Libertà di riproduzione nelle biblioteche e negli archivi
La nuova norma introdotta dal decreto
ArtBonus, che prevede la liberalizzazione delle riproduzioni nei musei,
sarà pure una novità interessante per le migliaia di turisti che
potranno ora sbizzarrirsi con le foto ricordo, ma per la realtà della
ricerca rappresenta purtroppo una delle tante occasioni perse che oggi
faremmo volentieri a meno di collezionare. Ce ne accorgiamo subito se
confrontiamo il testo definitivo della legge con quello, davvero
rivoluzionario, del decreto nella sua formulazione originaria che
liberalizzava la riproduzione per finalità di studio dell’intero
universo dei beni culturali, compreso dunque quel materiale
documentario conservato negli archivi e nelle biblioteche, che invece un
emendamento della Camera dei Deputati ha deciso di escludere,
stroncando l’iniziale entusiasmo dei ricercatori.
Il decreto ArtBonus, entrato in vigore
il primo giugno, nel rendere libere e gratuite le riproduzioni tramite
mezzo proprio aveva garantito un notevole risparmio, in termini di tempo
e denaro, a tutti quei ricercatori e professionisti dei beni culturali
che, nonostante le difficoltà economiche e le incertezze lavorative
ancora svolgono attività di ricerca e valorizzazione di beni
culturali. Si poneva fine a un vero e proprio commercio delle
riproduzioni sulle spalle dei ricercatori: prima dell’entrata in vigore
del decreto alcuni istituti consentivano l’uso della propria fotocamera
dietro pagamento di un canone (che poteva giungere sino ai 2 euro a
scatto), altri negavano invece tassativamente il ricorso al mezzo
proprio per garantire il massimo del profitto alle ditte private cui era
stato concesso l’appalto del servizio di riproduzione in esclusiva,
secondo un regime di concessione introdotto dalla legge Ronchey nel
1993.
Il sogno è stato, purtroppo, di assai
breve durata: il 9 luglio, a poco più di un mese dall’entrata in vigore
della liberalizzazione, nell’iter di conversione del decreto in legge,
la Camera dei Deputati ha approvato un emendamento restrittivo che
esclude i «beni archivistici e bibliografici» dal novero dei beni
culturali liberamente riproducibili. La legge ora approvata in Senato ha
frustrato le speranze di tutti quegli studiosi che a gran voce ma
invano avevano richiesto di ripristinare il testo originario. Con un
passo in avanti per i turisti (le foto nei musei) e due indietro per i
ricercatori che frequentano archivi e biblioteche, come se nulla fosse,
si è così ritornati al regime precedente.
Prima ancora che sulle responsabilità
amministrative e politiche di questo emendamento, è bene qui riflettere
sulle sue deboli ragioni di fondo sul piano che fanno riferimento
all’interpretazione del testo normativo e ad argomenti di tipo
economico. L’emendamento è stato giustificato anzitutto con un abile
cavillo giuridico: dal momento che la norma permette la libera
riproduzione a condizione che non si determini un contatto fisico con il
bene, è stato facile escludere manoscritti e documenti che richiedono
di essere maneggiati e sfogliati per essere riprodotti, a differenza
delle opere esposte nei musei. In realtà l’intento del decreto
originario era ben diverso. Esso non intendeva tanto creare distinzioni
tra le categorie di beni culturali, quanto piuttosto tra le tecniche di
riproduzione, da un lato ammettendo le fotografie a distanza dall’altro
escludendo scansioni, fotocopie o comunque quei mezzi che avrebbero
comportato inevitabilmente un contatto con il bene, e dunque una sua
potenziale usura.
Un discrimine perciò meramente
tecnologico, già presente nell’art. 107 del Codice dei Beni culturali
che vieta espressamente le tecniche di riproduzione per contatto, e che è
stato ribadito da un’autorevole mozione del Consiglio superiore del
Mibact del 15 luglio che conferma l’estensione della liberalizzazione a
tutti i beni culturali al di là di ogni possibile distorsione
interpretativa che, come in questo caso, appare null’altro che un
pretesto per escludere i beni archivistici e bibliografici.
La seconda motivazione alla base
dell’emendamento è invece squisitamente economica: i proventi derivanti
dall’appalto alle ditte private di fotoriproduzione sarebbero l’unico
cespite non pubblico per il sostentamento degli archivi. In realtà
proprio per prevenire simili obiezioni il parere espresso sul decreto
dalla Commissione Bilancio della Camera è stato netto: «L’ampliamento
delle ipotesi di mancata corresponsione del canone (…) non determinerà
effetti apprezzabili rispetto ai flussi di entrate attesi dalle
amministrazioni concedenti».
A ben guardare il sistema
dell’outsourcing nasce per gestire i cosiddetti servizi aggiuntivi, come
bookshop o caffetterie, e dotare gli istituti di quelle competenze
professionali di cui sono sprovvisti. Siffatta delega diventa però del
tutto superflua, e anzi un vero ostacolo per la ricerca, se lo stesso
servizio risulta invece gestibile in perfetta autonomia dagli utenti
grazie al mezzo digitale che, rispetto alla tecnologia analogica, ha
reso la fotografia finalmente alla portata di tutti con enormi vantaggi
sia per la ricerca che per la conservazione: anche se gli scatti
realizzati durante la consultazione delle fonti non saranno degni di un
Cartier-Bresson, avranno almeno il pregio di permettere una semplice
trascrizione dei documenti senza dover tornare sull’originale. Per non
parlare dei dubbi di legittimità sollevati dal sistema delle concessioni
applicato alle riproduzioni: l’art. 108 del Codice stabilisce infatti
una gratuità delle riproduzioni a scopo di studio che però sinora non
s’è mai riscontrata. Al massimo è previsto un rimborso spese a carico
del richiedente nel caso in cui sia l’amministrazione a farsi carico
della riproduzione, vale a dire l’esatto contrario di quanto accade oggi
con il sistema dell’appalto a ditte private specializzate, che è
divenuto un mezzo per generare nuovi introiti. Le ditte di riproduzione
offrono comunque un servizio altamente qualificato per produrre, su
richiesta, immagini di alta qualità ideali per le pubblicazioni più
raffinate, che è giusto che si affianchi, ma senza sostituirsi, come
oggi avviene, alla libera riproduzione con mezzo proprio.
Vi è il forte sospetto che dietro a
simili motivazioni se ne celino altre più subdole, in particolare l’idea
inconfessata che la proliferazione delle copie dei documenti, senza i
limiti imposti da un tariffario che ne scoraggi la riproduzione,
svilisca l’unicità dell’originale. In quest’ottica archivi e biblioteche
rischiano di somigliare alle collezioni dei principi dell’evo
moderno che limitavano o proibivano il disegno dei loro cimeli per
imporne l’unicità. Sono tracce di una concezione proprietaria e
patrimoniale dei beni culturali, che è l’esatto opposto della moderna
nozione democratica di bene pubblico da cui è urgente invece oggi
ripartire. La missione delle biblioteche e degli archivi è infatti sì
quella di conservare, ma anche di garantire, agevolando le libere
riproduzioni, la massima fruibilità dei documenti e dei loro contenuti a
tutti quegli studiosi che, attraverso la ricerca, restituiscono un
valore al materiale documentario, e quindi un senso alla loro stessa
conservazione. È questo che indica il combinato degli artt. 9 e 33 della
Costituzione. La carenza di risorse per gli archivi rimane un problema
oggettivo che impone una riflessione attenta, ma la scelta di far
gravare la spesa di gestione degli archivi sugli studiosi è un danno
inaccettabile per chi ancora oggi si ostina a percorrere la strada
impervia della ricerca storica.
Vi è stato persino chi è s’è visto
costretto a modificare il proprio progetto di tesi di laurea o di
dottorato per i costi insostenibili richiesti dalla riproduzione del
materiale documentario. La piena libertà della ricerca non è un lusso,
ma un principio costituzionale sul quale non si può scendere a
compromessi. È perciò auspicabile che la politica si ravveda e rivaluti
le potenzialità della libera riproduzione, già intraviste nella prima
formulazione dell’ArtBonus, come volàno per la ricerca storica, e
rimuova così l’emendamento allineandosi alla prassi degli archivi
nazionali di Parigi e Londra, dove la libera fotografia con mezzo
proprio è già da tempo realtà.
"Il Giornale dell'Arte", n. 345, settembre 2014
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