Il carteggio di Van
Gogh con il fratello Theo ne rivela la profonda cultura e il rapporto
costante tra scrittura e rappresentazione pittorica.
Franco Marcoaldi
Le confessioni sulla
sua pittura al fratello Theo
Quasi 900 sono le lettere che Van Gogh ci ha lasciato: più o meno la stessa quantità di quadri e disegni, ricorda Stéphane Guégan nel saggio per il catalogo della mostra di Milano. È la dimostrazione plastica del rimbalzo continuo tra l’attività del pennello e la riflessione affidata alla penna; un’osmosi felicissima e irripetibile tra colori, segni e parole. Molte sono rivolte al fratello Theo, tra cui quella celeberrima del 19 giugno 1789, nella quale Vincent dà una definizione di arte a cui resterà per sempre legato: un inesausto corpo a corpo tra l’uomo e la natura, con l’artista impegnato a svelarne l’arcano.
Se nella mostra milanese si dà così ampio spazio alle lettere non è soltanto per via della coincidenza numerica tra missive e quadri, ma perché mai o quasi mai il carteggio di un pittore risuona altrettanto potente, completo, profondo. Basta leggere l’edizione antologica curata da Cynthia Saltzman (Einaudi). Vi si incontra un artista immenso che riflette con ardore e acume sul proprio lavoro, accompagnando le lettere con schizzi coevi; un uomo sfortunato che si dibatte nei mille problemi quotidiani di un’esistenza drammatica; uno scrittore suo malgrado, che scrive magnificamente ed è capace di squarci metafisici sorprendenti. Van Gogh è convinto della necessità di ragionare sulla pittura a partire dalle parole.
Uomo colto – che
maneggia la Bibbia come Shakespeare – Vincent si sofferma sovente
sulla necessità di imparare a leggere per imparare a vedere, e
viceversa. A fronte dell’intuizione baudelairiana che vuole la
pittura moderna quale ininterrotta rêverie, Van Gogh, scrive ancora
Guégan, «inverte, a modo suo e a proprio uso e consumo, il vecchio
principio oraziano dell’ ut pictura poësis e si chiede come
impadronirsi della superiorità del poeta, che consiste nella
folgorazione delle immagini e nella loro capacità di illuminare
istantaneamente lo spirito».
Questo è il corno alto, sublime della questione. Poi c’è il pittore terragno, che ama alla follia Millet, gli zoccoli ai piedi e la terra che sta sotto. E che quando raffigura i mangiatori di patate, vuole restituire l’idea «di come questa gente (…) avesse zappato la terra con quelle stesse mani poggiate nel piatto. Il quadro evoca quindi il lavoro manuale e l’idea che questi contadini si siano guadagnati onestamente il proprio cibo». Per ottenere tale risultato è necessario individuare con il massimo scrupolo il colore preciso della terra e dei volti di chi la lavora.
Ed ecco Van Gogh che
cerca la “nota” giusta e domanda a Theo con fare imperioso: «lo
sai cos’è un ton entier e cos’è un ton rompu? Certamente sei
in grado di vederlo in un quadro, ma saresti ugualmente in grado di
spiegare cosa vedi? ». Aggiungendo: «Le leggi dei colori sono
indicibilmente belle proprio perché non lasciano alcuno spazio al
caso». Così come non crediamo più ai miracoli, né a un Dio
«capriccioso e dispotico che salta di palo in frasca», allo stesso
modo in arte «bisognerebbe non dico abbandonare le vecchie idee del
genio innato, ispirazione eccetera, ma analizzarle per bene,
verificarle e cambiarle notevolmente ».
Basterebbe questo breve
passo a smontare il cliché del Van Gogh tutto follia e
sregolatezza. La pittura è studio, applicazione, ricerca. È
fatica, come fanno fatica i contadini quando lavorano i campi.
La Repubblica – 18
ottobre 2014
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