ven­gono fatte don­do­lare que­ste imma­gini. Durante i Com­pi­ta­lia invece, feste in onore dei Lari, veni­vano appese figu­rine in legno che rap­pre­sen­ta­vano gli schiavi e i bam­bini della fami­glia.

Nel periodo impe­riale, infine, ogni casa aveva, sospeso tra i por­tici, un oscil­lum raf­fi­gu­rante varie divi­nità, sem­pre con una qual­che ascen­denza o cor­re­la­zione dio­ni­siaca. A que­sto pro­po­sito un oscil­lum molto ben con­ser­vato è visi­bile nella chiesa di San Cle­mente in Late­rano a Roma, pro­ve­niente dal mitreo sottostante.



Maria e l’altalena

Anche la reli­gione cri­stiana ori­gi­na­ria assu­merà carat­teri dio­ni­siaci, basti pen­sare a Gesù che si defi­ni­sce «la vera vite» (Gio­vanni XV, 1–2) e come gli apo­stoli si deb­bano attac­care a lui «come grap­poli al tral­cio». L’anima cri­stiana si con­si­derò, come l’orfica, ser­rata al corpo come in un sepolcro.

La teo­lo­gia cri­stiana è in parte eso­te­ri­smo dio­ni­siaco: con­si­de­riamo sol­tanto la cen­tra­lità del vino come sim­bolo di resur­re­zione. Ma, forse più essen­ziale ancora, è la rela­zione tra la Madonna, ciò che resta della Grande Dea nella con­ce­zione patriar­cale cri­stiana, e Gesù, suo figlio, attra­verso un rito che implica una oscil­la­zione collettiva.

A Taranto, il Gio­vedì santo, la Madonna addo­lo­rata cerca il figlio morto nei sepol­cri alle­stiti presso le varie chiese. Osser­vando la pro­ces­sione che la accom­pa­gna si notano subito i Per­doni che, a piedi scalzi, i volti coperti da un cap­puc­cio (torna la maschera!), naz­zi­cano, cioè si cul­lano — que­sto signi­fica in dia­letto la parola — assu­mendo que­sta cam­mi­nata don­do­lante tutta la notte.

Anche chi porta la sta­tua naz­zica, come pure i fedeli tutti. Se si osserva lo sguardo della sta­tua, oltre il velo nero (Eros e Tha­na­tos) che lo adom­bra come fosse quello di una dan­za­trice del ven­tre — altra forma della maschera — si capi­sce che que­sto cer­care non è det­tato solo dal dolore, ma dalla volontà di dar­gli la pos­si­bi­lità di risor­gere: è lei che fa rina­scere il figlio.

Joseph Roth ne La cripta dei Cap­puc­cini dice ad un certo punto: «Sem­pre una madre aspetta il ritorno di suo figlio, del tutto indif­fe­rente se que­sti se n’è andato in un paese lon­tano, in uno vicino o nella morte».

E que­sta attesa è un sen­ti­mento attivo, una forma di volontà, e pro­duce una forza che tiene vivo il ricordo e dun­que viva la persona.

Quando que­sta volontà viene eser­ci­tata da una mol­ti­tu­dine di per­sone diviene un atto di fede in grado di rige­ne­rare la Vita.

Attis e Cibele, Dio­niso e la Grande Dea attra­verso la Basi­linna nelle Ante­ste­rie… sono gli ante­ce­denti divini del Cri­sto, così come Maria è ciò che ci rimane della Grande Madre.

L’ottica eccle­siale ovvia­mente capo­volge polar­mente la sim­bo­lo­gia: il patriar­cato cat­to­lico ha voluto tran­su­stan­ziare la natu­rale rina­scita della vita in quella della resur­re­zione eterna di un corpo morto, attri­buen­dola al potere del Dio padre.

Ha spez­zato così il nesso matriar­cale tra vita, morte e rina­scita, con la con­se­guenza evi­dente di far allon­ta­nare ancor più l’umanità da que­sto mondo e dal rispetto per la cicli­cità dell’esistenza e di chi l’assicura: sotto la croce a deporre il Figlio è la Madre.

E dun­que per il prin­ci­pio degli ele­menti costanti che regna nel mito­lo­gema della rina­scita del figlio auto­ge­ne­rato da parte della Madre– essendo lo Spi­rito Santo ema­na­zione di lei e non altro da lei — la let­tura auten­tica del rap­porto tra Maria e Gesù è chiara.

Que­sta non è una inter­pre­ta­zione ere­tica, ma solo l’evidenza della natu­rale evo­lu­zione che parte dal rap­porto tra la Grande Dea ed il suo pare­dro, prima figlio, dopo amante, poi in morte da Lei stessa fatto rinascere.

Se il fem­mi­nile ripren­desse le fila e rivol­tasse in que­sto senso la tela della realtà sim­bo­lica cam­bie­rebbe radi­cal­mente anche quella fattuale.



Una mode­sta proposta

Ecco, allora avan­ziamo, a mo’ di con­clu­sione, una mode­sta pro­po­sta, par­tendo dalla domanda: dove sono finite le alta­lene oggi? Per­ché nei par­chi pub­blici ai bam­bini ven­gono pro­po­ste quelle squal­lide appa­rec­chia­ture munite di cin­ture di sicu­rezza, con una escur­sione di poche decine di cen­ti­me­tri, basse ed impian­tate su basi di gri­gio tar­tan? Come faranno que­sti bam­bini espe­rienza del loro volo imma­gi­na­rio? Dove incon­tre­ranno la «ver­ti­gine»? Quando potranno, con la coda dell’occhio soc­chiuso nel sor­riso esta­tico del volo peri­co­loso, intra­ve­dere Dio­niso bam­bino che spunta nella luce del sole?

La scom­parsa delle alta­lene dai par­chi pub­blici è la prova pro­vata della vio­lenza cre­scente che il nostro modello di civi­liz­za­zione eser­cita sui bam­bini, ovvia­mente con la scusa della “sicu­rezza”. Pri­vati del sen­si­bile, essi si rifu­ge­ranno nell’insensibile, nel con­sumo senza sod­di­sfa­zione, poi­ché è solo l’investimento emo­zio­nale che immet­tiamo nel gioco che lo rende libi­di­ca­mente pro­dut­tivo, sod­di­sfa­cente; è il rischio della morte, e la sua visione, il vor­tice, che pene­trano sino all’interno delle nostre ossa sino agli ultimi fon­da­menti del san­gue, men­tre oscil­liamo peri­co­lo­sa­mente, a ren­dere il gioco per­fet­ta­mente dio­ni­siaco, ero­tico, libe­ra­to­rio e creativo.

Per ritro­vare qual­cosa del genere dob­biamo andare nei Luna Park con­tem­po­ra­nei, in cui enormi aggeggi mec­ca­nici ci fanno pro­vare sen­sa­zioni simili a quelle che una volta cer­ca­vamo sulla tavo­letta sospesa tra i rami di un albero. Ma oggi, a dif­fe­renza di quel tempo, l’illo tem­pore della nostra infan­zia, i ragazzi sono imbra­gati, legati da camice di forza den­tro mac­chine che fanno vivere, a paga­mento, un fugace bri­vido che non è né estasi né paura. L’altalena dei par­chi pub­blici odierni, con i suoi edul­co­rati epi­goni da Luna Park, sta dun­que a quella alta ed infi­nita di un tempo come la por­no­gra­fia d’accatto sta all’eros.

L’altalena vera, invece, evoca in noi un’energia che esige di essere imma­gi­nata. E non è forse que­sta sen­sa­zione di ricreare il futuro attra­verso le imma­gini, di cui abbiamo biso­gno per vivere l’infanzia? Di una «gioia incor­po­rea che ha appena dato ini­zio alla sua corsa», come scrive Shel­ley? Imma­gi­nare signi­fica innal­zare di un tono il reale; la gioia dell’altalena, del corpo in alta­lena, ripro­duce nel micro­co­smo della nostra oscil­la­zione ascen­sio­nale la stessa dina­mica dell’universo in espansione.

Forse pos­siamo arri­vare a pen­sare, chi scrive lo pensò molte volte, che se moris­simo nel punto mas­simo di ele­va­zione, il nostro corpo reste­rebbe li, sospeso nel cielo.

Il manifesto – 12 luglio 2014

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