di Girolamo De Michele
Sandro Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, Derive Approdi, Roma 2014, pp. 208, € 17.00.
“Ne tombez pas amoureux du pouvoir” (Michel Foucault, 1977)
Sottotitolare “una politica della filosofia” una raccolta di studi che tira le fila di un lavoro più che decennale significa prendere precisi impegni con il lettore: tra i quali, una voluta delimitazione della quantità dei destinatari, in favore di una precisa selezione qualitativa. Una “politica della filosofia” è, in primo luogo, l’opposto di una moda filosofica, qual è la cosiddetta “Italian Theory”, quell’insipida minestra precotta e scaldata da chi dissolve la critica foucaultiana in una teoria buona per tutte le stagioni (e per tutti i prìncipi).
È l’opposto di una lettura “autoriale”, nella quale Foucault è messo sotto i riflettori in quanto «autore localizzabile in una miniera discorsiva unica», insomma trasformato in un feticcio accademico – al prezzo di disconoscere la rottura che la sua pratica filosofica ha prodotto1.
È l’opposto di quella classica modalità di lettura che trasforma l’interpretazione in una “piccola pedagogia” che «insegna all’allievo che non c’è niente al di fuori del testo»; che è quanto Foucault rinfacciava a Derrida2 ai tempi della polemica sulla Storia della follia.
Infine, il riferimento a una politica della filosofia significa intendere la filosofia come un fatto politico, come uno strumento per quelli che lottano, resistono e non accettano più lo stato di cose presente (p. 174): non solo e non tanto (come è stato scritto) come una “cassetta degli attrezzi”, ma come una sfida e, al tempo stesso, «una critica permanente al nostro essere storico». Uno stile o un’etica che, a dispetto di ogni presunta estetizzazione, consiste nel sentire «l’ethos della modernità» come uno stare sulla soglia, un «essere alla frontiera» (p. 11), su quei confini dai quali siamo continuamente attraversati.
Sentire l’ethos della modernità: caricarsi del compito di analizzare “ce qui se passe“‚ nelle relazioni di potere dalle quali siamo costituiti (p. 76), e alle quali al tempo stesso resistiamo.
L’attenzione al ce qui se passe si lega al “nous n’en sommes plus là” con cui Foucault prendeva le distanze dai situazionisti e dalla scuola di Francoforte (p. 82): la nostra società non è più quella. Ma il nous n’en sommes plus là assume il più ampio senso di uno strumento regolativo della ragione critica: il piede sul limite dell’attualità comporta non solo lo sguardo (mutuato da Nietzsche) “in favore di un tempo futuro”, ma anche una presa di distanze sia temporale che teorica.
In una battuta: acquisita la novità terminologica (nel Foucault degli anni ’77-’84, su cui si concentrano i saggi di Chignola) di concetti come “biopotere” e “biopolitica”, “governamentalità” e “soggettivazione”, “società dei governati” e “parrhesia“, perché assumerli come concetti?
Partiamo da una questione in apparenza laterale: quella della verità. Sin dalla rinuncia di una fondazione strutturale della propria epistemologia (Le parole e le cose) e dalla sua sostituzione con un’Archeologia del sapere, su Foucault si è allungata l’ombra di un relativismo che sarebbe rafforzato dal suo debito – mai nascosto – con Nietzsche: se si è potuta fraintendere per un secolo e mezzo l’affermazione nietzscheana che “non esistono fatti, ma solo opinioni”, a maggior ragione può essere definito Foucault come pensatore disinteressato alla questione della verità. Al contrario: non c’è forse argomento che gli stia più a cuore della verità, delle sue condizioni di possibilità, del suo statuto. Ma la verità non è una “cosa”, non sta, immobile ed immutabile, in un qualche luogo etereo: «La verità, così come lo è il soggetto, è un prodotto. A ogni presa di parola corrisponde, in quella battaglia quotidiana che fa della realtà un conflitto, un posizionamento specifico e un’irriducibile parzialità, non l’irenica neutralità che spetterebbe di diritto a un’impossibile postura di sorvolo» (p. 20). Come ricorda in una delle sue ultime prese di parola, Foucault ha passato una vita filosofica a interrogarsi sul modo in cui il soggetto umano entra nei giochi di verità, e in quali rapporti entra con questi giochi. Non si tratta quindi di trovare la verità nascosta all’interno del mondo, ma – con un duplice, contemporaneo movimento – di svelare le strategie di potere che permettono di affermarla come tale, e di piantare una differente verità nel cuore delle cose stesse. La verità è una pratica, non un disvelamento di un qualcosa che abbiamo dimenticato in un qualche naufragio della ragione o del senso della vita: è essa stessa potere, e ha a che fare con le condizioni di esistenza del potere.
Di quel potere la cui natura è stata offuscata dall’ossessione statocentrica della teoria politica – altri direbbe: «l’orgoglio triviale della ragion di Stato» – che, da Hobbes in poi, ha concepito il potere come discendente da un centro statuale. Da cui l’equivoco del diritto – con la sua retorica liberale dei “diritti individuali” – come limite dello Stato e del potere, e non come uno strumento analitico del potere che «fissa il soggetto a una volontà “libera”, ma solo per piegarne le resistenze, costringerlo al lavoro, vincolarlo alla forma del salario» (p. 64). Per Foucault «lo Stato non ha mai avuto l’unità che gli viene attribuita. Né come “soggetto” della storia costituzionale, né come sintesi sovrana delle sue funzioni. Lo Stato è sempre stato un insieme di procedure e di tecnologie giuridiche ed extragiuridiche che solo l’incantamento filosofico-politico cui la modernità è soggiaciuta ha potuto imporre di pensare in termini unitari e di monopolio sovrano della decisione» (p. 36). Non è lo Stato a creare le condizioni che rendono possibili «i rapporti tra i soggetti in astratti rapporti di diritto»: allo Stato preesiste «un ambiente sfuggente ed opaco» – il circuito della circolazione e valorizzazione – nel quale esso Stato «cala i propri dispositivi di regolazione» senza poterlo controllare né piegare ai propri fini (pp. 160-61). Da qui la necessità dei concetti di biopotere – «l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’umanità, per quanto attiene alle sue funzioni biologiche e vitali, entra, a partire dal XVIII secolo, nel campo di intervento del potere» e di biopolitica – «la comparsa, nell’antropologia politica su cui l’economia si fonda, di un soggetto la cui cooperazione [...] intreccia reti di valorizzazione che si indirizzano allo Stato solo indirettamente, per chiedere a esso di garantire le condizioni di libertà sulle quali rilanciare le dinamiche acquisitive e proprietarie, e che esprimono istanze e bisogni mai formalizzabili, antivedibili o totalizzabili dal punto di vista di quest’ultimo» (p. 37).
Questa lettura svela il Welfare State non come un correttivo al cattivo mercato che un potere “buono” pone in atto, ma come uno degli strumenti attraverso i quali il soggetto viene costituito in quanto libero per il mercato e assoggettato a un potere reticolare. Sia chiaro: non c’è in Foucault – mi si perdoni la banalità – alcuna pulsione al liberismo selvaggio. Si tratta piuttosto di comprendere il Welfare come strumento di controllo di un soggetto che si percepisce entro i limiti prefissati dalla sua costituzione – come incapace di ottenere quelle prestazioni che lo Stato sociale benignamente gli eroga; e soprattutto, tornando al ce qui se passe, di comprendere come l’odierna progressiva delegificazione e privatizzazione dei servizi e delle prestazioni sociali sia non un’anomalia o un pervertimento, ma una variazione delle relazioni resa possibile dalle stesse regole costitutive dei giochi di potere. Più in generale, il processo di decostituzionalizzazione – mantenimento delle costituzioni formali, e loro svuotamento materiale attraverso atti amministrativi improntati a criteri di efficienza, performatività e risparmio – non è un’aberrazione, ma una diversa, più funzionale modalità del rapporto tra Stato e mercato.
Così come – per rispondere in modo serio a un’altra banalità – la società del controllo in cui si sostanzia l’esercizio del biopotere nelle sue forme di governance (la “governamentalità”) non consiste in una proliferazione di microspie e telecamere ad ogni angolo di strada, ma in una scomposizione analitica delle pratiche, dell’agire quotidiano che riduce la complessità della vita in dati discreti, numerabili, quantificabili (il culto della valutazione numerica che prende il posto della materialità dell’esistente, dall’istruzione all’erogazione di prestazioni vitali, fino alla messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente): riduzione attuata non per l’imposizione di un gendarme esterno, ma per l’azione di quel gendarme interno alla stessa costituzione del soggetto come docile e obbediente. Detto di sfuggita, ma non per caso: non dovrebbe stupire l’accorto uso retorico degli indici di valutazione quantitativi in quelle forme di “pastoralato dolce” – democratico o poetico – che tanta disillusione hanno causato in chi, per dirla con De André, è diventato così coglione da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.
Vale la pena di rileggere il confronto con Noam Chomsky del 1974, laddove Foucault non aveva problemi a dichiarare che «se per democrazia si intende l’esercizio effettivo del potere da parte di una popolazione non divisa né ordinata in gerarchie di classe», è evidente che viviamo «sotto il regime di una dittatura di classe, di un potere di classe»; ma proprio perché «questo dominio non è la semplice espressione di uno sfruttamento economico», è necessario saper riconoscere i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe», pena il rischio di «permettere loro di continuare ad esistere e di vedere rinascere questo potere di classe dopo un apparente processo rivoluzionario»3.
Il potere, dunque, non «può essere univocamente imputato a istituzioni o cose». Il potere non è un “oggetto”, ma «un fascio di relazioni più o meno gerarchizzate, più o meno coordinate, costantemente minacciate dalla stessa libertà che esso cerca di domare e dalle forme di resistenza che lo attraversano». Lungi dall’essere un trascendentale, il potere è una «struttura anonima, silenziosa e sfuggente», multiforme ed eterogenea, che pervade la realtà, e che può essere analizzato «là dove esso si rende visibile. E cioè: a partire da ciò che gli resiste. La resistenza al potere (il corpo da disciplinare, l’individuo da educare, il folle da rinchiudere) deve essere assunta come il “catalizzatore chimico” che permette di tracciarne i profili e le traiettorie» (pp. 20-21).
Del potere non è possibile tracciare degli ideal-tipi: esso «non va analizzato rilevandone una supposta razionalità interna (una teleologia, un’intenzione, una linearità). Ciò che lo caratterizza, secondo i suoi differenti campi di applicazione, è piuttosto «la capacità o meno di risolvere confronti strategici», in un continuo «scontro bellicoso delle forze» con «la libertà, la resistenza, le eccedenze che debordano il suo codice», anticipandolo e precedondolo (p. 21).
Le conseguenze di questo denso grumo concettuale sono molte, e rilevanti. E costituiscono, nel loro insieme, un cantiere ancora aperto sia per la prematura scomparsa di Foucault, sia per l’attualità delle pratiche cui rimandano. Foucault non postula una ragione univoca che sarebbe stata pervertita nelle sue finalità (magari dalla tecnica o da un qualche oscuro oblio), ma una ramificazione molteplice e incessante della ragione (p. 144). Una continua scissione, che si manifesta nella contrapposizione fra la ratio della governance, dell’esercizio del biopotere, e la ratio, irriducibile e contrapposta, del soggetto che resiste – la ragione dei governati. Questa biforcazione costitutiva in forme antagonistiche assume la forma di una produzione e circolazione di forme della differenza, di una scissione sempre in atto e mai componibile secondo le forme della dialettica.
A queste altezze è possibile impostare un confronto tra Foucault e Marx libero dalle pastoie di letture che ne segnalavano una supposta incompatibilità. A dire il vero, non mancano i luoghi in cui Foucault puntualizzava il proprio rapporto com Marx – ad esempio in un’intervista del 1975: «Io cito Marx senza dirlo, senza metterlo tra virgolette, e siccome loro non sono capaci di riconoscere i testi di Marx, io passo per quello che non lo cita. Forse che un fisico, quando fa della fisica, prova il bisogno di citare Newton ed Einstein?»4. Ed è vero che comincia ad esserci un’adeguata bibliografia sul rapporto Marx-Foucault5: ma la questione non è riconducibile alla mera teoria. Quale Marx è rintracciabile all’interno dell’analitica del potere di Foucault? Chignola richiama, con buone ragioni, il rapporto tra il «conflitto come tensore dell’analitica del potere» e l’azione delle tecnologie disciplinari che «prima ancora di una semplice funzione di garanzia in rapporto alla riproduzione del rapporto capitalistico di valorizzazione […] vengono a svolgere in rapporto all’organizzazione delle disposizioni a produrre alle quali deve essere assoggettato il corpo operaio» (p. 66). Siamo cioè all’intersezione fra i Grundrisse e il primo libro del Capitale, tra la descrizione della circolazione come distribuzione analitica delle relazioni di dominio e «il processo complessivo di fabbricazione della forza-lavoro come disposizione soggettiva oggettivamente uniformata alle condizioni di produzione» (p. 67): su quel terreno che ha il suo imprescindibile riferimento nel Marx oltre Marx di Negri. Vale ricordare che il negriano quaderno di lavoro sui Grundrisse è coevo alla schedatura degli scritti di Foucault dal quale scaturì quel Sul metodo della critica della politica6, che resta uno dei più acuti studi sul “primo” Foucault.
Infine, l’individuazione di una “società dei governati” come luogo di resistenza alle relazioni di potere, come espressione di un punto di vista irriducibile alle figure della sovranità permette di tracciare la line anche al tempo stesso collega e distanzia il “punto di vista operaio” dell’operaismo dalla “parrhesia dei governati” in quello che è stato chiamato “post-operaismo”. È indubbio che un punto fermo, in una narrazione che è tutto fuorché retorica, sia stato posto in quella famosa pagina del 1964 nella quale si affermava che «a livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione»7. Ma è altrettanto vero, per ricordare una vecchia storia, che «Pat Garrett e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garrett era un legalitario: non gli piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando lui aveva deciso per la tregua con l’esercito, la polizia, i proprietari. Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato dei proprietari»8. Ed è vero che oggi Pat Garrett siede al Senato e vota la spending rewiev: e quanto l’incapacità di liberarsi dall’ossessione statocentrica (sublimando lo Stato in partito) abbia contribuito ai suoi destini, non è difficile da cogliere. Nous n’en sommes plus là: comprendere il senso della distanza che intercorre tra quel 1964 e il ce qui se passe – a maggior ragione, quella che intercorre tra l’oggi e il 1905 – significa, come minimo, evitare di continuare a cercare la corazzata Potemkin dentro un qualsiasi meet-up grillino, e di scambiare un Walking Dead per il risorto pope Gapon.
Ma se la soggettività è terreno di perenne conflitto, non c’è il rischio di cadere nell’accettazione acritica o strumentale di qualsivoglia forma di attitudine polemica in nome di un’ingenua esaltazione dello spurio e del contraddittorio? Parimenti: non c’è il rischio di legittimare come parrhesia qualunque enunciazione o presa di parola? Dopo tutto, s’è pur sentita in tempi recenti la parola parrhesia sgocciolare in modo impudente dalle bocche di laudatori di Monti o Renzi.
Per rispondere, bisogna focalizzare cosa Foucault ha cercato negli anni in cui ha dedicato la parte prevalente della propria attività al mondo greco.
Nei greci, Foucault ha cercato forme di relazioni, di soggettivazione – di costruzione di soggettività e di pratiche del sé su di sé – anteriori alla nascita di quel potere pastorale che, sorto dal tardo cristianesimo, costituisce la matrice delle relazioni di
potere nell’Occidente.
«La storia dei greci, scrive Chignola citando Nietzsche, è uno specchio che riflette sempre qualcosa che non sta nello specchio stesso». Come la famosa scena dello specchio in Profondo rosso, «ciò che essa ci restituisce, non è soltanto una parola che ci parla allo stesso tempo “dell’oggi e del ieri” [...] ma anche qualcosa di più, di quanto sia in essa contenuto» (111-112): il “gioco serio” del dire platonico (ciò che Derrida fraintendeva come logocentrismo) non come dire all’ascoltatore – foss’anche il politico – cosa fare o come comportarsi, ma «di esistere come discorso filosofico e come veridizione filosofica» (p. 188); l’intuizione stoica di una dimensione del comune – l’uomo come koinōnikon zôon – anteriore all’individuazione; la sfida e il coraggio del dire il vero senza nulla omettere, assumendosene il rischio a fronte del potere, da parte dei cinici.
La parrhesia dei governati non è un mero atto locutorio o performativo interno alle forme della democrazia, nelle quali si dà un’indifferenziata presa di parola attraverso la quale chiunque pretende di parlare «non in quanto governato (e cioè: in quanto attestato su di una posizione che non è quella di chi governa; una posizione specifica, localizzata all’interno di circuiti parziali di potere, intimamente legata a bisogni o desideri che spingono la soggettivazione), ma in quanto “governante” […], avendo una pretesa di intervento e di competenza universale, che coincide con lo sguardo del sovrano e si identifica con la sua competenza di parola, e che lavora perciò al ricompattamento delle doxai sulle quali scivolano il senso comune, la chiacchiera, il discorso del potere, funzioni discorsive che non richiedono alcuna forma di coraggio, ma un istinto mimetico ripetitivo e gregario, e cioè perfettamente funzionale al pastorato» (p. 184): difficile non pensare alle attuali forme di perversione del “popolo sovrano” – che, come sottolineava Tocqueville, esce dalla servitù nel giorno delle elezioni per rientrarvi subito dopo aver indicato il proprio padrone – nelle retoriche della rivolta fiscale, del giustizialismo, della democrazia digitale, non a caso intrecciate con retoriche emergenziali e razzistiche, nelle quali si equivocano grilli per lucciole e lucciole per forconi?
In questa cattiva parrhesia agisce l’illusione che la figura del governato possa sostituire quella del governante: che i due fuochi dell’ellisse – figura che descrive il perimetro delle relazioni di potere e resistenza – possano coincidere. Al contrario, nella parrhesia dei governati «ciascuno dei due fuochi si mantiene di fronte all’altro, e all’interno della quale si spazializza una tensione» (p. 100). Il governato non pretende che il governante dica la verità – ciò è di fatto impossibile: «Ciò che è possibile fare è piuttosto chiedergli di rendere conto delle finalità che persegue e di come esso lo faccia. Si tratta di interpellarlo, costringerlo al confronto; si tratta di imporre a chi governa le priorità e le agende politiche del governato, esprimendo in questi termini il potere, destituente e costituente insieme, della libertà» (p. 106). Sfuggendo al ricatto retorico che vorrebbe il governante costretto a dire ciò che si debba fare: compito del governato non è governare, ma delimitare, trattenere, controbattere il potere9.
Alle pratiche di assoggettamento, i governanti oppongono pratiche di disindividualizzazione, di costruzione libera e autonoma del sé, di soggettivazione: si pensi, per tornare ancora a un tema attuale, alla questione omosessuale, rispetto alla quale Foucault opponeva alla richiesta di “diritti politici” per i gay la lotta per la costruzione di figure di soggettività nelle quali la sessualità non fosse elemento di individuazione e distinzione. «Non chiedete alla politica, scriveva Foucault presentando L’anti-Edipo, di ristabilire i “diritti” dell’individuo come sono stati definiti dalla filosofia. L’individuo è il prodotto del potere. Ciò ch’è necessario fare, è “disindividualizzare” attraverso la moltiplicazione e il dispiegamento dei diversi concatenamenti. Il gruppo non deve essere il legame organico che unisce individui gerarchizzati, ma un costante generatore di “disindividualizzazione”»10
La parrhesia non è certo una prerogativa dei soli filosofi: nondimeno, è una pratica che, mettendo in gioco la vita stessa, mette in questione lo stesso statuto del “filosofo”. «Il gioco “serio” della filosofia non consiste nel dire o nel mostrare agli uomini come dovrebbero condurre le proprie relazioni secondo uno schema di socializzazione ideale, ma nel rammentare loro incessantemente [...] che ciò che nella filosofia è “reale” è la pratica: “ces pratiques que l’on exerce sur soi” e sugli altri, quando si abbia il coraggio di affrontare la prova dell’ascolto». «Ciò che toglie la filosofia dalla sua inoperosità – vuota chiacchiera, dotta speculazione, prestazione accademica salariata», è il fatto che essa «si rivolge, può rivolgersi, ha il coraggio di rivolgersi a chi esercita il potere», e attraverso questo atto «la veridizione filosofica mostra la propria realtà» (98). Parafrasando Sally Field (che a sua volta parafrasava un filosofo serbo): filosofo è, chi il filosofo fa.
Sandro Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, Derive Approdi, Roma 2014, pp. 208, € 17.00.
“Ne tombez pas amoureux du pouvoir” (Michel Foucault, 1977)
Sottotitolare “una politica della filosofia” una raccolta di studi che tira le fila di un lavoro più che decennale significa prendere precisi impegni con il lettore: tra i quali, una voluta delimitazione della quantità dei destinatari, in favore di una precisa selezione qualitativa. Una “politica della filosofia” è, in primo luogo, l’opposto di una moda filosofica, qual è la cosiddetta “Italian Theory”, quell’insipida minestra precotta e scaldata da chi dissolve la critica foucaultiana in una teoria buona per tutte le stagioni (e per tutti i prìncipi).
È l’opposto di una lettura “autoriale”, nella quale Foucault è messo sotto i riflettori in quanto «autore localizzabile in una miniera discorsiva unica», insomma trasformato in un feticcio accademico – al prezzo di disconoscere la rottura che la sua pratica filosofica ha prodotto1.
È l’opposto di quella classica modalità di lettura che trasforma l’interpretazione in una “piccola pedagogia” che «insegna all’allievo che non c’è niente al di fuori del testo»; che è quanto Foucault rinfacciava a Derrida2 ai tempi della polemica sulla Storia della follia.
Infine, il riferimento a una politica della filosofia significa intendere la filosofia come un fatto politico, come uno strumento per quelli che lottano, resistono e non accettano più lo stato di cose presente (p. 174): non solo e non tanto (come è stato scritto) come una “cassetta degli attrezzi”, ma come una sfida e, al tempo stesso, «una critica permanente al nostro essere storico». Uno stile o un’etica che, a dispetto di ogni presunta estetizzazione, consiste nel sentire «l’ethos della modernità» come uno stare sulla soglia, un «essere alla frontiera» (p. 11), su quei confini dai quali siamo continuamente attraversati.
Sentire l’ethos della modernità: caricarsi del compito di analizzare “ce qui se passe“‚ nelle relazioni di potere dalle quali siamo costituiti (p. 76), e alle quali al tempo stesso resistiamo.
L’attenzione al ce qui se passe si lega al “nous n’en sommes plus là” con cui Foucault prendeva le distanze dai situazionisti e dalla scuola di Francoforte (p. 82): la nostra società non è più quella. Ma il nous n’en sommes plus là assume il più ampio senso di uno strumento regolativo della ragione critica: il piede sul limite dell’attualità comporta non solo lo sguardo (mutuato da Nietzsche) “in favore di un tempo futuro”, ma anche una presa di distanze sia temporale che teorica.
In una battuta: acquisita la novità terminologica (nel Foucault degli anni ’77-’84, su cui si concentrano i saggi di Chignola) di concetti come “biopotere” e “biopolitica”, “governamentalità” e “soggettivazione”, “società dei governati” e “parrhesia“, perché assumerli come concetti?
Partiamo da una questione in apparenza laterale: quella della verità. Sin dalla rinuncia di una fondazione strutturale della propria epistemologia (Le parole e le cose) e dalla sua sostituzione con un’Archeologia del sapere, su Foucault si è allungata l’ombra di un relativismo che sarebbe rafforzato dal suo debito – mai nascosto – con Nietzsche: se si è potuta fraintendere per un secolo e mezzo l’affermazione nietzscheana che “non esistono fatti, ma solo opinioni”, a maggior ragione può essere definito Foucault come pensatore disinteressato alla questione della verità. Al contrario: non c’è forse argomento che gli stia più a cuore della verità, delle sue condizioni di possibilità, del suo statuto. Ma la verità non è una “cosa”, non sta, immobile ed immutabile, in un qualche luogo etereo: «La verità, così come lo è il soggetto, è un prodotto. A ogni presa di parola corrisponde, in quella battaglia quotidiana che fa della realtà un conflitto, un posizionamento specifico e un’irriducibile parzialità, non l’irenica neutralità che spetterebbe di diritto a un’impossibile postura di sorvolo» (p. 20). Come ricorda in una delle sue ultime prese di parola, Foucault ha passato una vita filosofica a interrogarsi sul modo in cui il soggetto umano entra nei giochi di verità, e in quali rapporti entra con questi giochi. Non si tratta quindi di trovare la verità nascosta all’interno del mondo, ma – con un duplice, contemporaneo movimento – di svelare le strategie di potere che permettono di affermarla come tale, e di piantare una differente verità nel cuore delle cose stesse. La verità è una pratica, non un disvelamento di un qualcosa che abbiamo dimenticato in un qualche naufragio della ragione o del senso della vita: è essa stessa potere, e ha a che fare con le condizioni di esistenza del potere.
Di quel potere la cui natura è stata offuscata dall’ossessione statocentrica della teoria politica – altri direbbe: «l’orgoglio triviale della ragion di Stato» – che, da Hobbes in poi, ha concepito il potere come discendente da un centro statuale. Da cui l’equivoco del diritto – con la sua retorica liberale dei “diritti individuali” – come limite dello Stato e del potere, e non come uno strumento analitico del potere che «fissa il soggetto a una volontà “libera”, ma solo per piegarne le resistenze, costringerlo al lavoro, vincolarlo alla forma del salario» (p. 64). Per Foucault «lo Stato non ha mai avuto l’unità che gli viene attribuita. Né come “soggetto” della storia costituzionale, né come sintesi sovrana delle sue funzioni. Lo Stato è sempre stato un insieme di procedure e di tecnologie giuridiche ed extragiuridiche che solo l’incantamento filosofico-politico cui la modernità è soggiaciuta ha potuto imporre di pensare in termini unitari e di monopolio sovrano della decisione» (p. 36). Non è lo Stato a creare le condizioni che rendono possibili «i rapporti tra i soggetti in astratti rapporti di diritto»: allo Stato preesiste «un ambiente sfuggente ed opaco» – il circuito della circolazione e valorizzazione – nel quale esso Stato «cala i propri dispositivi di regolazione» senza poterlo controllare né piegare ai propri fini (pp. 160-61). Da qui la necessità dei concetti di biopotere – «l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’umanità, per quanto attiene alle sue funzioni biologiche e vitali, entra, a partire dal XVIII secolo, nel campo di intervento del potere» e di biopolitica – «la comparsa, nell’antropologia politica su cui l’economia si fonda, di un soggetto la cui cooperazione [...] intreccia reti di valorizzazione che si indirizzano allo Stato solo indirettamente, per chiedere a esso di garantire le condizioni di libertà sulle quali rilanciare le dinamiche acquisitive e proprietarie, e che esprimono istanze e bisogni mai formalizzabili, antivedibili o totalizzabili dal punto di vista di quest’ultimo» (p. 37).
Questa lettura svela il Welfare State non come un correttivo al cattivo mercato che un potere “buono” pone in atto, ma come uno degli strumenti attraverso i quali il soggetto viene costituito in quanto libero per il mercato e assoggettato a un potere reticolare. Sia chiaro: non c’è in Foucault – mi si perdoni la banalità – alcuna pulsione al liberismo selvaggio. Si tratta piuttosto di comprendere il Welfare come strumento di controllo di un soggetto che si percepisce entro i limiti prefissati dalla sua costituzione – come incapace di ottenere quelle prestazioni che lo Stato sociale benignamente gli eroga; e soprattutto, tornando al ce qui se passe, di comprendere come l’odierna progressiva delegificazione e privatizzazione dei servizi e delle prestazioni sociali sia non un’anomalia o un pervertimento, ma una variazione delle relazioni resa possibile dalle stesse regole costitutive dei giochi di potere. Più in generale, il processo di decostituzionalizzazione – mantenimento delle costituzioni formali, e loro svuotamento materiale attraverso atti amministrativi improntati a criteri di efficienza, performatività e risparmio – non è un’aberrazione, ma una diversa, più funzionale modalità del rapporto tra Stato e mercato.
Così come – per rispondere in modo serio a un’altra banalità – la società del controllo in cui si sostanzia l’esercizio del biopotere nelle sue forme di governance (la “governamentalità”) non consiste in una proliferazione di microspie e telecamere ad ogni angolo di strada, ma in una scomposizione analitica delle pratiche, dell’agire quotidiano che riduce la complessità della vita in dati discreti, numerabili, quantificabili (il culto della valutazione numerica che prende il posto della materialità dell’esistente, dall’istruzione all’erogazione di prestazioni vitali, fino alla messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente): riduzione attuata non per l’imposizione di un gendarme esterno, ma per l’azione di quel gendarme interno alla stessa costituzione del soggetto come docile e obbediente. Detto di sfuggita, ma non per caso: non dovrebbe stupire l’accorto uso retorico degli indici di valutazione quantitativi in quelle forme di “pastoralato dolce” – democratico o poetico – che tanta disillusione hanno causato in chi, per dirla con De André, è diventato così coglione da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.
Vale la pena di rileggere il confronto con Noam Chomsky del 1974, laddove Foucault non aveva problemi a dichiarare che «se per democrazia si intende l’esercizio effettivo del potere da parte di una popolazione non divisa né ordinata in gerarchie di classe», è evidente che viviamo «sotto il regime di una dittatura di classe, di un potere di classe»; ma proprio perché «questo dominio non è la semplice espressione di uno sfruttamento economico», è necessario saper riconoscere i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe», pena il rischio di «permettere loro di continuare ad esistere e di vedere rinascere questo potere di classe dopo un apparente processo rivoluzionario»3.
Il potere, dunque, non «può essere univocamente imputato a istituzioni o cose». Il potere non è un “oggetto”, ma «un fascio di relazioni più o meno gerarchizzate, più o meno coordinate, costantemente minacciate dalla stessa libertà che esso cerca di domare e dalle forme di resistenza che lo attraversano». Lungi dall’essere un trascendentale, il potere è una «struttura anonima, silenziosa e sfuggente», multiforme ed eterogenea, che pervade la realtà, e che può essere analizzato «là dove esso si rende visibile. E cioè: a partire da ciò che gli resiste. La resistenza al potere (il corpo da disciplinare, l’individuo da educare, il folle da rinchiudere) deve essere assunta come il “catalizzatore chimico” che permette di tracciarne i profili e le traiettorie» (pp. 20-21).
Del potere non è possibile tracciare degli ideal-tipi: esso «non va analizzato rilevandone una supposta razionalità interna (una teleologia, un’intenzione, una linearità). Ciò che lo caratterizza, secondo i suoi differenti campi di applicazione, è piuttosto «la capacità o meno di risolvere confronti strategici», in un continuo «scontro bellicoso delle forze» con «la libertà, la resistenza, le eccedenze che debordano il suo codice», anticipandolo e precedondolo (p. 21).
Le conseguenze di questo denso grumo concettuale sono molte, e rilevanti. E costituiscono, nel loro insieme, un cantiere ancora aperto sia per la prematura scomparsa di Foucault, sia per l’attualità delle pratiche cui rimandano. Foucault non postula una ragione univoca che sarebbe stata pervertita nelle sue finalità (magari dalla tecnica o da un qualche oscuro oblio), ma una ramificazione molteplice e incessante della ragione (p. 144). Una continua scissione, che si manifesta nella contrapposizione fra la ratio della governance, dell’esercizio del biopotere, e la ratio, irriducibile e contrapposta, del soggetto che resiste – la ragione dei governati. Questa biforcazione costitutiva in forme antagonistiche assume la forma di una produzione e circolazione di forme della differenza, di una scissione sempre in atto e mai componibile secondo le forme della dialettica.
A queste altezze è possibile impostare un confronto tra Foucault e Marx libero dalle pastoie di letture che ne segnalavano una supposta incompatibilità. A dire il vero, non mancano i luoghi in cui Foucault puntualizzava il proprio rapporto com Marx – ad esempio in un’intervista del 1975: «Io cito Marx senza dirlo, senza metterlo tra virgolette, e siccome loro non sono capaci di riconoscere i testi di Marx, io passo per quello che non lo cita. Forse che un fisico, quando fa della fisica, prova il bisogno di citare Newton ed Einstein?»4. Ed è vero che comincia ad esserci un’adeguata bibliografia sul rapporto Marx-Foucault5: ma la questione non è riconducibile alla mera teoria. Quale Marx è rintracciabile all’interno dell’analitica del potere di Foucault? Chignola richiama, con buone ragioni, il rapporto tra il «conflitto come tensore dell’analitica del potere» e l’azione delle tecnologie disciplinari che «prima ancora di una semplice funzione di garanzia in rapporto alla riproduzione del rapporto capitalistico di valorizzazione […] vengono a svolgere in rapporto all’organizzazione delle disposizioni a produrre alle quali deve essere assoggettato il corpo operaio» (p. 66). Siamo cioè all’intersezione fra i Grundrisse e il primo libro del Capitale, tra la descrizione della circolazione come distribuzione analitica delle relazioni di dominio e «il processo complessivo di fabbricazione della forza-lavoro come disposizione soggettiva oggettivamente uniformata alle condizioni di produzione» (p. 67): su quel terreno che ha il suo imprescindibile riferimento nel Marx oltre Marx di Negri. Vale ricordare che il negriano quaderno di lavoro sui Grundrisse è coevo alla schedatura degli scritti di Foucault dal quale scaturì quel Sul metodo della critica della politica6, che resta uno dei più acuti studi sul “primo” Foucault.
Infine, l’individuazione di una “società dei governati” come luogo di resistenza alle relazioni di potere, come espressione di un punto di vista irriducibile alle figure della sovranità permette di tracciare la line anche al tempo stesso collega e distanzia il “punto di vista operaio” dell’operaismo dalla “parrhesia dei governati” in quello che è stato chiamato “post-operaismo”. È indubbio che un punto fermo, in una narrazione che è tutto fuorché retorica, sia stato posto in quella famosa pagina del 1964 nella quale si affermava che «a livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione»7. Ma è altrettanto vero, per ricordare una vecchia storia, che «Pat Garrett e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garrett era un legalitario: non gli piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando lui aveva deciso per la tregua con l’esercito, la polizia, i proprietari. Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato dei proprietari»8. Ed è vero che oggi Pat Garrett siede al Senato e vota la spending rewiev: e quanto l’incapacità di liberarsi dall’ossessione statocentrica (sublimando lo Stato in partito) abbia contribuito ai suoi destini, non è difficile da cogliere. Nous n’en sommes plus là: comprendere il senso della distanza che intercorre tra quel 1964 e il ce qui se passe – a maggior ragione, quella che intercorre tra l’oggi e il 1905 – significa, come minimo, evitare di continuare a cercare la corazzata Potemkin dentro un qualsiasi meet-up grillino, e di scambiare un Walking Dead per il risorto pope Gapon.
Ma se la soggettività è terreno di perenne conflitto, non c’è il rischio di cadere nell’accettazione acritica o strumentale di qualsivoglia forma di attitudine polemica in nome di un’ingenua esaltazione dello spurio e del contraddittorio? Parimenti: non c’è il rischio di legittimare come parrhesia qualunque enunciazione o presa di parola? Dopo tutto, s’è pur sentita in tempi recenti la parola parrhesia sgocciolare in modo impudente dalle bocche di laudatori di Monti o Renzi.
Per rispondere, bisogna focalizzare cosa Foucault ha cercato negli anni in cui ha dedicato la parte prevalente della propria attività al mondo greco.
Nei greci, Foucault ha cercato forme di relazioni, di soggettivazione – di costruzione di soggettività e di pratiche del sé su di sé – anteriori alla nascita di quel potere pastorale che, sorto dal tardo cristianesimo, costituisce la matrice delle relazioni di
potere nell’Occidente.
«La storia dei greci, scrive Chignola citando Nietzsche, è uno specchio che riflette sempre qualcosa che non sta nello specchio stesso». Come la famosa scena dello specchio in Profondo rosso, «ciò che essa ci restituisce, non è soltanto una parola che ci parla allo stesso tempo “dell’oggi e del ieri” [...] ma anche qualcosa di più, di quanto sia in essa contenuto» (111-112): il “gioco serio” del dire platonico (ciò che Derrida fraintendeva come logocentrismo) non come dire all’ascoltatore – foss’anche il politico – cosa fare o come comportarsi, ma «di esistere come discorso filosofico e come veridizione filosofica» (p. 188); l’intuizione stoica di una dimensione del comune – l’uomo come koinōnikon zôon – anteriore all’individuazione; la sfida e il coraggio del dire il vero senza nulla omettere, assumendosene il rischio a fronte del potere, da parte dei cinici.
La parrhesia dei governati non è un mero atto locutorio o performativo interno alle forme della democrazia, nelle quali si dà un’indifferenziata presa di parola attraverso la quale chiunque pretende di parlare «non in quanto governato (e cioè: in quanto attestato su di una posizione che non è quella di chi governa; una posizione specifica, localizzata all’interno di circuiti parziali di potere, intimamente legata a bisogni o desideri che spingono la soggettivazione), ma in quanto “governante” […], avendo una pretesa di intervento e di competenza universale, che coincide con lo sguardo del sovrano e si identifica con la sua competenza di parola, e che lavora perciò al ricompattamento delle doxai sulle quali scivolano il senso comune, la chiacchiera, il discorso del potere, funzioni discorsive che non richiedono alcuna forma di coraggio, ma un istinto mimetico ripetitivo e gregario, e cioè perfettamente funzionale al pastorato» (p. 184): difficile non pensare alle attuali forme di perversione del “popolo sovrano” – che, come sottolineava Tocqueville, esce dalla servitù nel giorno delle elezioni per rientrarvi subito dopo aver indicato il proprio padrone – nelle retoriche della rivolta fiscale, del giustizialismo, della democrazia digitale, non a caso intrecciate con retoriche emergenziali e razzistiche, nelle quali si equivocano grilli per lucciole e lucciole per forconi?
In questa cattiva parrhesia agisce l’illusione che la figura del governato possa sostituire quella del governante: che i due fuochi dell’ellisse – figura che descrive il perimetro delle relazioni di potere e resistenza – possano coincidere. Al contrario, nella parrhesia dei governati «ciascuno dei due fuochi si mantiene di fronte all’altro, e all’interno della quale si spazializza una tensione» (p. 100). Il governato non pretende che il governante dica la verità – ciò è di fatto impossibile: «Ciò che è possibile fare è piuttosto chiedergli di rendere conto delle finalità che persegue e di come esso lo faccia. Si tratta di interpellarlo, costringerlo al confronto; si tratta di imporre a chi governa le priorità e le agende politiche del governato, esprimendo in questi termini il potere, destituente e costituente insieme, della libertà» (p. 106). Sfuggendo al ricatto retorico che vorrebbe il governante costretto a dire ciò che si debba fare: compito del governato non è governare, ma delimitare, trattenere, controbattere il potere9.
Alle pratiche di assoggettamento, i governanti oppongono pratiche di disindividualizzazione, di costruzione libera e autonoma del sé, di soggettivazione: si pensi, per tornare ancora a un tema attuale, alla questione omosessuale, rispetto alla quale Foucault opponeva alla richiesta di “diritti politici” per i gay la lotta per la costruzione di figure di soggettività nelle quali la sessualità non fosse elemento di individuazione e distinzione. «Non chiedete alla politica, scriveva Foucault presentando L’anti-Edipo, di ristabilire i “diritti” dell’individuo come sono stati definiti dalla filosofia. L’individuo è il prodotto del potere. Ciò ch’è necessario fare, è “disindividualizzare” attraverso la moltiplicazione e il dispiegamento dei diversi concatenamenti. Il gruppo non deve essere il legame organico che unisce individui gerarchizzati, ma un costante generatore di “disindividualizzazione”»10
La parrhesia non è certo una prerogativa dei soli filosofi: nondimeno, è una pratica che, mettendo in gioco la vita stessa, mette in questione lo stesso statuto del “filosofo”. «Il gioco “serio” della filosofia non consiste nel dire o nel mostrare agli uomini come dovrebbero condurre le proprie relazioni secondo uno schema di socializzazione ideale, ma nel rammentare loro incessantemente [...] che ciò che nella filosofia è “reale” è la pratica: “ces pratiques que l’on exerce sur soi” e sugli altri, quando si abbia il coraggio di affrontare la prova dell’ascolto». «Ciò che toglie la filosofia dalla sua inoperosità – vuota chiacchiera, dotta speculazione, prestazione accademica salariata», è il fatto che essa «si rivolge, può rivolgersi, ha il coraggio di rivolgersi a chi esercita il potere», e attraverso questo atto «la veridizione filosofica mostra la propria realtà» (98). Parafrasando Sally Field (che a sua volta parafrasava un filosofo serbo): filosofo è, chi il filosofo fa.
- Sto riferendo a Foucault le parole con le quali parlava dell’uso di Marx-autore in Questions à Michel Foucault sur la géographie (1976), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001 [d'ora in poi DE], vol. II, n. 169, p. 39. ↩
- Al netto delle sue omissioni, elisioni e cancellazioni – fatto salvo lo sfondone di attribuire a Descartes le interpolazioni del suo traduttore. ↩
- Human Nature: Justice versus Power, in DE, vol I, n. 132, pp. 1363-64, trad. it. Michel Foucault, Noam Chomsky, Invariante biologico e potere politico, Derive Approdi, Roma 2005; il dibattito è visibile su YouTube qui (il passo citato ai minuti 39-41), con l’avvvertenza che il testo a stampa è stato rivisto dagli autori rispetto al dibattito. ↩
- Entretien sur la prison: le livre et sa méthode, DE, vol. I, n. 156, p. 1620 ↩
- Stéphane Legrand, Le marxisme oublié de Foucault, “Actuel Marx” n. 36, 2004/2, pp. 27-43; Pierre Macherey, Il soggetto produttivi. Da Foucault a Marx, ombre corte, Verona 2013; Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014. ↩
- Antonio Negri, Sul metodo della critica della politica (1977), “aut aut” n. 167-168, 1978, pp. 197-212, poi in Macchina tempo. Rompicapi Liberazione Costituzione, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 70-84. ↩
- Mario Tronti, Lenin in Inghilterra, in “Classe operaia”, 1, 1964, poi in Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, ried. Derive Approdi, Roma 2006, p. 87. ↩
- Pat Garrett e Billy Kid ovvero i consigli del sindacato e l’autonomia operaia, “Rosso” n. 10, maggio 1974. ↩
- Sul “ricatto della proposta” – «Ok, questa è la tua protesta, ma dov’è la proposta? Sai solo essere negativo o hai qualche idea costruttiva? Sai, non basta criticare il mondo, bisogna progettarne uno diverso, metterci la faccia…» correlata alla retorica del buonismo e della corresponsabilità, si veda Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere, Milano 2014 (la citazione è a p. 117). ↩
- Prefazione all’edizione americana di Deleuze-Guattari, L’anti-Edipo, in DE, vol. II, n. 189, pp. 135-136. ↩
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Testo pubblicato il · in Recensioni · sul sito http://www.carmillaonline.com
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