Lo storico Giovanni De Luna prova a fare una analisi di quello che è rimasto della disastrata sinistra italiana:
Giovanni De Luna
Un deserto a sinistra
di Matteo
Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia.
Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del «grande centro», ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico.
A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli Anni 80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.
A sinistra non è successo niente di tutto questo. Nel 1994 Rifondazione comunista rappresentava circa il 10% dell’elettorato. Da allora in poi, mentre gli uomini dell’ex Pci intraprendevano la loro lunga marcia verso il centro, scandita dalle sigle Pds, Ds, Pd, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole.
Le esperienze in questo
senso, da Bertinotti a Vendola, sono sempre naufragate; il loro
tentativo non è andato oltre la soglia di una «narrazione»
seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà. C’è stata poi la
stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura:
il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi
per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e al sindacato con un
trasporto che ricorda quello per Cofferati e per i tre milioni di
manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni.
Ma ha un senso guardare
alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi
una leadership politica? Il sindacato degli Anni 70 fu quello che
allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla
contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro,
estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo
sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni
la magistratura, finalmente, spezzò la continuità che aveva legato
i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione
della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia.
Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala
mobile, perdendo da allora in poi rappresentanza e rappresentatività;
e la magistratura in questi anni è stata chiamata ad esercitare un
ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata,
fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha
funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità.
In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie dei pilastri (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca e incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito.
Così, in attesa che si sviluppino le
potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si
prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle
fusioni, in un orizzonte che oggi guarda a Civati, domani a Bersani e
poi ancora, forse a D’Alema. Non un presagio rassicurante per il
futuro.
La Stampa – 25 ottobre
2014
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