Leopardi didascalico. Il giovane favoloso di Mario Martone
di Luca Illetterati
“Un libro, di solito, se è buono lo capisci dall’incipit”,
diceva il mio vecchio e saggio libraio. E lui raramente sbagliava, devo
dire. Una volta, lo ricordo bene, era il 1990 ed io ero un giovane
dottorando piuttosto saccente, per dimostrarmelo mi lesse l’inizio di La Chimera di Sebastiano Vassalli, che era appena arrivato in libreria e che nessuno dei due aveva ancora letto:
Dalle finestre di questa casa si vede il nulla. Soprattutto
d’inverno: le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un
tutto indistinto, l’autostrada non c’è più, non c’è più niente.
“Capisci?”, mi disse, “il libro sarà
buono, vedrai. E ricordati di queste righe, perché qui c’è la chiave del
romanzo, di tutte le pagine successive.”
Io presi in mano il libro e lo sfogliai. E con l’alterigia di quegli anni dissi:
“Virgilio” (si chiamava così il mio libraio) “l’incipit che hai letto appartiene alla Prefazione. Non è il vero incipit del romanzo!”.
Lui riprese in mano il libro; andò al primo capitolo e con tono un po’ spazientito lesse:
Nella notte tra il 16 e il 17
gennaio 1590, giorno di Sant’Antonio abate, mani ignote deposero sul
torno cioè sulla grande ruota in legno che si trovava all’ingresso della
Casa di Carità di San Michele fuori le mura, a Novara, un neonato di
sesso femminile, scuro d’occhi, di pelle e di capelli: per i gusti
dell’epoca quasi un mostro.
Depose il libro sulla pila del suo
bancone e si rimise a leggere quel che stava leggendo prima, lasciandomi
lì, ebete, a guardarmi intorno.
Mi è venuta in mente questa cosa dell’incipit dopo la visione, alla Mostra del Cinema, del film Il giovane favoloso; pellicola che Mario Martone, dopo aver messo in scena a teatro le Operette morali,
ha dedicato alla vita di Giacomo Leopardi, interpretato nell’occasione,
con grande forza e passione (un po’ troppa, per i miei gusti) da Elio
Germano.
Io non so bene, in realtà, se questa faccenda dell’incipit
valga anche per i film. Magari no. In ogni caso, le scene iniziali di
solito svelano il linguaggio prescelto, la cifra espressiva del regista,
il taglio della storia.
Il giovane favoloso inizia con
l’inquadratura di una siepe. Che a uno gli viene da dire: “no, dai, non
puoi cominciare un film su Leopardi con la siepe!”. Però magari non
c’entra, è solo un caso, ho pensato. Poco dopo, dopo che si è vista
quella siepe qualunque, quella della prima scena appunto, si vede un
giovane Giacomo che sbircia al di là di un muretto di arbusti, che si
alza e si abbassa, come a confrontare la vista chiusa dalle piante con
ciò che invece è al di là di esse, l’intreccio dei rami che fanno da
schermo schermo – né troppo opaco né troppo trasparente – e le linee
morbide della campagna marchigiana che si estende come senza fine al di
là di esso. Poco più avanti la scena si ripete, con un Leopardi, ora,
forse meno curioso e certamente più sofferente e contorto, il quale,
cercando di prendere nel viso pallido e dolorante la luce del sole, con
un’aria che sta a metà tra la trance orgasmica e la fatica
dell’esistenza, declama il famoso sonetto guardando proprio la siepe, la
stessa da cui sbirciava prima, intravedendo oltre, ma non volendo
vedere troppo, cercando di porsi in quello spazio liminare tra la
chiusura e l’apertura, che consente di pensare l’oltre senza afferrarlo e
reificarlo.
E lì declama L’infinito. Giuro! Cioè si vede un Leopardi invasato che poggiato a un albero e di fronte a una siepe declama L’infinito.
Ecco, a me sembra che in queste scene ci
sia molto del film di Martone; un film realizzato con indubbia
maestria, con un discreto senso narrativo (anche se è difficile valutare
la forza di un racconto quando si conosce così bene la storia),
mettendo insieme non senza coraggio alcuni pezzi di una vicenda quasi
monumentalizzata e riuscendo a restituire allo spettatore un quadro
certamente complesso, con un’ottima ambientazione (in particolare le
scene del periodo napoletano). Ma è un film, a mio parere, didascalico e
a tratti davvero scolastico. Un film che non aggiunge nulla a quanto è
noto, che non consente nemmeno di arrabbiarsi o compiacersi per una
qualche scelta interpretativa controversa (sempre che non si voglia
intendere in questo senso l’ammiccamento nei confronti di una possibile
omosessualità leopardiana). Sì, certo c’è una certa enfasi su una sorta
di nietzscheanesimo leopardiano, c’è una raffinata ironia mitteleuropea
un po’ alla Thomas Bernahrd o alla Elias Canetti nei confronti della
pretesa felicità delle masse, retoricamente esaltata dai progressisti di
allora e speculare, tutto sommato, al gergo consolatorio dei
conservatori e dei preti a cui gli uomini nuovi vorrebbero e dovrebbero
contrapporsi. Ma sono solo piccoli lampi in qualche modo scontati dentro
una storia che sembra mettere in scena la storia che conosciamo, con il
linguaggio che ci aspettiamo (preso con attenzione e cura encomiabili
perlopiù dalle lettere, dallo Zibaldone o dalle Operetti morali), senza un qualche effetto realmente spaesante, che possa rivelare un alcunché di inatteso.
Tanto per dire: Leopardi a un certo
punto del film, a Napoli, si arrabbia molto quando, seduto a un caffè,
di fronte alle lamentele di un lettore borghesotto per il suo
proverbiale pessimismo, ne sente un altro, più accondiscendente,
giustificare questa sua visione dell’esistenza e del mondo con la
malattia e le sofferenze del suo corpo: non attribuite alle mie malattie ciò che è responsabilità del mio intelletto,
urla qui Leopardi, sudato e curvo, sbattendo il bastone a terra e
tornando subito dopo al suo agognato gelato., quasi simbolo dell’unica
forma di trasgressione dei sensi a cui egli può accedere. Ora, se questo
era uno dei punti sui quali si voleva insistere, se questa frase viene
buttata in faccia con tanta forza agli astanti e giocoforza agli
spettatori, viene da chiedersi se fosse davvero il caso di calcare la
mano, come invece accade dalla prima all’ultima scena del film, quasi
ossessivamente, proprio sulla difficoltà fisica, sui dolori, sulla
differenza e lo squilibrio tra le storture disarticolate di Giacomo e la
baldanza fisica da personaggio dei fotoromanzi più spinti del suo amico
Ranieri, che infatti se la spassa alla grande. Se questa è una delle
chiavi che si voleva proporre per non trovarsi inguaiati dentro a
letture banalotte, era davvero il caso di mettere in scena nella forma
più barocca e perlopiù scontata il disagio di quel corpo? Con tanto di
inquadratura del sorgere della gobba sulla schiena nuda del povero
Germano?
Ecco, a me è sembrato così. Non c’è
niente di filologicamente sbagliato o trasandato nel film. E anche se ci
fossero errori o forzature filologiche davvero poco importerebbe. C’è
piuttosto una sorta di tensione illustrativa, più che narrativa, che
ricorda una certa tradizione (penso ai film della Cavani dedicati a
Galileo o a Nietzsche) che io pensavo ci si fosse lasciati alle spalle.
Mi son così trovato, non senza vergogna,
ma quasi spontaneamente e inconsapevolmente, ad accondiscendere con gli
occhi, alla fine del film, all’esclamazione sgraziata e sconveniente di
una terribile e antipatica signora seduta al mio fianco, con i vestiti
da maschio anni ’70 che sapevano di migliaia di sigarette e caffè delle
macchinette:
- Piacerà moltissimo alle professoresse democratiche.19 ottobre 2014 |
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