Il primo ottobre ’67 è domenica, le scuole si
aprono solo il giorno dopo, ma è quello il giorno dell’incontro – sulle pagine
di Pese Sera -
tra Rodari e don Milani – scomparso a giugno, negli stessi giorni della
pubblicazione di “Lettera ad
una professoressa”. Forse a Firenze o a Calenzano i due hanno avuto
occasione di incontrarsi di persona, nei primi anni ’50, prima del confinamento
del priore – nel ’54 - nella piccola canonica di Barbiana. È in ogni caso un
incontro forte e straordinario, che vibra in parole che il priore avrebbe
apprezzato con affetto e affettuosamente contestato nei passaggi leggermente
critici. Le loro idee di scuola camminano in ogni caso nel medesimo solco,
quello della libertà, della responsabilità, dell’amore per i giovani e per la
cultura.
Rodari –
nell’articolo intitolato “Ritorno a scuola” - lo ritiene il più bel libro mai
scritto sulla scuola: “Una violenta denuncia della nostra scuola è
contenuta in "Lettera ad una professoressa" in cui gli allievi di don
Milani hanno narrato la loro esperienza scolastica e illustrato i frutti delle
loro ricerche. Il libro è un po' un testamento del prete toscano, ma non
spirituale, meglio dire di lotta. Un libro urtante, "cinese",
addirittura, in certe affermazioni da "rivoluzione culturale". ...
Non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale. ... Con tutto ciò, il
più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana, il più
appassionante, il più vero. Vi si respira e misura la rivolta, l'aspirazione
inarrestabile alla cultura, la volontà di cultura a tutti costi in cui si muta
una profonda presa di coscienza dei propri diritti. Vorremmo consigliarlo a
tutti gli insegnanti italiani, perché, nella sua durezza, è un appello alla
grandezza della loro missione: anche nella critica ingiusta è un canto d'amore
verso la scuola. Il libro è stato ampiamente discusso. Anche il ministro della
pubblica istruzione Gui lo ha citato. ... ma il ministero dell'istruzione ne ha
vietato l'acquisto per le biblioteche scolastiche e per quelle degli
insegnanti. Il divieto non ha il minimo senso. Da quel libro abbiamo tutti da
imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici. Proprio
perché è così poco "diplomatico", perché dice verità spiacevoli,
perfino perché le esagera in qualche punto, con un’irruenza giovanile di cui
invano si cercherebbero le tracce nei componimenti scolastici. La nostra scuola
ha più bisogno di coraggio che di diplomazia.”
Un sentimento di
entusiasmo che appartiene anche a Pier Paolo Pasolini, il quale commenta e
argomenta per la televisione italiana, capace, in quel ’67, di interessarsi di
cultura, una televisione non ancora travolta dalla tele-spazzatura. Queste le
parole di Pasolini su “Lettera a una professoressa”: È un libro veramente bello, la vitalità -
leggendolo - aumenta in modo vertiginoso, ed è questo il metodo pratico,
essenziale, per giudicare la bellezza di un libro. Lettera ad una professoressa
è scritta con grande grazia, grande precisione, con assoluta funzionalità, non
soltanto, ma con grande spirito, quasi come un libro umoristico, fa ridere e
nello stesso tempo, immediatamente dopo aver riso, viene un nodo alla gola, un
groppo alla gola, addirittura le lacrime agli occhi, tanta è la precisione e la
verità del problema che si pone, il problema della scuola italiana. Oltretutto
c'è anche coscienza stilistica, perché vi è contenuta una delle più straordinarie
definizioni di quello che deve essere la poesia: un odio e un senso di vendetta
verso gli altri che - una volta approfondito e liberato - diventa amore. Dunque
di “Lettera ad una professoressa” devo dire tutto il bene possibile, non mi è
mai capitato di essere così entusiasta di qualcosa e di sentirmi obbligato e
costretto a dire agli altri: leggetelo. È un libro che riguarda la scuola,
nello specifico, ma nella realtà riguarda la società italiana, l'attualità
della vita italiana.”
Ha ragione Tullio De
Mauro nel ritenere che il creare una scuola (don Milani), il sentirsi fratello
delle donne e degli uomini delle borgate (Pasolini), l'inventare favole
(Rodari), siano vissuti concreti e quotidiani e proprio in questa concretezza,
nella capacità di un pensiero profondo e autentico, chiaro e percorribile,
dentro questioni di tutti i giorni, che ci toccano quotidianamente, sia da
ricercare la particolare sensibilità, l'intelligenza, la straordinaria
modernità e la forza rivoluzionaria dei pensieri di Rodari, di Pasolini e di
Milani, che De Mauro avvicina e affianca nella premessa dei testi rodariani
raccolti in “Il cane di Magonza”, editati nell’82 da Editori Riuniti.
Così scrive De Mauro: “Sia Rodari sia, prima di lui,
Milani e Pasolini, sono stati personalità creative di natura particolare. Tutti
e tre sono stati trasgressori e critici non a chiacchiere, ma rebus, con e
nelle cose, con e nel modo di vivere e lavorare. E tutti e tre, oltre le
profonde differenze, hanno avuto qualcosa di comune. La loro critica, il loro
trasgredire non si è configurato additandoci mete ardue remote, straordinarie
esperienze, mondi possibili inaccessibili o difficilmente accessibili a chi non
sia o creda d'essere un superuomo, una superdonna. La loro trasgressione, la
loro capacità di protesta creativa, si è invece esercitata sul terreno della
più ovvia quotidianità. … A questo terreno pestato dai piedi di noi tutti
rinviano gli scritti, gli interventi, le invenzioni, le invettive e le speranza
delle tre persone di cui stiamo discorrendo e su questo terreno essi
suggeriscono che possiamo trovare e percorrere sentieri nuovi, migliori, più
umani …”
Possiamo dire che Rodari e Pasolini si
riconoscano nella carica etica di don Milani, nelle infuocate e intemperanti
esternazioni del maestro di Barbiana, nelle pagine più accese dei suoi scritti:
“Spesso gli amici mi chiedono come far scuola e che cosa insegnare, con quali
metodi, sbagliano domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come fare scuola, ma
di come essere per fare scuola, bisogna avere le idee chiare in fatto di
problemi sociali e politici, bisogna essere schierati.” O ancora: “A ballare ci
vanno i vecchietti, alla vostra età – ragazzi - si deve andare al sindacato o
al partito, altrimenti si cade vittima delle mode e dell’omogeneizzazione della
lingua e del pensiero.” È Milani certo, ma potrebbero essere tanto Pasolini,
quanto Rodari. È questo un insegnamento assolutamente attuale, vivo, noi
cerchiamo di raccoglierlo, portandolo oggi lungo le strade del mondo, per una
diversa scuola e una diversa società.
Quarant’anni fa, nella Milano del ’67, un
altro uomo eccezionale, un prete partigiano, un membro dell’ordine dei serviti,
un poeta prestato alla fraternità evangelica, padre Davide Maria Turoldo,
sfidando, in amore con la libertà, i divieti di una chiesa miope che su don
Milani chiedeva silenzio, organizza la prima presentazione di “Lettera ad una
professoressa”. La sua voce tuona brani, vibra, mentre legge come don Milani
assimili gli insegnanti ai preti e alle puttane, aggiungendo che gli insegnanti
dovrebbero provare ad essere un po’ meglio, come don Milani preferisca il
contratto dei metalmeccanici alla cosmogonia greca quale materia di scuola,
dica – sempre don Milani – “La media unica è spiaciuta alle destre? È un fatto
positivo.” Dice ancora don Milani, “niente vi è di più ingiusto che fare parti
eguali tra diseguali”. Proprio per questo sentiamo tutto il desiderio di
ribellarci, in Italia, in Europa, nel mondo, oggi così vicino e globale eppure
così ingiusto, così diseguale, a tutte quelle forme che perpetuano uno
sfruttamento e una prevaricazione degli uni sugli altri. Quella sfida,
quel coraggio, quella forza ribelle, ci sono da esempio. L’obbedienza per noi,
secondo l’insegnamento sempre di don Milani, non è una virtù, ma la più subdola
delle tentazioni.
Davide Rossi
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