29 ottobre 2014

CAMUSSO E RENZi NON HANNO CAPITO CHE C'E' POCO DA RIDERE!



Renzi vs Camusso: due brutte narrazioni che hanno bisogno l’una dell’altra

di Christian Raimo


Guardate questi due video di qualche giorno fa. Il primo è l’intervento finale di Matteo Renzi alla Leopolda, il secondo è l’intervento finale di Susanna Camusso alla manifestazione della Cgil. Fatti a distanza di nemmeno venti ore l’uno dall’altro, dovrebbero presentarsi, in sintesi, per forma e sostanza, come i due discorsi di una sinistra di fatto spaccata tra due idee (due identità? due narrazioni?) molto lontane se non incommensurabili.
Partiamo dalla Leopolda. Il discorso di Renzi dura 53 minuti. È svolto a braccio, Renzi indossa la consueta camicia bianca e una cravatta blu, e parla da un podio. Il discorso conclusivo della Leopolda 2013 durava lo stesso più o meno (56 minuti), Renzi indossava anche lì la camicia bianca d’ordinanza ma senza cravatta, e parlando da un microfono vintage cominciava: “Stamattina si è consumato uno psicodramma. Parliamo con il microfono o mettiamo il podio? Perché se parliamo con il microfono, facciamo le conclusioni della Leopolda; se invece parliamo con il podio, facciamo un discorso pomposo, serio.”
Il tono quindi, col podio, dovrebbe essere più adulto, e subito Renzi ci tiene a sottolineare che è vero, sì, bisogna prendersi sul serio; ma bisogna, chiosa, non smettere di divertirsi. Si fa sempre un po’ per scherzare, eh. Quindi imposta subito alla prima persona plurale, ripete: “Noi siamo qui, noi siamo qui, noi siamo qui”, come una sorta di grido maori, e poi entra nel discorso nominando “uno dei nostri che ha detto”, o definendo che “noi siamo quelli che”: il premier è uno della platea, quello che ha davanti è il suo popolo, questo noi è una comunità molto inclusiva, a cui si può aderire (“le porte del Pd sono aperte”) per osmosi emotiva prima che complicità ideale – la regola d’ingresso è più o meno l’ottimismo – se i nemici, come specificherà più volte, sono quelli che non ci credono, i disfattisti, i gufi. Se ci credi – non importa bene in cosa – sei uno della Leopolda.
Questa è di fatto l’unica mozione identitaria, ottimismo vs pessimismo, in un discorso che rivendica esplicitamente un’ideologia (“fare un discorso meno scherzoso del solito, ma più di contenuto, ma più di cornice ideologica, culturale, ideale”); l’unica mozione, insieme a quella simile che divide i nuovi dai vecchi. In definitiva non esiste altra distinzione.
L’appello chiave che invece Renzi ripete in apertura e in chiusura è un’espressione che sembra di tipo religioso/psicologico – non più la rottamazione, ma “sfatare i tabù” – e che in realtà è usata ormai solo in ambito sportivo (tipo: “Vincere in casa contro l’Inter è sfatare il tabù…”): l’afflato motivazionale è quello che coniuga la figura del sacerdote e quella del coach. La Leopolda è un rito d’iniziazione, ed è un ritiro precampionato – gli elementi che Baden-Powell era riuscito a mettere insieme per dare vita a quello strano ibrido comunitario che sono i boy scout.
Dopo i primi sei minuti utili a ribadire la liturgia, Renzi utilizza i restanti tre quarti d’ora per non dire sostanzialmente nulla. Ma la forza retorica con cui costruisce i discorsi è percussiva perché finisce con l’essere perennemente tautologica o evocativa. La quantità di frasi ovvie e l’enfasi profusa per avvalorare queste ovvietà nei suoi 53 minuti è incredibile: il paese va cambiato perché è il nostro compito, se siamo al governo non è per scaldare la seggiola, la politica estera è una cosa seria…
Renzi spesso, nei discorsi, nei libri, proclama cose semplici e lo fa proiettandosi verso una complessità che però non arriva mai. Ossia: butta lì come intercalare un “ora dico per semplificare”, “adesso la metto giù facile, ma poi…”. Ma questo poi, fateci caso, non esiste. Non c’è complessità nel mondo renziano, o meglio: è sempre presente ma solo in quanto evocata.
La sintesi critica della situazione politica globale la dà dal minuto 5.55:
“Noi pensiamo che il mondo interconnesso sia un gran casino. Che il mondo interconnesso che è un gran casino non sia un problema per l’Italia ma una grande opportunità per l’Italia. Che l’Italia possa avere un futuro se ha il coraggio di cambiare se stessa. E per cambiare se stessa, occorre sfatare alcuni tabù, liberarsi di alcune paure… È tutto collegato questo ragionamento, l’analisi internazionale, il ruolo della comunicazione informatica e comunicativa che c’è stato, la possibilità per la politica di fare il suo mestiere, e quindi lo spazio che l’Italia ha nel mondo, in Europa e a casa propria per provare a fare le sue cose…”
Che vuol dire? Il livello di analisi, qui come altrove, è quello di un tema scolastico di uno che la butta in vacca. Una concezione fumosa della storia, della geopolitica: una supercazzola. È tutto collegato è un’altra espressione chiave: nella prospettiva renziana è sempre tutto collegato. Ossia i collegamenti non sono mai cogenti, polari, ma onnifunzionanti. Questo accade perché la sua logica non è argomentativa ma associativa. Simula una elaborazione o spesso una sintesi, come nelle frasi precedenti, ma non la attua mai. Spaccia un’accozzaglia, un’incapacità di districare la complessità, per un’analisi fatta e compiuta.
Non è un caso allora che il primo nemico chiamato in causa – in definitiva sarà l’unico che darà un nome ai gufi – sono gli intellettuali. “I professori, gli specialisti, i tecnici”: la loro colpa è quella di aver previsto la fine della Storia con la caduta del muro di Berlino. Il riferimento probabilmente è a Fukuyama. Mentre la Storia, dice Renzi, non è finita, facendo sue delle critiche che diciamo hanno anche queste almeno vent’anni ovviamente, ma che lui smercia per nuove.
C’è qualcuno che ancora pensa che il muro di Berlino sia la fine della Storia? Niente sottigliezze: “i professori, gli specialisti, i tecnici”, “il ceto intellettuale” sono matusalemme nostalgici, lo spauracchio di Renzi. Una figurina simile ai “comunisti” di Berlusconi, una caricatura utile.
Nel momento più cabarettistico del suo discorso, Renzi dice:
“Avete presente cari colleghi sindaci e consiglieri comunali, cosa accade quando si apre un cantiere? C’è l’immancabile meeting e convention del pensionato, si reca al cantiere, si mette all’esterno del cantiere, inizia a guardare il cantiere e scuote la testa… N’ce la fan mica a finirloGuarda come lavoran piano… È l’atteggiamento tipico di una parte del ceto intellettuale dominante che adesso sarà molto offeso dal riferimento che ho fatto… Ai pensionati del cantiere… Ah ah… Io vorrei scusarmi con loro… con i pensionati del cantiere… Ah ah… Vorrei scusarmi con loro perché non se lo meritano quest’accostamento, ma è così.”
Chi è questo ceto intellettuale dominante sbeffeggiato? Chi sono questi professori contro cui si scaglia Renzi? Sono coloro che forse non sarebbero indulgenti rispetto a un tale livello di approssimazione concettuale? Sono quelli che non sanno scherzare?
Del resto su molte questioni specifiche Renzi è approssimativo, semplificante, grezzo. Quando parla del conflitto russo-ucraino, cita il problema dell’autonomia energetica e tira fuori, facendola sua, la sparata del presidente dell’Eni De Scalzi, per cui un giacimento di gas in Mozambico potrebbe darci combustibile per i prossimi trent’anni. Per i nostri figli. Come? Che importa? L’Eni ha stanziato 50 miliardi per le trivellazioni, poi se si farà un gasdotto (di diecimila chilometri?), se questo gas sarà venduto alla Cina, chi lo sa, intanto l’abbiamo buttata là.
Oppure quando parla dell’articolo 18, lancia en passant una frecciata che la sinistra non votò per l’approvazione nel 1970. In verità il Pci si astenne perché voleva tesaurizzare i risultati delle battaglie degli operai dell’autunno caldo, e lo Statuto voluto dai socialisti, ideato da Brodolini e messo a punto da Giugni sembrava troppo compromissorio. Quindi? Renzi non contestualizza, insinua che i comunisti nostalgici cambiano idea tanto per, e taglia fuori i socialisti dalla storia della sinistra italiana. La storia di quel voto la ricostruisce per esempio Alessandro Marzo Magno qui.
Oppure ancora quando Renzi nomina il suo beneamato vecchio sindaco Giorgio La Pira come nume tutelare della politica estera, citando la sua famosa frase “Il Mediterraneo è il lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni”, dimentica che La Pira aveva sì messo al centro della politica estera il Mediterraneo, ma l’aveva fatto spendendosi in prima persona sulla questione palestinese, tema su cui il governo Renzi, da Mogherini in giù, è stato – per usare un eufemismo – particolarmente laconico (qui, per avere un’idea, uno dei rari, tardi, e vaghi interventi dell’ex ministro degli esteri; ah, sì, perché nel frattempo – un po’ di mesi, ormai – non ce n’è un altro). Inoltre La Pira sposava una linea aggressivamente anticolonialista, una prospettiva terzomondista a cui Renzi non pare proprio accennare.
Ma queste, si direbbe, sono quisquile storiche, da intellettuali. E per Renzi gli intellettuali sono pensionati brontoloni. La cosa bizzarra è che dopo aver tirato merda sugli intellettuali, dopo pochi minuti, Renzi si lancia in un peana ad esaltare i professori della scuola: “Fare il professore dev’essere un sogno da realizzare per la carriera di un giovane ragazzo. Dobbiamo tornare a dare potere, spazio, dignità e orgoglio al ruolo degli insegnanti. Dire che fare il professore non è la cosa che fanno gli sfigati. (…) Perché saranno gli insegnanti a salvare l’Italia, non i ragionieri. Con tutto il rispetto per chi fa il ragioniere”. E quindi? Uno potrebbe domandare: gli studiosi, i professori sono il male o il bene, il demonio e il messia? Gli insegnanti non rappresentano il ceto intellettuale?

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