Echenoz e la guerra
di Isabella Mattazzi
Aby Warburg definisce la Prima guerra mondiale la Urkatastrophe, la Catastrofe originaria.
Per lui, la trasformazione dell’assetto politico europeo che tra il
1914 e il 1918 costerà la vita a più di 9 milioni di soldati sui campi
di battaglia, è l’evento radicale per eccellenza. La sospensione del
tempo della Storia e il ritorno dell’uomo alla violenza muta delle
origini. A Warburg, la guerra porterà in dote tre anni di ricovero in
clinica psichiatrica (ma anche, a ben guardare, la creazione di Mnemosyne).
Ad altri – Apollinaire, Céline, Paulhan, Cendrars… – la coscienza di un
cambio di paradigma, la necessità di un nuovo linguaggio, di una nuova
parola per narrare l’innominabile.
Come si fa a “dire” la guerra? Con che
voce si può raccontare quella perdita totale del senso in cui Freud
vedrà, non a caso, la spoliazione da parte dell’uomo di ogni traccia di
civilizzazione?
Se ogni mutamento dell’esperienza
richiede un cambiamento di metodo, ogni mutamento di esperienza richiede
anche e necessariamente un cambio di linguaggio. Chi ritornerà vivo
dalle trincee – che sia scrittore, giornalista, poeta poco importa – non
potrà, da quel momento in poi, che trasformare la propria voce. Che si
tratti di Ho ucciso di Cendrars, scritto con una lingua a
scoppio come uno sparo, o della sconvolgente prosa visionaria di Céline,
la guerra terminata (davanti alla Storia), ma nello stesso tempo
interminabile (davanti alla Memoria) richiederà sempre un intervento
linguistico, domanderà sempre una riflessione sulla parola ancora prima
che sulla narrazione degli eventi stessi.
Uscito in Francia nel 2012 e pubblicato oggi da Adelphi ’14
di Jean Echenoz (traduzione di Giorgio Pinotti, pp.110, 14 euro) è una
vera e propria opera di virtuosismo linguistico. Che Echenoz non sia uno
scrittore monocorde è cosa nota. Al Pianoforte, Le biondone, Il mio editore
– per citare alcuni tra i sui titoli tradotti in Italia – sono
altrettante prove di messa in voce, altrettante variazioni, metamorfosi
di una parola sempre diversa, sempre in mutazione, sfuggente alla
fissità di un unico stile.
Mai come in questo caso, però, la scelta
di una voce ha coinciso con un’operazione di senso. Mai come in questo
caso, lo stile ha determinato per Echenoz la scommessa del libro. Il
numero 14 del titolo, lo si saprà fin dalle prime righe del testo,
rappresenta una data. Per la precisione il primo agosto 1914, giorno in
cui le campane di tutta la Francia annunciano a distesa l’entrata della
nazione nel primo conflitto mondiale. Ad ascoltare le campane, sdraiato
su un prato tra le colline della Vandea, Anthime, giovane di ventitré
anni, senza particolari pretese nella vita. Sarà il suo sguardo, per la
maggior parte del testo, a seguire la guerra. Una guerra che, dicevano,
non sarebbe durata più della metà di un mese e che si trasformerà invece
per lui in 500 giorni di trincee, di morti, di marce forzate, disertori
fucilati, paura e sangue. Per 500 giorni lo sguardo di Anthime si
poserà sul mondo e ne raccoglierà i frammenti. Per 500 giorni il suo
occhio sarà l’occhio di Echenoz. O meglio, la sua voce, il suo stile.
Uno stile volutamente démodé (grazie anche alla resa perfetta della
traduzione), volutamente fuori registro, all’inizio quasi fastidioso nel
suo soffermarsi lezioso su ogni particolare, sulla stoffa dei vestiti,
le diverse tipologie di calzature, gli arredi, le varietà di piante. Uno
stile sempre impeccabile, senza mai una macchia, senza mai uno strappo
improvviso all’interno della pagina. Uno stile del tutto anaffettivo. O
meglio, distaccato, come preso a registrare gli eventi senza una minima
partecipazione emotiva, senza dolore o rabbia, come se l’occhio di chi
guarda fosse l’occhio mite e inespressivo della Vittima. Di colui che
accoglie l’inaccettabile senza un lamento. Di chi si adatta perché è da
sempre abituato a far parte della massa dei silenziosi, degli agnelli
che si fanno condurre al macello senza domandare, senza neppure pensare.
Presto, infatti, alla descrizione minuziosa di coccarde e fiori gettati
a terra, di cappelli di paglia, scarpe e gonne di pannolenci si
sostituirà l’elenco dei pezzi di cervello saltati fuori dagli elmetti
esplosi, dei cappotti militari zuppi di pioggia e diventati
insopportabilmente pesanti, dei topi intenti a divorare le stringhe
degli scarponi. Presto, la vita di Anthime si trasformerà nell’incubo
più cupo che nessuno si sarebbe mai potuto permettere di sognare.
Per Michel de Certeau la letteratura di
guerra è sempre la narrazione dell’alterità. Il nemico che la guerra
mette in scena è «l’Altro» per definizione. Un Altro assoluto, i cui
gesti segnano il limite esatto del nostro confine identitario. Solo che
qui l’Altro non c’è. Il nemico non è quasi mai visto, mai nominato, mai
descritto (unici sporadici segni: la sagoma a zanzara di un biposto
Aviatik in avvicinamento, il suo fucile in dotazione, qualche granata).
Il vero incubo è la trincea stessa. Sono le facce stralunate dei morti,
il fango che ricopre qualsiasi cosa, i pidocchi, i pezzi di carne –
orecchie, piedi, gambe – sparsi a terra. Su tutto questo, sulla Catastrofe originaria
dei morti e dei topi, l’occhio mite di Anthime. Il suo sguardo sempre
neutro. Lo stile sempre precisissimo, demodé, distaccato di Echenoz.
Dalla prima pagina all’ultima. Perché ’14 è il trionfo delle
vittime. Di chi accetta tutto, anche l’inammissibile, e lo attraversa,
nominandolo appunto, senza contrastarlo, senza mai volerlo dominare.
Anthime alla fine sarà uno dei pochissimi della sua divisione a far
ritorno in Vandea. Suo fratello Charles, il favorito, più alto, più
volitivo, il preferito da Blanche amata da entrambi, Charles che non si
arrende alla realtà ma vuole modificarla, inquadrandola nelle lenti del
suo apparecchio fotografico per farne cosa propria, Charles il vincitore
morirà quasi subito. Come moriranno presto Bossis, Arcenel, il capitano
Vayssière. Vite minuscole seppellite sotto il fango insieme a milioni
di altri corpi anonimi (’14 rappresenta, in questo, un cambio
di passo e un ritorno alla pura forma romanzesca per Echenoz dopo la
suite dei suoi ultimi suoi tre romanzi – Ravel, Correre e Lampi
– dedicati alle vite di Maurice Ravel, Emil Zàtopek e Niklas Tesla).
Solo Anthime, con un braccio staccato di netto da una scheggia di
granata, potrà tornare a casa come invalido di guerra. Un braccio
lasciato a terra in cambio della fine dell’incubo. Un pezzo di carne (e
la capacità persa per sempre di allacciarsi le scarpe) in cambio della
vita.
Il braccio tagliato, il destro, la parte
volitiva nell’equilibrio di potere che il nostro corpo riserva alla
simmetria dei gesti, rimarrà solo come fantasma, come arto mancante,
possibilità inespressa. Esattamente come Charles, la parte volitiva
della coppia di fratelli, rimarrà come ricordo di un qualcosa che
avrebbe potuto essere e non è stato. Alla fine il mite Anthime ne
prenderà il posto di vicedirettore in fabbrica e il posto nel letto di
Blanche. Sempre senza alcuna reazione emotiva, né di fronte al dolore né
di fronte alla gioia. Sempre accompagnato da una voce neutra, démodée,
impeccabile. Fino alla fine del racconto. Fino alla fine della guerra.
“Nel bel mezzo della notte Anthime si è diretto nell’oscurità verso il
letto di Blanche anche lei sveglia. Si è sdraiato accanto a lei e l’ha
circondata con il suo unico braccio, poi l’ha penetrata prima di
inseminarla. E l’autunno seguente, proprio mentre si svolgeva la
battaglia di Mons che è stata l’ultima, è nato un maschietto cui è stato
dato il nome di Charles”.
Questo articolo , uscito su «Alias», è stato ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=16570
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