LA PAROLA DI TOTO' RIINA
di Giuseppe Casarrubea
Si diceva, una volta, che i mafiosi non parlano. È vero, se si fa eccezione del mutamento culturale che li ha travolti, a migliaia, aprendo molte brecce nel muro del silenzio che li ha distinti per secoli. Ma se a parlare, quasi borbottando, è un capo come Totò Rina, le cose cambiano. Per capi come lui, le regole, fino a prova contraria, sono cristallizzate e le sue parole intercettate durante l’ora d’aria nel carcere di Opera di Milano, ne sono una funesta prova, almeno per la minaccia di morte al pm Nino Di Matteo. Milletrecento pagine, fitte, che neanche un romanziere avrebbe potuto produrre. Fondamentali per il processo sulla trattativa Stato-mafia. Si potrebbe pensare che tutto sia avvenuto a insaputa dell’interessato. Ma non metterei la mano sul fuoco. Può darsi che il “Corto” se l’aspettava da tempo un momento come questo.
Per non lasciarlo parlare da solo, come i pazzi, e per favorirne la
loquacità, il direttore dello speciale istituto, gli ha messo accanto,
senza che l’interessato ne cogliesse lo scopo, un altro recluso, Alberto
Lo Russo, esponente della Sacra Corona Unita. Dall’aprile 2013, i due
sono così entrati in frequentazione e il mafioso pugliese è diventato
fedele uditore delle ricostruzioni storiche di quella fonte d’archivio
che è la memoria ultraottuagenaria del “capo dei capi”. E’ vero quello
che diceva un vecchio militante del defunto Pci, che conobbi da ragazzo a
Partinico. Era solito ripetere una legge di Lavoisier, applicata alla
sua teoria dello Stato: “Lo Stato crea, lo Stato distrugge e tutto
trasforma”.
L’intercettato è una fonte storica orale. I temi sono svariati. C’è la ricostruzione dell’omicidio del magistrato Pietro Scaglione, trucidato il 5 maggio 1971 a Palermo, in via dei Cipressi, insieme al suo agente di scorta Antonio Russo. Il magistrato si stava recando al cimitero per portare dei fiori alla moglie defunta. Un marito legato alla famiglia, anche se qualcuno ne ha fatto il simbolo di una istituzione ambigua, piena di mistero. E proprio in questo mistero si pone la prima questione di ciò che sono veramente mafia e mafiosità. Il meccanismo infernale e perverso che attraversa il cordone ombelicale dello Stato-madre.
Totò Riina, in arte “‘U Curtu”, sa di non essere cretino, ed è strano che alcuni giornalisti e le stesse istituzioni, abbiamo pensato che la decisione dell’intercettazione non fosse stata presa da tempo e che il corleonese ne fosse all’oscuro. Tanto che questi non dice nulla che non avessero detto i giornali prima.
Fu Tommaso Buscetta a raccontare a Giovanni Falcone la decisa ostilità di Scaglione contro la mafia e della decisione presa dai corleonesi di Luciano Liggio e di Riina, con l’assenso di Pippo Calò, di far fuori il pericoloso ostacolo. A Scaglione fu data la colpa della mancata cattura di Luciano Liggio nel 1969. Su di lui furono scritte parole di fuoco dal parlamentare del Movimento sociale italiano, Giorgio Pisanò. Parole a vanvera, prive di riferimenti a prove.
Succede ancora oggi che lo Stato non riesca a fare chiarezza nemmeno in considerazione del carattere della vittima. Cosa che la dice molto lunga su collusioni e omertà delle istituzioni su una vicenda che è alla base della nostra storia repubblicana.
È normale pensare che nessuna novità ci sarà neanche dopo la promessa di desecretazione di Renzi degli atti sulle stragi. Non c’è stata e non ci sarà mai un’apertura degli armadi con gli scheletri. Sono armai rovesciati con la faccia al muro e inchiodati. Casseforti, come quelle che contenevano le dichiarazioni di Pisciotta sulla morte di Giuliano, e di cui ancora oggi si sconosce totalmente la relazione scientifica della commissione che procedette all’esame del Dna di quel cadavere.
All’Archivio Centrale dello Stato esiste la traccia di un documento sufficiente di per sé a dimostrare come un delitto, per quanto commissionato in certi ambienti rigorosamente riservati e intellettualmente raffinati, possa lasciare sempre sul campo le tracce della sua imperfezione. Nel nostro caso si tratta di una confessione di Gaspare Pisciotta. Sappiamo che il prezioso scritto certamente passò dal gabinetto del ministro dell’Interno nel 1950, fu schedato in quello stesso anno e chiuso in cassaforte. L’indizio è oggettivo ed ha l’importanza che di solito la polizia scientifica attribuisce a certi particolari che riscontra attorno a un morto ammazzato. Il particolare è questa scheda, presente nello schedario del 1950 dello stesso ministero col seguente contenuto: Fasc. 29/CS “Dichiarazione del bandito Pisciotta circa uccisione Giuliano” e questa indicazione scritta a stampatello: “Vedere in cassaforte”. La cassaforte è quella Ministero dell’Interno-Gabinetto che versò all’Archivio le sue carte nel 1966, omettendo di inviare il prezioso documento e non tenendo conto però che della sua esistenza si faceva riferimento nell’apposito schedario: una sbadataggine imperdonabile.
Se questo accadde allora figuriamoci cosa è successo in oltre sessant’anni, nei vari apparati centrali e periferici dello Stato per tutte le altre stragi. A partire dalle coeve sparizioni di documenti, (si pensi a Dalla Chiesa), di borse (si pensi allo stesso generale o all’Agenda rossa di Borsellino, rubatagli, secondo Riina, dai Servizi di Intelligence), di strumenti informatici (si pensi a Falcone). Dati tutti pubblicati, alla data del “passeggio” nel cortile dell’Opera – 29 agosto 2013 –, dai giornali, con abbondanza di particolari. Ma c’è pure quando Riina mente, come quando giustifica l’enorme ritardo con cui, dopo il suo arresto del 1993, fu perquisito il suo covo.
E poi c’è un altro dato sostanziale nel linguaggio verbale e non verbale del capo corleonese.
Riina sa che la parola ha un senso in una società chiusa, come quella mafiosa, in cui di solito non si scattano fotografie o si scrivono molte carte. Contano di più i messaggi non verbali: indossare un vecchio abito, incedere lentamente, bisbigliare per far sentire all’altro che ti ascolta, il venticello della calunnia, della minaccia, della propria forza. Visto che la mafia uccide sempre due volte. La prima quando fa fuoco e la seconda quando mira a colpire la vita, il modo di esistere dei sopravvissuti. Il silenzio di Matteo Messina Denaro o di Riina è perciò analogo e opposto alla documentazione scritta. Tranne eccezionali registri di contabilità sostitutivi o integrativi della memoria orale.
“Parola” viene dal latino medievale paraula, cioè parabola. Ti dico una cosa ma ne voglio sostenere un’altra più complessa. Pisciotta era una specie di carabiniere e parlava un’altra lingua, allusiva, buona per l’Arma. Il mafioso è uomo di parola nel senso che enuncia un percorso, anche con un cenno, uno sguardo, un’inflessione di voce, un tono particolare. Riina ci dice che ad ammazzare Scaglione è stato Bernardo Provenzano. Ma c’è da credergli? No.
L’intercettato è una fonte storica orale. I temi sono svariati. C’è la ricostruzione dell’omicidio del magistrato Pietro Scaglione, trucidato il 5 maggio 1971 a Palermo, in via dei Cipressi, insieme al suo agente di scorta Antonio Russo. Il magistrato si stava recando al cimitero per portare dei fiori alla moglie defunta. Un marito legato alla famiglia, anche se qualcuno ne ha fatto il simbolo di una istituzione ambigua, piena di mistero. E proprio in questo mistero si pone la prima questione di ciò che sono veramente mafia e mafiosità. Il meccanismo infernale e perverso che attraversa il cordone ombelicale dello Stato-madre.
Totò Riina, in arte “‘U Curtu”, sa di non essere cretino, ed è strano che alcuni giornalisti e le stesse istituzioni, abbiamo pensato che la decisione dell’intercettazione non fosse stata presa da tempo e che il corleonese ne fosse all’oscuro. Tanto che questi non dice nulla che non avessero detto i giornali prima.
Fu Tommaso Buscetta a raccontare a Giovanni Falcone la decisa ostilità di Scaglione contro la mafia e della decisione presa dai corleonesi di Luciano Liggio e di Riina, con l’assenso di Pippo Calò, di far fuori il pericoloso ostacolo. A Scaglione fu data la colpa della mancata cattura di Luciano Liggio nel 1969. Su di lui furono scritte parole di fuoco dal parlamentare del Movimento sociale italiano, Giorgio Pisanò. Parole a vanvera, prive di riferimenti a prove.
Succede ancora oggi che lo Stato non riesca a fare chiarezza nemmeno in considerazione del carattere della vittima. Cosa che la dice molto lunga su collusioni e omertà delle istituzioni su una vicenda che è alla base della nostra storia repubblicana.
È normale pensare che nessuna novità ci sarà neanche dopo la promessa di desecretazione di Renzi degli atti sulle stragi. Non c’è stata e non ci sarà mai un’apertura degli armadi con gli scheletri. Sono armai rovesciati con la faccia al muro e inchiodati. Casseforti, come quelle che contenevano le dichiarazioni di Pisciotta sulla morte di Giuliano, e di cui ancora oggi si sconosce totalmente la relazione scientifica della commissione che procedette all’esame del Dna di quel cadavere.
All’Archivio Centrale dello Stato esiste la traccia di un documento sufficiente di per sé a dimostrare come un delitto, per quanto commissionato in certi ambienti rigorosamente riservati e intellettualmente raffinati, possa lasciare sempre sul campo le tracce della sua imperfezione. Nel nostro caso si tratta di una confessione di Gaspare Pisciotta. Sappiamo che il prezioso scritto certamente passò dal gabinetto del ministro dell’Interno nel 1950, fu schedato in quello stesso anno e chiuso in cassaforte. L’indizio è oggettivo ed ha l’importanza che di solito la polizia scientifica attribuisce a certi particolari che riscontra attorno a un morto ammazzato. Il particolare è questa scheda, presente nello schedario del 1950 dello stesso ministero col seguente contenuto: Fasc. 29/CS “Dichiarazione del bandito Pisciotta circa uccisione Giuliano” e questa indicazione scritta a stampatello: “Vedere in cassaforte”. La cassaforte è quella Ministero dell’Interno-Gabinetto che versò all’Archivio le sue carte nel 1966, omettendo di inviare il prezioso documento e non tenendo conto però che della sua esistenza si faceva riferimento nell’apposito schedario: una sbadataggine imperdonabile.
Se questo accadde allora figuriamoci cosa è successo in oltre sessant’anni, nei vari apparati centrali e periferici dello Stato per tutte le altre stragi. A partire dalle coeve sparizioni di documenti, (si pensi a Dalla Chiesa), di borse (si pensi allo stesso generale o all’Agenda rossa di Borsellino, rubatagli, secondo Riina, dai Servizi di Intelligence), di strumenti informatici (si pensi a Falcone). Dati tutti pubblicati, alla data del “passeggio” nel cortile dell’Opera – 29 agosto 2013 –, dai giornali, con abbondanza di particolari. Ma c’è pure quando Riina mente, come quando giustifica l’enorme ritardo con cui, dopo il suo arresto del 1993, fu perquisito il suo covo.
E poi c’è un altro dato sostanziale nel linguaggio verbale e non verbale del capo corleonese.
Riina sa che la parola ha un senso in una società chiusa, come quella mafiosa, in cui di solito non si scattano fotografie o si scrivono molte carte. Contano di più i messaggi non verbali: indossare un vecchio abito, incedere lentamente, bisbigliare per far sentire all’altro che ti ascolta, il venticello della calunnia, della minaccia, della propria forza. Visto che la mafia uccide sempre due volte. La prima quando fa fuoco e la seconda quando mira a colpire la vita, il modo di esistere dei sopravvissuti. Il silenzio di Matteo Messina Denaro o di Riina è perciò analogo e opposto alla documentazione scritta. Tranne eccezionali registri di contabilità sostitutivi o integrativi della memoria orale.
“Parola” viene dal latino medievale paraula, cioè parabola. Ti dico una cosa ma ne voglio sostenere un’altra più complessa. Pisciotta era una specie di carabiniere e parlava un’altra lingua, allusiva, buona per l’Arma. Il mafioso è uomo di parola nel senso che enuncia un percorso, anche con un cenno, uno sguardo, un’inflessione di voce, un tono particolare. Riina ci dice che ad ammazzare Scaglione è stato Bernardo Provenzano. Ma c’è da credergli? No.
Primo perché Provenzano è, a suo
giudizio, l’uomo che l’ha venduto alla polizia facendolo arrestare;
secondo perché il vecchio patriarca, beccato in un casolare del
corleonese mentre diceva le preghiere e gestiva ‘pizzini’, era l’uomo
attorno a cui ballavano da tempo la tarantola i vari comparti delle
forze dell’ordine. Dato il totale sfascio dell’uomo molti, per spirito
umanitario, ne hanno chiesto la consegna alla famiglia. Persino Antonio
Ingroia. Riina spara su un morto sapendo che lui è nella botte di ferro
di una galera di rigore. Il massimo della sua auto-protezione fisica.
Quindi, come tutti i mafiosi, parla per
metafore, i suoi racconti sono allegorici e servono a farsi capire dai
suoi seguaci. Dicono una cosa, magari risaputa, ma ne vogliono
significare un’altra.
Un solo esempio. Il presidente della
Repubblica è definito “Birrittuni”. E’ un termine che in siciliano
deriva da “birritta” che ha sostanzialmente due significati. Quello
antico di galerus o di pileus, usato dai latini come segno distintivo
degli schiavi liberati o di berretto conico dei romani durante gli
spettacoli. E l’altro di “perdere la berretta”, cioè di confondersi.
C’è poi un significato proprio siciliano
adoperato per dire di levare la berretta al geco (“livari a birritta o
tignusu”), cioè svelare i vizi degli altri. È possibile che qui, Riina,
abbia fatto riferimento alla precedente esperienza dell’allora ministro
dell’Interno di Giorgio Napolitano, tra il 1996 e il 1998. Con gli
annessi e i connessi. Ma è solo un’ipotesi.
Giuseppe Casarrubea , 22 ottobre 2014, su http://casarrubea.wordpress.com/
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