Mario Luzi, cento anni di poesia e di prosa
La grande editoria non manca all’appello, e Garzanti ha appena mandato nelle librerie una nuova edizione in tre volumi dell’intera opera in versi, inclusi parecchi componimenti inediti o dispersi dell’ultimo periodo (Poesie, 2 voll., pp. 1244, euro 30; Poesie ultime e ritrovate, pp. 770, euro 28). Ma l’importanza dell’opera di Luzi non si limita all’ambito strettamente poetico. E il centenario dovrebbe rappresentare l’occasione per approfondire anche altri versanti della sua opera, finora meno conosciuti o trascurati: dalle opere teatrali agli scritti critici e giornalistici sulla letteratura, l’arte e il cinema; dalle prose civili e morali a quelle narrative e di viaggio.
Il versante prosastico dell’opera di Luzi, infatti, non può essere considerato una mera appendice dell’opera poetica, ma ha senz’altro un proprio valore intrinseco. Per accorgersene basta leggere la splendida raccolta delle Prose luziane, curata, con la consueta, impeccabile competenza, da Stefano Verdino per l’editore Nino Aragno (pp. 383, euro 20). Il nucleo del volume è costituito dai testi raccolti originariamente nel libro Trame (non più ristampato dal lontano 1982), a cui si aggiungono ora due nuove sezioni di scritti, la prima delle quali (De quibus e altro) progettata dallo stesso Luzi, che coprono un arco di tempo di una settantina d’anni. Se il primo importante opuscolo in prosa di Luzi – Biografia a Ebe, singolare racconto di formazione del 1942 – è pienamente immerso nella temperie ermetica delle raccolte poetiche giovanili, gli scritti successivi, di natura più frammentaria, sono caratterizzati da uno stile più limpido e meno enfatico. Varie sono le tipologie di prosa coltivate da Luzi in questo volume.
Ci sono testi narrativi, frammenti autobiografici, elzeviri, ritratti e ricordi personali di autori, non solo italiani, del Novecento (da Montale a Landolfi, da Dylan Thomas alla Achmatova), diari di viaggio (i più consistenti dei quali riguardano l’India, la Cina e l’Irlanda). I brani in cui Luzi esprime forse il meglio di sé potrebbero definirsi “prose di luogo”: l’autore parla delle località che conosce meglio, come le sue città per antonomasia, Firenze e Siena, e altre località meno celebri, specialmente della Toscana e dell’Umbria. Quando racconta le proprie terre, Luzi non cade nello stucchevole campanilismo provinciale; così scrive a proposito del concetto di «toscanità»: «Mi auguro che se farete leva su questa “categoria” non sia per chiudervi né per circoscrivere un piccolo mondo o una grande memoria né per rimuovere o per escludere il diverso. Si è tanto più toscani quanto meno si toscaneggia. Altrimenti si è toscanucci e non è una bella razza».
Luzi, inoltre, non nasconde i rischi di una toscanità, e in particolare di una fiorentinità, intesa come mera celebrazione del passato: «si pasce, Firenze, delle sue viscere […]. Il mito di Firenze continua, ma è ora del tutto inoperante, mentre fino a pochi decenni orsono le aveva consentito di polarizzare gran parte della vita intellettuale e di istituirsi come il centro maggiore della cultura italiana». Non a caso, Luzi privilegia quei capolavori artistici il cui valore non si esaurisce nella storia, ma continua ad illuminare il presente: è il caso, per esempio, della Cappella Brancacci, affrescata, come si sa, da Masolino e Masaccio, «che non si placa nella memoria, non si chiude nella perfezione della forma, ma continua a risplendere come gemma e fuoco operante».
Del resto, anche come poeta, Luzi trasse, non di rado, spunti decisivi dall’arte figurativa, sia contemporanea sia antica, tant’è che intitolò la raccolta più importante della sua ultima stagione poetica, il celebre Viaggio terrestre e celeste, a un grandissimo pittore medievale della sua amata Siena: quel Simone Martini che reinventò come proprio alter-ego letterario.
Articolo pubblicato lunedì, 20 ottobre 2014, su http://www.minimaetmoralia.it/wp/mario-luzi-cento-anni-di-poesia-e-di-prosa/
Prima è uscito in forma abbreviata e rimaneggiata su Europa. (Fonte immagine)
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