Milano: Palazzo Reale
ospita “Van Gogh. L'uomo e la terra”. 50 opere che testimoniano
del rapporto intensissimo fra l'artista e la natura.
Fabrizio D’Amico
Van Gogh. Il genio
inquieto che ricreò l’uomo e la terra con i suoi colori
Da molto prima d’aver deciso che sarebbe stato un pittore, da quell’inverno del 1876 in cui – lasciato per sempre l’impiego sicuro presso la casa d’arte Goupil, che gli aveva consentito di dar ordine per un attimo a una vita battuta sempre dall’ansia, e di conoscere L’Aia, poi Parigi e Londra, con i loro musei — predica per la prima volta in un’aula metodista di un sobborgo operaio di Londra, Vincent Van Gogh ha parlato con un cuore troppo gonfio d’amore perché chi lo ascoltava potesse davvero capirlo. Era stato poi sempre così: con il padre, con le donne, con i preti, con i poveri cui voleva destinare la propria esistenza. Solo a Theo, uno dei fratelli più giovani, riusciva a dire una parte di sé; e poi, gli sembrava, a Hugo, a Dickens e a Zola, a Delacroix e a Millet, a Shakespeare, alla Bibbia...
Tanto che quando tutti, finalmente, lo riconobbero per pazzo, fu quasi una liberazione: «Sono deciso ad accettare tranquillamente il mio mestiere di pazzo», scrive a Theo. È una resa. Come lo è ancora, poco dopo, quella testimoniata nelle lettere. Una parte di queste è oggi esposta al Palazzo Reale di Milano nella mostra Van Gogh. L’uomo e la terra ( Expo Milano 2015 è partner dell’esposizione; la curatela è di Kathleen Adler) accanto ai dipinti e ai disegni selezionati nelle collezioni del Kröller-Müller di Otterlo. In una lettera, l’artista quasi implora che gli sia consentito il ricovero all’ospedale di Saint-Rémy : «Non posso ricominciare la stessa vita da pittore che avevo condotto finora (...) subissato dalle critiche dei vicini; né mi sarebbe possibile vivere con un’altra persona, fosse pure un altro artista: è difficile, difficilissimo... Non voglio nemmeno pensarci».
Da Arles in poi, è il Sud, e con esso la rivelazione della luce mediterranea, a sedurlo. È ora il giallo il suo colore, vivido come una fiamma: il giallo che brucia la sua camera di Arles, e che incendia i suoi ultimi incubi a Saint-Rémy. Ma a lui, che è nato nel Brabante olandese, fra i colori scuri di quella terra e il grigio dei suoi cieli bassi e uniti, rimane nel cuore il colore annottato di quella sua prima malinconia: ed è su questo colore e su questa sua immagine che soprattutto insiste la mostra di oggi, indagando il tema della fatica dei contadini, degli zappatori, dei seminatori che furono i suoi primi modelli.
Van Gogh ricorderà sempre, con dolore, i giorni che aveva trascorso con Paul Gauguin ad Arles, e l’automutilazione che s’era inferto per scontare l’offesa fatta, in un accesso d’ira, all’amico, che aveva voluto al suo fianco nella speranza di costruire assieme a lui una solidarietà profonda di pensieri, affetti, lavoro; ma col quale infine l’incipiente malattia mentale non gli aveva consentito di trascorrere serenamente che poche settimane. Gauguin è adesso la sua intera passione, e assieme il suo tormento. È in lui che riconosce, prima di tutto, una “modernità” possibile; un vincolo con quella vicenda della pittura dei suoi giorni con la quale è entrato in contatto forse per la prima volta a Parigi, quando vi giunge nel marzo dell’86.
Lì l’entusiasmo per le nuove scoperte (prima fra tutte, Delacroix) viene un attimo prima della delusione di trovare il gruppo degli impressionisti in preda a gelosie e incomprensioni reciproche. Ammira adesso Monet e Pissarro, che tenta la nuova avventura pointilliste ; Seurat, il dominatore dell’ultima rassegna impressionista del 1886; e le stampe giapponesi di Hokusai e Hiroshige. Ma subito dopo è la cerchia di Charles Laval, Émile Bernard e soprattutto di Gauguin a costituire la sponda cui spera di appoggiare il suo bisogno di solidarietà (a Milano, oggi, si vedano Donne bretoni e il celebre Ritratto di Ginoux).
Divengono allora,
anch’essi, più che “maestri”, “padri”: a sanare la sua
solitudine, il suo bisogno d’essere con altri. E sogna che quei
suoi padri siano, comunque, immensi: anche a costo di farli diversi
da quelli che essi sono stati in realtà.
Così avvenne a Millet;
che, anche lui, fu travisato: visto attraverso la lente deformante e
banalmente agiografica della biografia di Alfred Sensier, che aveva
reso quel grandissimo pittore della terra, e della luce disseminata
come polvere lieve sulle figure del mondo, un cantore di buoni
sentimenti, e di mani giunte in preghiera. Fino alla fine,
nell’ospedale di Saint Rémy, Van Gogh guardò a lui: inseguendolo,
copiandone i capolavori, e le incisioni; e dimostrando anche alla
fine dei suoi giorni brevi di aver invano voluto e cercato un
compagno per la sua pittura.
Allo stesso modo, un
“padre” era stato Gauguin. Non si nasconde che la sintesi estrema
cui Gauguin sottopone il vero di natura finisce per scostare troppo
la sua pittura da quella sponda di realtà di cui egli ha invece
ancora, e sempre più, bisogno. Ma non è questo che conta: perché
Van Gogh cerca in Gauguin un’anima. Che capisce infine di non
riuscire a far sua. Questo è stato Van Gogh, negli anni della sua
maturità, dal 1885, la data del suo primo capolavoro, I mangiatori
di patate, al 1890, quando mise fine alla vita, nel manicomio di
Saint-Rémy: una parola detta all’altro, cercando un ascolto; e una
sorta di gancio, un rampino gettato sulla realtà, per tirarla a sé.
Altrimenti, se
guardassimo alla sua vicenda come ad una vicenda prevalentemente
linguistica, ci troveremmo a contare, come fece – errando –
Francesco Arcangeli, un «incerto alfabeto, fra l’ardimento e
l’errore di grammatica », e a guardare «quei colori stesi troppo
densamente, troppo ciecamente, perché splendano di vero splendore».
La Repubblica – 18
aprile 2014
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