27 ottobre 2014

I FIORI DI VAN GOGH: La bellezza come terapia del dolore.



In margine alla mostra di Milano. Una riflessione sull'importanza dei fiori nella pittura di Van Gogh.

Francesca Bonazzoli 

In quella gioia per i fiori la sensibilità verso gli ultimi 

Sono stati i fiori i prodotti della terra più amati da Van Gogh. Monet con le ninfee aveva semplicemente ingaggiato un ossessivo corpo a corpo con la luce; Van Gogh, invece, dipingeva ogni tipo di fiore perché quell’esercizio gli procurava gioia. «Sto dipingendo con l’entusiasmo di un marsigliese nel mangiare la bouillabaisse, e non ti sorprenderebbe se ti dicessi che sto dedicandomi ad alcuni girasoli. Se riesco a portare avanti questa idea si tratterà di una dozzina di dipinti. L’intero lavoro sarà una sinfonia di giallo e blu», scriveva al fratello Theo nel 1887, mentre si impegnava nella prima delle due serie dedicate ai girasoli terminate con il più audace di tutti gli accostamenti: il giallo dei petali su fondo giallo. L’apoteosi della gioia, motivo decorativo pensato per la stanza preparata ad Arles per l’amico Gauguin.

Ma c’erano altre due ragioni per cui Van Gogh dipingeva tanti fiori. La prima va ricercata nel fatto che erano, da secoli, il soggetto umile dell’arte — tema minore rispetto alla pittura di figura, religiosa o eroica — quasi un passatempo per dilettanti, accusa da cui si era dovuto a suo tempo difendere anche Caravaggio. Questa semplicità piaceva a Van Gogh che, per la sua sensibilità verso gli ultimi, aveva trascorso la prima parte della vita fra i minatori del Borinage condividendone gli stenti.



Sempre a corto di soldi e dipendente economicamente dagli aiuti del fratello, i fiori erano inoltre un soggetto cui poter attingere senza affrontare la spesa per i modelli che van Gogh faticava a trovare fra i conoscenti. «Mi sono mancati i soldi per pagare dei modelli, altrimenti mi sarei dedicato completamente alla pittura di figura, ma ho fatto una serie di studi sui colori dipingendo semplici fiori, papaveri rossi, fiordalisi, myosotis; rose bianche e rosa, crisantemi gialli» racconta l’artista.

La seconda ragione era il fascino esercitato su di lui dalle stampe giapponesi, molto ben conosciute da Van Gogh che aveva fatto per un periodo il commesso presso il più grande mercante d’arte del tempo, Goupil. In quelle stampe c’erano fiori dappertutto che diventavano protagonisti, come mai si era visto prima nella pittura occidentale, e come Van Gogh ha rifatto, per esempio, nel suo splendido ramo di mandorlo fiorito che occupa l’intera tela come un arabesco: petali perlacei che si stagliano in un cielo turchese dipinti in occasione di un altro motivo di gioia: la nascita del nipote.

Anche gli iris del Paul Getty Museum, con gli steli sinuosi in primo piano mossi dal vento, sono un’idea mutuata dagli artisti del Sol Levante che non amavano, come succedeva invece nella pittura occidentale, ritrarre il vaso di fiori recisi apparecchiato in una tavola elegante. La natura aveva una sua propria bellezza, assoluta, senza dover diventare, come nelle nostre nature morte barocche, una decorazione di lusso.



E infine non bisogna dimenticare le volte in cui Van Gogh ha usato i fiori per riempire lo sfondo dei ritratti: da quello di Madame Augustine Roulin a quello di suo marito, il postino Joseph Roulin. Solo Matisse, dopo di lui, sarà altrettanto audace. I fiori furono dunque una terapia della gioia, un alleggerimento per la mente, una liberazione del talento e della creatività, una fuga dalle ossessioni negative, dopo il periodo scuro in cui Van Gogh aveva tentato di mettere la pittura al servizio della sua missione umanitaria, celebrando la fatica di contadini e minatori con i toni bruni della scuola olandese di Rembrandt e Hals. La scoperta del colore avvenne proprio grazie all’esercizio sui fiori, ricercando le contrapposizioni del blu con l’arancione, del rosso con il verde, del giallo con il violetto. Chissà se Allen Ginsberg conosceva questa storia quando nel 1965 coniò il termine «flower power».

Il Corriere della sera – 18 ottobre 2014

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