19 ottobre 2014

ANCORA SUL LEOPARDI DI M. MARTONE



Leopardi didascalico. Il giovane favoloso di Mario Martone


di Luca Illetterati

“Un libro, di solito, se è buono lo capisci dall’incipit”, diceva il mio vecchio e saggio libraio. E lui raramente sbagliava, devo dire. Una volta, lo ricordo bene, era il 1990 ed io ero un giovane dottorando piuttosto saccente, per dimostrarmelo mi lesse l’inizio di La Chimera di Sebastiano Vassalli, che era appena arrivato in libreria e che nessuno dei due aveva ancora letto:
Dalle finestre di questa casa si vede il nulla. Soprattutto d’inverno: le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto, l’autostrada non c’è più, non c’è più niente.
“Capisci?”, mi disse, “il libro sarà buono, vedrai. E ricordati di queste righe, perché qui c’è la chiave del romanzo, di tutte le pagine successive.”
Io presi in mano il libro e lo sfogliai. E con l’alterigia di quegli anni dissi:
“Virgilio” (si chiamava così il mio libraio) “l’incipit che hai letto appartiene alla Prefazione. Non è il vero incipit del romanzo!”.
Lui riprese in mano il libro; andò al primo capitolo e con tono un po’ spazientito lesse:
Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1590, giorno di Sant’Antonio abate, mani ignote deposero sul torno cioè sulla grande ruota in legno che si trovava all’ingresso della Casa di Carità di San Michele fuori le mura, a Novara, un neonato di sesso femminile, scuro d’occhi, di pelle e di capelli: per i gusti dell’epoca quasi un mostro.
Depose il libro sulla pila del suo bancone e si rimise a leggere quel che stava leggendo prima, lasciandomi lì, ebete, a guardarmi intorno.
Mi è venuta in mente questa cosa dell’incipit dopo la visione, alla Mostra del Cinema, del film Il giovane favoloso; pellicola che Mario Martone, dopo aver messo in scena a teatro le Operette morali, ha dedicato alla vita di Giacomo Leopardi, interpretato nell’occasione, con grande forza e passione (un po’ troppa, per i miei gusti) da Elio Germano.
Io non so bene, in realtà, se questa faccenda dell’incipit valga anche per i film. Magari no. In ogni caso, le scene iniziali di solito svelano il linguaggio prescelto, la cifra espressiva del regista, il taglio della storia.
Il giovane favoloso inizia con l’inquadratura di una siepe. Che a uno gli viene da dire: “no, dai, non puoi cominciare un film su Leopardi con la siepe!”. Però magari non c’entra, è solo un caso, ho pensato. Poco dopo, dopo che si è vista quella siepe qualunque, quella della prima scena appunto, si vede un giovane Giacomo che sbircia al di là di un muretto di arbusti, che si alza e si abbassa, come a confrontare la vista chiusa dalle piante con ciò che invece è al di là di esse, l’intreccio dei rami che fanno da schermo schermo – né troppo opaco né troppo trasparente – e le linee morbide della campagna marchigiana che si estende come senza fine al di là di esso. Poco più avanti la scena si ripete, con un Leopardi, ora, forse meno curioso e certamente più sofferente e contorto, il quale, cercando di prendere nel viso pallido e dolorante la luce del sole, con un’aria che sta a metà tra la trance orgasmica e la fatica dell’esistenza, declama il famoso sonetto guardando proprio la siepe, la stessa da cui sbirciava prima, intravedendo oltre, ma non volendo vedere troppo, cercando di porsi in quello spazio liminare tra la chiusura e l’apertura, che consente di pensare l’oltre senza afferrarlo e reificarlo.
E lì declama L’infinito. Giuro! Cioè si vede un Leopardi invasato che poggiato a un albero e di fronte a una siepe declama L’infinito.
Ecco, a me sembra che in queste scene ci sia molto del film di Martone; un film realizzato con indubbia maestria, con un discreto senso narrativo (anche se è difficile valutare la forza di un racconto quando si conosce così bene la storia), mettendo insieme non senza coraggio alcuni pezzi di una vicenda quasi monumentalizzata e riuscendo a restituire allo spettatore un quadro certamente complesso, con un’ottima ambientazione (in particolare le scene del periodo napoletano). Ma è un film, a mio parere, didascalico e a tratti davvero scolastico. Un film che non aggiunge nulla a quanto è noto, che non consente nemmeno di arrabbiarsi o compiacersi per una qualche scelta interpretativa controversa (sempre che non si voglia intendere in questo senso l’ammiccamento nei confronti di una possibile omosessualità leopardiana). Sì, certo c’è una certa enfasi su una sorta di nietzscheanesimo leopardiano, c’è una raffinata ironia mitteleuropea un po’ alla Thomas Bernahrd o alla Elias Canetti nei confronti della pretesa felicità delle masse, retoricamente esaltata dai progressisti di allora e speculare, tutto sommato, al gergo consolatorio dei conservatori e dei preti a cui gli uomini nuovi vorrebbero e dovrebbero contrapporsi. Ma sono solo piccoli lampi in qualche modo scontati dentro una storia che sembra mettere in scena la storia che conosciamo, con il linguaggio che ci aspettiamo (preso con attenzione e cura encomiabili perlopiù dalle lettere, dallo Zibaldone o dalle Operetti morali), senza un qualche effetto realmente spaesante, che possa rivelare un alcunché di inatteso.
Tanto per dire: Leopardi a un certo punto del film, a Napoli, si arrabbia molto quando, seduto a un caffè, di fronte alle lamentele di un lettore borghesotto per il suo proverbiale pessimismo, ne sente un altro, più accondiscendente, giustificare questa sua visione dell’esistenza e del mondo con la malattia e le sofferenze del suo corpo: non attribuite alle mie malattie ciò che è responsabilità del mio intelletto, urla qui Leopardi, sudato e curvo, sbattendo il bastone a terra e tornando subito dopo al suo agognato gelato., quasi simbolo dell’unica forma di trasgressione dei sensi a cui egli può accedere. Ora, se questo era uno dei punti sui quali si voleva insistere, se questa frase viene buttata in faccia con tanta forza agli astanti e giocoforza agli spettatori, viene da chiedersi se fosse davvero il caso di calcare la mano, come invece accade dalla prima all’ultima scena del film, quasi ossessivamente, proprio sulla difficoltà fisica, sui dolori, sulla differenza e lo squilibrio tra le storture disarticolate di Giacomo e la baldanza fisica da personaggio dei fotoromanzi più spinti del suo amico Ranieri, che infatti se la spassa alla grande. Se questa è una delle chiavi che si voleva proporre per non trovarsi inguaiati dentro a letture banalotte, era davvero il caso di mettere in scena nella forma più barocca e perlopiù scontata il disagio di quel corpo? Con tanto di inquadratura del sorgere della gobba sulla schiena nuda del povero Germano?
Ecco, a me è sembrato così. Non c’è niente di filologicamente sbagliato o trasandato nel film. E anche se ci fossero errori o forzature filologiche davvero poco importerebbe. C’è piuttosto una sorta di tensione illustrativa, più che narrativa, che ricorda una certa tradizione (penso ai film della Cavani dedicati a Galileo o a Nietzsche) che io pensavo ci si fosse lasciati alle spalle.
Mi son così trovato, non senza vergogna, ma quasi spontaneamente e inconsapevolmente, ad accondiscendere con gli occhi, alla fine del film, all’esclamazione sgraziata e sconveniente di una terribile e antipatica signora seduta al mio fianco, con i vestiti da maschio anni ’70 che sapevano di migliaia di sigarette e caffè delle macchinette:
- Piacerà moltissimo alle professoresse democratiche.


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