Scrivere come un ricamo. Il lenzuolo-diario di Clelia Marchi
di Paola d’Agostino
Dalla città dei diari tracciata in mezzo
all’Appennino tosco-emiliano, quello della Linea Gotica, per
intenderci, cancellata dai bombardamenti e poi riscritta, sono tornata
in aereo con le mani letteralmente aggrappate alla copertina di un
libro, che poi libro non è. Gnanca na busia, neanche una bugia,
si chiamava il lenzuolo-diario che Clelia Marchi, contadina del
mantovano, regalò nel 1986 a Saverio Tutino, fondatore dell’Archivio
diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Poi la Fondazione Mondadori
trascrisse il lenzuolo in un libro, ripubblicato in seguito dal
Saggiatore con il titolo Il tuo nome sulla neve. Dove l’autrice
ricostruisce la propria biografia di nascite e morti e lavoro duro e
padroni avari, e amore e frutta e altra materia. Materia. Nella cultura
contadina tutto ciò che è valido deve essere materia. E perciò Clelia
nel suo diario-lenzuolo dice: “Venitemi à trovare che ò: 15.chili di
carta scritta che ò incominciato nel .1972.a scrivere doppo la morte di
mio marito! Più sono triste più mi viene di scrivere; anche male”.
Male, sì, perché Clelia era
semi-analfabeta, la scrittura le si era disegnata dentro come necessità
di raccontare, ma regole ne conosceva poche: “non offendeteVi; che sono
andata à scquola, solo in 2a elementare [...] si sa che quando poco a
scquola poco si va; poco si sa!”
In copertina due mani anziane,
incrociate, riposano su una trama fitta di parole distese
all’incontrario, come se fosse il tessuto poggiato sulle gambe della
ricamatrice, Clelia o qualunque altra. Per questo non riuscivo a
togliere le mie, di mani, da quella copertina. Era come se toccando
quelle dita con le mie riuscissi a stabilire un contatto con le donne di
altre generazioni, quelle che un tempo ricamarono per noi cifre e
disegni su lenzuola di lino che ancora oggi ci portiamo a letto
distrattamente.
In principio erano le cifre, pensavo. Le
iniziali che si ricamavano sui baveri delle lenzuola a personalizzare
la notte. Così a Clelia in una notte insonne deve essere venuto in mente
di usare quelle cifre, lettere sempre ben disegnate, per comporre una
storia intera sul lenzuolo migliore, che ormai era inutilizzato,
inutile, perché suo marito era morto.
Perché è vero che quelle lenzuola lì,
quelle del corredo, la madre o la nonna le preparavano alle ragazze in
previsione delle nozze, e quindi erano in qualche modo destinate (anche o
soprattutto) all’uomo che le avrebbe condivise. Erano custodite in
bauli che attendevano pazienti la prima notte e poi tutte le altre notti
maritate. E a usare quelle lenzuola in letti solitari doveva parer di
infrangere un sacro rituale, un po’ come profanare l’altare dei Penati,
commettendo empietà contro il candore ormai anacronistico di quelle mani
che ricamavano i giorni, i pomeriggi d’inverno, o l’estate su spiagge
divise per genere da una rete.
Oggi, che non ci si sposa quasi più, a
casa a ricamare non ci restiamo, ce ne andiamo in giro ovunque come le
cattive bambine degli slogan femministi, e il nostro modo di incidere un
senso ai giorni è la scrittura, il nostro spettro intimo da disegnare.
Figli quasi non ne facciamo, ma se proprio dovessimo averne uno, il
corredo è l’ultimo degli scampoli di civiltà che ci verrebbe di
trasmettergli, al massimo gli pieghiamo in valigia un lenzuolo low-cost
su cui la scrittura probabilmente farebbe fatica a fissarsi, perché quel
tessuto industriale è una trama plastificata come tutto il resto.
Avere figli o non averne, del resto, è
stato lo spartiacque tra due modi di scrivere un’autobiografia al
femminile. E il diario di Clelia è anche un diario di quello
spartiacque, di quel momento in cui ogni donna si interrogava sulla
possibilità di scegliere in che modo cullare la materia del proprio
corpo. Clelia, come molte donne del suo tempo, non ammetteva l’idea
dell’aborto: “ma cose questo andamento di vita, vogliono divertirsi
niente figli sarebbe comoda la vita; ma volere abbordire per me: è come
uccidere una persona”. Era l’84, quando Clelia ricamava le sue
considerazioni sull’amore coniugale e filiale: venti anni dopo i Comizi d’amore di Pasolini l’Italia interna era ancorata a se stessa cercando di difendere una tradizione cattolica dura a scomparire.
Intanto, nel 1978 Ermanno Olmi aveva filmato L’albero degli zoccoli
con la nostalgia con cui si evoca un mondo perduto. E come nella
cascina di Olmi nelle notti difficili a passare ci si riuniva a
raccontare storie per lenire l’ansia, così la ricamatrice vedova in un
buio particolarmente denso di ricordi decide di prendere in mano il
lenzuolo e condividere quelle memorie. Il film lo aveva visto di sicuro,
se a un certo punto del suo diario scrive al centro di una riga,
incidentale come tra parentesi “<Questo è il vero albero degli
zoccoli vero sincero>”. E abbandona così la tradizione orale, ma lo
fa portandosi dietro un’altra tradizione, tutta femminile, che è quella
del ricamo. Ecco perché presenta i suoi scritti ad un lettore ideale
come una ricamatrice mostrerebbe l’ultimo disegno ad un’amica.
Nelle righe 128 e 129 del lenzuolo dice
così: “ Leggetelo pure quello che c è scritto su questo: <Libro
Lenzuolo> anche se è scritto male; l’ò scritto di notte come o detto;
non dormo: e non che mi viene in mente tante cose della mia, ò nostra
vita le scrivo; certo che per tante che ne scrivi ne rimane in dietro:
ma cosa serva a scrivere se nessuno li guarda, ò li legge;”.
Lo sguardo viene prima della lettura.
Per Clelia, di sicuro. Le parole sono materia ricamata su una trama
bianca. Come una città è un disegno inciso lungo le linee verdi
dell’Appennino. Sembra di arrivare così al punto luminoso in cui
comincia la scrittura.
Dicono che i diari siano la forma meno
codificata della scrittura, la più istintiva, la più ingenua. Ma non è
vero, e non lo è soprattutto guardando l’arazzo di parole che ospita Gnanca na Busia.
Secondo la versione ufficiale, quando la carta era finita Clelia aveva
deciso di usare come supporto il lenzuolo. Ma io non ci credo.
Dopo aver scritto “15 chili” di diari
con copertine che lei stessa aveva rivestito all’uncinetto, Clelia
decide, secondo me, di scrivere il libro-lenzuolo nella totale
consapevolezza di star componendo un ricamo di parole, ed è
probabilmente per questo che le righe sono numerate, perché doveva
trascriverle da un disegno precedentemente appurato.
La superficie del lenzuolo è divisa tra
corpo del ricamo scritto in 185 righe orizzontali che occupano l’intera
larghezza del lenzuolo – la lunga storia in prosa – e 9 poesie su
altrettante colonne verticali parallele che disegnano a mo’ di merletto
il bordo inferiore – come l’orlo ricamato all’uncinetto che
all’estremità di un lenzuolo ne segna il limite. Come se la poesia fosse
il lato decorativo della storia, la verità della materia abbellita da
trine e merletti.
E dunque prima di iniziare a comporre
l’arazzo, Clelia ha avuto in mente il quadro d’insieme, il disegno
complessivo di quel ricamo che ha scritto in forma di diario,
autobiografia incisa, dando alla scrittura l’essenza magica e concreta
che hanno certe opere di artigianato e che certa scrittura sembra aver
perso.
Poi bisognerebbe parlare di Jung, della
scrittura dell’inconscio, e di altre esperienze simili in Brasile, per
esempio, o nei tappeti delle donne africane. Ma per oggi mi fermo qui.
Posiziono l’ago del cursore sotto l’ultimo carattere digitato, come un
punto, e chiudo il rigo, lo ripongo.
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