17 ottobre 2014

SULLA POESIA DI ANDREA ZANZOTTO

René Magritte, La condition Humain, 1933


Si è tenuto dal 10 al 12 ottobre, a Pieve di Soligo, Solighetto e Cison di Valmarino, il convegno Andrea Zanzotto, la natura, l’idioma, a cura di Francesco Carbognin. Domani ricorre il terzo anniversario della morte di Zanzotto. 
Il poeta veneto è stato per noi un importante punto di riferimento; anche per questo riproponiamo con piacere la versione ridotta dell’intervento al convegno di Andrea Cortellessa pubblicata oggi da  http://www.leparoleelecose.it

 Sotto la pelle della lingua

di Andrea Cortellessa

Zanzotto, poeta dantesco, non si può non leggerlo per trilogie. Proprio come per un altro autore quanto mai dantesco, Samuel Beckett, nelle rispettive opere la Trilogia che tutti definiamo tale – se non altro perché così la chiamavano gli autori stessi, anche se Zanzotto com’è noto vi preponeva l’avvertenza del prefisso pseudo- – è una sola. Nel caso di Beckett quella romanzesca, cioè – se quest’aggettivo si può ancora impiegare per testi come L’Innommable –, degli anni Cinquanta. Per Zanzotto, invece, quella costituita dal Galateo in Bosco, da Fosfeni e da Idioma: le raccolte, rispettivamente pubblicate nel 1978, nell’83 e nell’86, in cui si dispongono – seguendo ordinamenti risolutamente non cronologici – le poesie composte fra la metà degli anni Settanta e quella del decennio seguente. Ma per Beckett si parla anche, poi, usando in questo caso una definizione apocrifa, di una “seconda trilogia”: riguardo a testi brevi e tardi da lui stesso in ogni caso raccolti – l’anno stesso della morte, il 1989 – nel volume Nohow On (ciclo ricostruito in italiano solo nel 2008, da Gabriele Frasca, col titolo In nessun modo ancora). Anche per Zanzotto si è potuto parlare di una “seconda trilogia” – Stefano Dal Bianco ha usato l’espressione suggestiva «trilogia dell’oltremondo» – riguardo alle ultime tre raccolte uscite fra il 1996 e il 2009, Meteo, Sovrimpressioni e Conglomerati. Che, come nel caso della prima degli anni Settanta-Ottanta, è una pseudo-trilogia: in quanto dispone i propri tasselli in tracciati che deviano dall’ordine cronologico di composizione. Ma che ha la sua cifra unificante, come la “seconda” beckettiana, in quello che si può definire – con formula resa celebre da Edward Said – lo «stile tardo» dell’autore. Uno stile dell’indefinito rastremarsi e assottigliarsi, di un “levare” che non è neppure più sprezzatura, da parte dell’artista, bensì il suo incauto esporsi alla crudeltà del tempo, a un vento dell’esistere che lo spoglia sino all’essenziale, sino a quella condizione esausta che Gilles Deleuze, in pagine mirabili, ha descritto a proposito proprio dell’ultimo Beckett.
Quella che mi propongo di ricostruire qui è una “terza” trilogia zanzottiana, rimasta sinora incondita e a tutti gli effetti segreta. Implausibile, se non altro, perché una delle sue ante, Il Galateo in Bosco, la condividerebbe con la prima e “autorizzata”. E poi perché due dei tre testi che la comporrebbero sono stati resi pubblici a molto tempo l’uno dall’altro, così sovrapponendo – o sovrimprimendo – la propria supposta estensione a quella appunto del primo organismo tripartito. Ma del resto già in quella prima trilogia le geometrie interne erano variabili, presupponendo temporalità difformi dalla norma: «un tempo dalla freccia e durée diverse», diceva Zanzotto nella Nota ai testi di Filò, che «per questo ha a che fare quasi unicamente con la poesia». All’uscita del Galateo, due anni dopo, aveva annunciato in questi termini, i lavori in corso:
altri due libri già in buona parte scritti ma che non stanno tra loro in un rapporto di continuità o di ciclo, bensì vivono dell’accertamento di una discontinuità. Esiste come uno spostamento metonimico da un libro all’altro. Tali spostamenti, o meglio sbilanciamenti, esistevano già all’inizio, quando queste formazioni si articolarono quasi come tre rami non contigui dello stesso albero. Rami da tagliare per poterli poi riconnettere; né si è ben certi della stessa esistenza dell’albero. Chi sa.
L’albero della trilogia, chissà se c’è. Oppure, si può dire, c’è e non c’è. Come in un certo quadro tardo di Magritte, dal titolo Le Blanc-seing (“La firma in bianco”), del ’65: in cui si vede un’amazzone su un bel cavallo baio, condotto a un trotto moderato ma deciso, che attraversa un bosco verdeggiante di fusti e fronde. Ma il passaggio di animale e cavallerizza fra i tronchi degli alberi fa sì che a tratti la figura principale appaia reale e l’albero in primo piano, che li oscura parzialmente, una proiezione immaginaria; e a tratti, al contrario, che siano la signorina e la sua cavalcatura un’illusione ottica, l’effetto di una proiezione sul tronco degli altri alberi. L’ambiguità fra figura e sfondo, tra vista e immaginazione, tra visibile e invisibile, ripete il cortocircuito del ben più noto La condition humaine, replicato da Magritte in varie versioni fra gli anni Trenta e Sessanta: e la cui situazione (un quadro di paesaggio che nasconde una porzione, di quel paesaggio, esattamente coincidente coi confini del quadro: ma che dunque possiamo solo supporre il dipinto riproduca con fedeltà) può ben ricordare l’affresco realizzato nella casa avita di Cal Santa da Giovanni Zanzotto, e tante volte ricordato dal figlio Andrea, che si vede anche nel film di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini, Ritratti, e che riproduce il locus amoenus che si trovava all’esterno dell’abitazione, dietro la parete su cui era dipinto dunque, inserendo in un angolo la figura sorridente del «principino», di quella terra miticamente felice: ossia appunto il piccolo Andrea. Il titolo Le Blanc-seing, spiazzante come spesso quelli magrittiani, pare alludere al credito che ciascuno di noi è costretto a dare ai propri strumenti percettivi, le cui osservazioni sempre – di fronte a una realtà ambigua e sfuggente – ci costringiamo a semplificare in un pensiero, un’opinione, una credenza. Situazione non così diversa da quella di un interprete che si confronti, senza intenzioni didascaliche o comunque rassicuranti, con un corpus della complessità (e dell’intenzionale, esibita mistificazione) di quello zanzottiano.
Fatto sta che questa ipotetica “terza” trilogia, questa trilogia fantasma che balugina come un fosfene magari solo nella mia immaginazione, è apparsa con la pubblicazione in contemporanea, nell’ottobre del 2012 e dunque giusto un anno dopo il congedo, di due testi risalenti a stagioni diverse e che, per una lampeggiante anacronistica sincronia, si legavano fra loro in un baleno: per dirla à la Walter Benjamin. Da un lato Einaudi ripubblicava, per la prima volta in volume a sé dall’88 (e in quella che, curiosamente, era in assoluto la prima uscita zanzottiana nei propri tipi), il poemetto Filò del 1976, accompagnato da una breve quanto intensa Prefazione di Giuliano Scabia; dall’altro usciva negli Stati Uniti, curato da Anna Secco e Patrick Barron per The University of Chicago Press, Haiku for a season: un inedito risalente al 1984 (per la precisione, ricordava Marzio Breda in un prezioso articolo uscito in quei giorni sul «Corriere della Sera», «la gemmazione degli haiku di Zanzotto» si deve collocare «tra la primavera e l’estate del 1984»).
Due testi in apparenza assai remoti, sia per l’uscita a distanza di trentacinque anni l’uno dall’altro (ma la data di effettiva composizione, come invece si vede, li avvicina alquanto), sia per la rispettiva disposizione formale, che appare appunto agli antipodi. Il libro del ’76 s’impernia come sappiamo sul poemetto omonimo in parlar vecio, il veneto della valle del Soligo che per la coscienza linguistica di Zanzotto era il sostrato dialettale più arcaico rinvenibile; anche se i testi più brevi che lo precedono, il Recitativo veneziano e la Cantilena londinese, scritti invece in «una koinè veneta, di base veneziana», più sciolta e modernizzante (e si noti intanto come i tre testi raccolti nel libro si riferiscano tutti, sin dal titolo, a una più o meno cantabile oralità), e destinati ai dialoghi del Casanova di Federico Fellini, rivestono come vedremo un’importanza assolutamente non accessoria.
Gli Haiku for a season al contrario non hanno ovviamente una struttura solida, e non solo perché in sé gli haiku (come li definisce Zanzotto in una sua al solito splendida, lampeggiante pagina critica risalente non a caso all’82) sono «lievi coaguli di versi» caratterizzati da una «tenuità di germoglio», testi-«molecola» punteggiati oltretutto da «non traducibili parole-pause, corrispondenti quasi ai “men” e ai “de” greci, così preziose nella loro “inutilità” immediatamente semantica e nel loro stupendo alone fàtico» e che insomma, nel loro avvicinarsi il più possibile all’asintoto della parola-silenzio – a quel Dire il silenzio, proprio, col quale Niva Lorenzini giusto in questi giorni, colla sua monografia edita da Carocci, ha voluto sigillare la propria lunga fedeltà zanzottiana –, rappresentano un netto anticipo della maniera più “aleatoria” e volatile dell’ultimo Zanzotto, le parole-topinambur o parole-polline di Meteo o Sovrimpressioni. Ma poi perché il Nostro (magari allo scopo di rifuggire dal «pericolo di una maniera» che non mancava di sottolineare nell’82, ossia l’«eccessiva fedeltà a una tradizione» troppo docile cui accodarsi) fa la scelta sottile di non seguire canonicamente la semplicissima struttura metrica dell’haiku classico di diciassette sillabe (tanto che, testimonia Breda, li chiamava «pseudo-haiku»: con prefisso evidentemente non innocente), piuttosto arieggiandola e “assonandola”.
E poi, soprattutto, perché questi pseudo-haiku li scrive in una lingua, l’inglese, che – al contrario del dialetto più o meno arcaico di Filò – non solo Zanzotto non padroneggia completamente, ma davvero “non gli appartiene” (nel senso che in precedenza lo aveva inserito solo a chiazze, nella sua partitura plurilinguistica – come ha spiegato in questo convegno Stefano Dal Bianco –, con intenti implicitamente polemici, come lingua “infera” della globalizzazione in atto). A differenza del francese e del tedesco parlati in famiglia durante la sua infanzia, varie volte da Zanzotto rievocate, l’inglese appare insomma come un alien (alieniloquium, una volta, Petrarca ha definito la parola poetica in sé): un’infestante parola-intruso, periclitante quanto perturbante, cui si guarda con fastidio misto a una fascinazione sottilmente perversa (un po’ come accadrà, nella “seconda trilogia”, con le vitalbe); diciamo, per mutuare una bellissima dicotomia che usava Zanzotto negli anni Sessanta a proposito dell’urbanistica veneta (negli interventi di Luoghi e paesaggi che di recente ha magnificamente restaurato, per Bompiani, Matteo Giancotti), una lingua-piaga allignante tra lingue-fioritura, e che va insomma annoverata fra quegli «allarmi sullo stato del mondo» di cui ha parlato Giulio Ferroni. Una lingua che serve, a chi la impiega, a una funzione precisa.
Sempre dal prezioso articolo di Marzio Breda – che comprende una quantità di frasi scrittegli e dettegli, negli anni, dallo stesso Zanzotto – ricaviamo quale fosse, per l’autore, tale funzione:
ci fu una stagione nella quale la famiglia e gli amici si preoccuparono seriamente, per lui: gli anni tra il 1982 e l’84. Quando, all’ingresso nella cosiddetta terza età, si ritrovò schiacciato da una depressione tenebrosa, che lo spinse a vari ricoveri in ospedale e a entrare in analisi […]. «Una pesante sfiducia mi assediava… mi sentivo minacciato dal senso di un’irrealtà di tutto e da una sterile panfobia» […]. Confessava che quella sofferenza, tra spossatezza e passività, lo aveva portato sull’orlo dell’inaridimento, dell’afasia. «È stato un momento cupissimo, come se fossi stato immerso in una palude limacciosa, anzi una fogna, e le parole — pochissime, all’inizio simili a crampi verbali — mi venivano fuori alla stregua di bolle. Gargarizzavo un flusso di frammenti e variazioni, ritorni e ripensamenti, con ibridazioni linguistiche… oscillavo tra il mutismo e un balbettio di pochi vocaboli, drenando degli pseudo-haiku che, in una specie di effetto calamita, si congegnavano a gruppi, a coroncine…
«Li componevo in un inglese ridotto quasi al grado zero, minimo e minimalista, perché quella lingua la conoscevo poco ma mi piaceva esplorarla. Di rado affioravano anche formazioni in dialetto o mi aggrappavo a intarsi in un italiano lucente, forse per un inconsapevole omaggio alla lingua di Dante, Petrarca e Ariosto, e più probabilmente per notificarmi presente a me stesso con un bip-bip vitale… Ma, nel mio stato patologico, a prevalere erano quelle stille che spesso esprimevo in un neoinglese “petèl”, cioè il linguaggio vezzeggiativo che utilizzano le madri e le nutrici cullando i figli ancora nel nido della pre-infanzia… un tuffo nell’oralità perpetua… Versi che non possono forse dirsi “inglesi” e che tuttavia in qualche modo lo sono».
Quell’oralità perpetua era per Breda, insomma, una cura: un «auto-aiuto» che «gli aveva permesso di superare la fase forse più critica dell’esistenza». Il paradosso di Münchhausen, per una volta, aveva funzionato (non casuale l’evocazione della palude limacciosa). Ma la cura è sempre, nel nostro poeta, piuttosto farmaco: con la sua mortifera ambivalenza etimologica. Quella «forma di particolarissima autoanalisi», confessava appunto Zanzotto a Breda, era «ferita e farmaco»: «in un processo di continui ondeggiamenti, slogature e prospezioni dentro l’inconscio». La stessa adozione dell’inglese come deskilling (così si definisce nel lessico delle arti visive l’adozione consapevole di una tecnica di cui non si è del tutto padroni – al fine appunto di evitare le trappole della consuetudine e della maniera) ha una funzione decentrante, spersonalizzante, insieme lenitiva ma anche sottilmente angosciosa: «scrivevo, e non mi ponevo il problema se ciò che facevo contasse qualcosa. Mi lasciavo andare a una deriva più o meno pigra che a volte si trasformava in un “dittar dentro” somigliante anche a un “diktat”, a qualcosa di impositivo e di cui non mi potevo liberare…». Nella pagina saggistica sull’haiku questa deriva viene definita «lo sfarfallio di un logos che è quasi sempre libero dalle costrizioni di un soggetto». Una liberazione da sé per mezzo di una dettatura da cui non ci si può liberare. Liberazione paradossale, dunque: doppio legame euforizzante, esilarante, quasi isterico. E che infatti prevede, puntuale, il moto retrogrado, auto-correttivo, dell’auto-traduzione. Che, proprio come in Beckett, non prevede com’è ovvio una fedeltà a quel se stesso che oltretutto, come si è visto, non si sa neppure bene chi davvero sia; producendo bensì (come suona un ennesimo, prezioso virgolettato di Breda) «versioni parallele e semiautonome».
Vale soprattutto per i suoi ormai prossimi pseudo-haiku, insomma, la considerazione che più ci appare rivelatoria, entro il saggio agli haiku dedicato nel 1982: «Sono spiragli da cui filtra qualcosa di accecante e insieme di carezzevole, sono cuspidi elastiche di qualcosa che deve restare sommerso, per noi (e forse per tutti), ma che pure sentiamo necessariamente nostro». Qualcosa che deve restare sommerso ma che evidentemente, e malgrado tutto, emerge, filtra: per spiragli, per barlumi e lampeggiamenti. O, come dirà Zanzotto a Breda, per bolle: come all’improvviso sfiatare di correnti di calore sotterraneo che producano un sobbollimento, appunto, da pentolone streghesco, macbettiano, o piuttosto da soffione geotermico, vulcanico. (A posteriori, nel 1998, in una Nota aggiuntiva posta alla plaquette Ligonas, rievocherà l’episodio – per lui evidentemente tutt’altro che secondario – in termini letteralmente infernali, rinviando allo Stige del Canto VII: «una serie di falsi haiku, o meglio frammenti, scoppiati su come bolle della “belletta negra” depressiva».)
È una metaforologia, questa, che ricorda insomma quella “geologica” di un testo splendido – un testo che ho già avuto modo di citare, di sfuggita, poco fa – che, col titolo denotativo e anodino di Nota ai testi, pochi anni prima Zanzotto aveva posposto a Filò. Uno degli Haiku for a season mette in scena dei «Mini-volcanoes, poppies down here up there / gifts for wormed oblivious hills – / for our oblivion, sweetest gifts», la cui auto-traduzione suona: «Vulcanelli, papaveri qua e là, / doni per devastate, dimenticate colline – / per la nostra dimenticanza, / i doni più dolci». Parola che appare per la prima volta nell’opus, mi pare, vulcanelli: prima di riapparire nel primo componimento della sezione Euganei di Conglomerati. Ma che ritroviamo utilizzata da Scabia nel presentare Filò, proprio: «Come vulcanelli che si formano per terræ motus, motto, mottetto, bocche, boccucce, labbra, sfese, sfesette. Bocca che dice, che sa non sapendo. Bocca che viene parlata».
La Nota ai testi dell’autore in coda a Filò mostra una concentrazione e un’originalità di pensiero di altissima densità, davvero da conglomerato ipogeo: sino a superare la media – come sappiamo già incandescente – della prosa saggistica del suo autore. Tanto che insomma vien quasi voglia di definirla, questa Nota, come fa Scabia (che per la verità così definisce Filò nel suo insieme), «il De vulgari eloquentia del ’900». Un De vulgari eloquentia di cinque pagine e una manciata di righe… sarà un De vulgari eloquentia miniaturizzato o, forse, haikuizzato. Nella Nota la metaforizzazione geologica si ibrida con un altro vettore metaforico a Zanzotto consueto come quello psicoanalitico e, in particolare, psicolinguistico, col quale cerca di spiegare il fenomeno – non meno perturbante di quanto sarà quello, uguale e contrario, dell’inglese a bolle – dell’emergere e filtrare del revênant dialettale:
il dialetto appare oggi la metafora – ed è per un certo verso la realtà – di ogni eccesso, inimmaginabilità, sovrabbondare sorgivo o stagnare ambiguo del fatto linguistico nella sua più profonda natura. Esso resta carico della vertigine del passato, dei megasecoli in cui si è estesa, infiltrata, suddivisa, ricomposta, in cui è morta e risorta «la» lingua.
Il cenno ai megasecoli indirizza al motivo paleontologico, fossile, che nei versi e nella prosa di Zanzotto circola almeno dal Fuisse di Vocativo (e dal grande intervento su Montale, del ’53, che ne costituisce il testo a fronte saggistico). E infatti di lì a poco questa lingua fossile, questo parlar vecio e anzi arcaico viene caratterizzato come «riversato entro la terra»: un «terreno vago in cui langue e parole tendono a identificarsi, e ogni territorialità sfuma in quelle contigue». È una sedimentazione psichica, che trasferisce sulla verticalità del linguaggio la stratigrafia freudiana dell’inconscio, quella che teorizza Zanzotto: «una specie di diglossia quasi rimossa» che individua insomma un sostrato: un grund duro e profondo che, malgrado ogni dispersione e ogni aggressione globalizzante-omologante, ostinatamente resiste alla base; mentre «l’italiano illustre e monumentale […] si imponeva dopo il dialetto, anzi gli si sovrapponeva tutto sommato lasciandolo pressoché indenne». Un es della lingua, diciamo: la cui «natura di inconscio […], appunto, “esplode” lenta, si rivela proprio nell’attimo in cui la stessa fonte dell’oralità è minacciata, ed ogni inconscio, ogni “matrità”, rischiano di essere cancellati».
Che qui parli più Freud di Lacan, per una volta, lo conferma quella che mi appare una cripto-citazione: quella «corrente infera» che si sprigiona nel e dal parlante dialetto, «liberando […] il desiderio d’espressione e l’espressione», fa pensare al verso virgiliano posto appunto da Freud in esergo all’Interpretazione dei sogni: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo», «Se non potrò muovere le potenze del cielo, solleverò quelle degli inferi». (Proprio delle fogne di quest’altro fiume infernale, che Dante incontra nel Canto III, vengono evocati gli sguinzh, gli «schizzi», in un testo particolarmente esposto di Conglomerati, quello in dialetto che comincia In te le peste da distrazhion, e che per Niva Lorenzini ben riassume, della raccolta postrema, una «tassonomia dell’inabissarsi, del penetrare, tra vuoto e latescenza».)
Quella che d’improvviso è emersa dalla superficie linguistica della terra è una beltà mostruosa e medusea: come, nel disegno di Fellini da cui tutto si è originato (e che si trova riprodotto nel corpus del libro), emerge dall’acqua della laguna veneziana «una gigantesca e nera testa di donna», come scrive il regista nella lettera che invia al poeta nel luglio del ’76: «una specie di nume lagunare, la gran madre mediterranea, la femmina misteriosa che abita in ciascuno di noi». La spinta iconica del Virgilio-Fellini ha precipitato il Dante-Zanzotto in quella che è davvero la sua stagione all’inferno (la Season, la Saison cui di lì a poco alluderanno appunto gli Haiku): «questa breve ma per me non trascurabile discesa per scorciatoie assai precipiti», come si legge non a caso nella Nota di Filò.
Resterà la contrapposizione fra un dialetto pre-linguistico, si obietterà, e un inglese post-linguistico: per dirla alla maniera di Contini. Ma anche in questo caso l’apparenza inganna. Nella prima pagina della Nota a Filò si chiede Zanzotto in che modo «i dialetti nelle loro capillarizzazioni infinitesimali» possano «intersecare» i «loro destini» con «le lingue, specie quelle a diffusione tendenzialmente panterrestre». Cioè, nel contesto del tempo, appunto l’inglese ormai. Ricorda Scabia che il «Casanova nasce inglese», e dunque Zanzotto assai concretamente dovette ricalcare il veneto della Cantilena e del Recitativo, che nel libro del ’76 accompagnano il poemetto eponimo, su dialoghi inglesi: o meglio sulla parlata, su quel pidgin imperfettamente anglomorfo che ci si immagina parlato, nella colonna audio originale, da un cast globalizzato, panterrestre.
Quella «specie di diglossia» (sulla cui funzione di Spaltung psichica rinvio alle classiche, sempre illuminanti pagine di Stefano Agosti), che sostiene Zanzotto essere assai diffusa fra i parlanti italiano che l’italiano “innestano” sul sostrato dialettale, è dunque in realtà almeno una triglossia (un «idioma trifarium», per convocare un’espressione del De vulgari eloquentia – stavolta quello originale, dantesco – che non avrà forse mancato di lasciare a sua volta tracce, nel sostantivo, in Zanzotto): nel quale alla lingua “diurna” e veicolare, l’italiano, sottostà l’“infero” dialetto e si sovrappone il “supero”, il superegoico, «sovrimpresso» e «superfluente» inglese: che ha preso il posto, quale parlata a diffusione tendenzialmente panterrestre, del latino. Nella nota intervista rilasciata a Ferdinando Camon nel ’65, non ci sorprendiamo a questo punto di ritrovare – a proposito proprio del latino – la medesima metaforologia geo-psico-linguistica; nonché un rivelatorio cenno alla fenomenologia della depressione. Il latino, sin da Vocativo (e ci si ricorda un titolo eloquente come Fuisse, appunto), si interseca all’«istituzione linguistica italiana» come «una faglia naturale»:
Quel latino era come l’apparire di una struttura scheletrica per incrinamento di strati duri che la velassero, o per esser del tutto divenuta lisa una coltre di vitale humus, cioè per un insieme di situazioni depressive per altro combattute il più possibile. Il latino, ritorno di una certa origine ma come devitalizzata, e insieme ritorno della metastoria (per non dire di una metafisica) schiacciante per la sua a-umanità, per me riappariva in un trauma. Lingua morta e lingua della morte
Una «lingua sacrale»; un idioma alto e terribile che altresì
 definiva gli animali-fantasma delle remote ere geologiche come la topografia della luna o di Marte, era la lingua cui restava collegato l’«orripilare» umano nel contatto con l’immenso spaziale e temporale: il latino salito alla storia per trovarsi di fronte alla storia, glacialmente irrigidito eppure proliferante, putrefatto ed eterno
A questo punto ci soccorre la terza anta, la più importante e giustamente la più celebrata, della nostra “trilogia fantasma”. Nel Galateo in Bosco, due anni dopo Filò, l’emergere di chiazze dialettali dal magma del Gnessulogo ha ormai l’identica valenza orripilante dell’italiano illustre e monumentale: il più monumentale di tutti, anzi, quello del proclama della vittoria del maresciallo Diaz. Un idioma salito alla storia per trovarsi di fronte alla storia: un «pezzo di guerra sporgente da terra», un fossile umano che aggalla alla superficie del presente, orribilmente notificando la sua presenza, col suo memento di teschio in cornice d’Arcadia.
E allora acquista un senso diverso, quanto mai minaccioso, la clausola in apparenza tutta “in positivo” sulla quale si conclude la Nota di Filò:
il contatto con i dialetti, uccisi e mai morti, puntiformi ma con agganci ed echi nelle più incredibili lontananze, è capace di inquadrare anche se in termini cifrati le più smaglianti aperture su alterità, futuri, attive dissolvenze. Il dialetto non può aver a che fare con riesumazioni o imbalsamazioni «da riserva». Deve essere sentito come guida (al di là di qualunque ipotesi sul suo destino) per individuare indizi di nuove realtà che premono ad uscire.
Queste presenze uccise e mai morte, qui volontaristicamente esorcizzate quali possibili aperture su alterità, futuri, attive dissolvenze (e disgiunte, con quella che è allora una negazione freudiana piuttosto trasparente, dall’atto necrofilo della riesumazione, dell’imbalsamazione), sono gli scheletri di vittime non remotissime e paleontologiche, bensì prossimamente, tragicamente storiche. I compagni corsi avanti della guerra civile del ’44, sulla Cal Santa, celebrati a loro volta in Vocativo; la folla sommersa dei caduti della Grande guerra del ’18, sull’Isola dei morti, sul Piave, che trova esequie finalmente degne nel Galateo. E questi indizi di nuove realtà che premono ad uscire in realtà designano – come mostrerà la crisi nevrotica dell’82-84 – presenze minacciose, correnti infere e ostili che in ogni momento possono esplodere in superficie, sprigionando fenomeni apocalittici. Non a caso il trauma scatenante di Filò, che nel caso della Cantilena e del Recitativo era stata l’inquietante ma cordiale sollecitazione felliniana, nel poemetto eponimo era invece stata la catastrofe sismica del Friuli, prodottasi nel maggio di quello stesso ’76.
Sotto la pelle della lingua, sotto la terra della mente – dietro il paesaggio, insomma – cova persistente qualcosa di oscuro e terribile. Zanzotto, guerriero mite e indomito, quella Medusa l’ha sempre sfidata. Talvolta evocandola in cifra, per obliquo; talaltra guardandola negli occhi, segnandocela a dito. Ma sempre con audacia – quella che si dimostra solo quando si ha davvero paura. Quella stessa paura, scura tenebrosa lampeggiante, che ci fa leggerlo, che ci fa pensarlo: ora che non c’è più lui, a indicarci il sentiero – a farci coraggio.



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