Alla riscossa stupidi, che i fiumi sono in piena
di Francesco Forlani
Nel post
dedicato alla spinosa questione del rapporto tra volontariato e lavoro
culturale, avevo usato la fotografia dei giovani accorsi a Firenze nel
novembre del ’66, dopo l’alluvione, per salvare i beni della comunità.
Giorni fa, sfogliando la rete, mi sono imbattuto nel servizio dedicato
da Repubblica ai nuovi angeli del fango, ovvero a quei ragazzi e ragazze andati a Genova per prestare il proprio aiuto. A loro deve andare tutta la nostra gratitudine.
Non mi piace l’espressione “Angeli del fango”. Dico il suono della parola. Preferisco quella inglese, Mud Angels, per i giovani venuti da tutto il mondo a mettere
in salvo le opere di un patrimonio culturale sentito come universale,
portare a braccio i libri dalle cantine in cui il fango rischiava di
ridurre all’oblio la memoria della comunità. Credo che in molti di noi
la parola si associ quasi naturalmente alla sequenza della ragazza che suona il pianoforte nel film “La meglio gioventù”;
la sequenza suggeriva anche la tesi verosimile della prossimità di
quell’aggregazione spontanea con i fatti del ’68 che seguirono poco
dopo.
Se volessimo trovare una
risposta alla domanda sulle più remote ragioni che spingono un giovane
dei nostri giorni a “partire e andare” difficilmente potremmo definirne
una soltanto, valida per gli uni e per gli altri. Certamente il
desiderio di condividere con altri qualcosa dove quel qualcosa è
sicuramente l’esperienza e la consapevolezza di essere utile a qualcuno;
l’idea di appartenere a una comunità. Qualcosa di simile all’euforia
che ben conosce chi abbia partecipato a delle lotte politiche,
studentesche o operaie, ai movimenti per la pace o per una qualsiasi
altra causa abbastanza forte da travalicare il semplice tornaconto
personale. Avviene come un distacco dalla ragione economica perfino
quando il senso della mobilitazione si basa su delle istanze salariali,
per esempio, o di costi del diritto allo studio. Ecco perché non vedo
nessuna differenza tra un giovane d’oggi accorso a Genova per
l’alluvione e il giovane che nel 2011 aveva raggiunto la città in
occasione del G8. Questa gratuità che determina il lavoro di un
volontario o di un militante è la stessa di cui parlo quando dico che la
cultura sarà salvata dal volontariato.
Volontaires et bénévoles
Ce qui compte
ne peut pas toujours
être compté,
et ce qui peut
être compté
ne compte pas forcément. »
[Albert Einstein]
ne peut pas toujours
être compté,
et ce qui peut
être compté
ne compte pas forcément. »
[Albert Einstein]
La
frase di Einstein posta ad esergo di uno studio del 2011 sul bénévolat,
sostenuto dal Ministère de la ville, de la jeunesse et des sports
francese, suggerisce la traccia che vorrei mantenere lungo tutte queste
riflessioni. “Quando ciò che conta non può essere contato, e quel che può essere contato non necessariamente conta,”
la prima cosa da fare è capire fino a che punto il mondo cultura vada
identificato con l’industria culturale ma soprattutto in che misura è
nutrito da attività non retribuite.
Il
grande Battiato nel 1980 cantava “mandiamoli in pensione i direttori
artistici gli addetti alla cultura” proprio attaccando l’industria
culturale di tutte le epoche, le spesso inutili e autarchiche frange del
potere culturale messe a difesa dello status quo del paese. Ma poi
siamo sicuri che cultura sia soltanto l’industria culturale? Siamo
proprio così certi che letteratura sia sinonimo di editoriale? Nello
scorso post dedicato a questo argomento non mi ha affatto meravigliato
la levata di scudi di alcuni professionisti della cultura, travet del
mondo editoriale, in difesa della propria dignità e proprietà
intellettuale da contrapporre ai “dilettanti” delle lettere. Lobbisti
contro hobbysti, mi è venuto da pensare leggendoli; come se scrivere
fosse un hobby per uno scrittore e un lavoro per quanti, dal direttore
editoriale fino alla telefonista della casa editrice, passando per la
stagista addetta alle fotocopie e lo stagista assegnato all’ufficio
stampa, avrebbero trasformato quell’hobby nel proprio lavoro. E lo dico
con piena cognizione della necessità e del valore di ogni singolo ruolo
all’interno di un progetto editoriale avendo piena esperienza di quanto
un progetto, un romanzo, un libro, guadagni in qualità grazie al
concorso di ogni singola competenza e capacità. E la qualità va pagata,
tutta e subito. Quando dico cultura però io parlo anche d’altro. Dico
tradizione di pensiero e idee che coprono quasi l’intero arco della
nostra storia culturale strappando anno dopo anno alla ferrea legge dei
copyright, dei settant’anni dalla morte dell’autore, capolavori
dimenticati o diffusi in modo insufficiente. Quando dico volontario non
intendo un lavoro che doveva essere retribuito e poi non lo è, nè
tantomeno l’ancora più odiosa ambiguità di certi rapporti di lavoro,
contratti, che di fatto legittimano forme di schiavismo tutte moderne.
Proprio
per evitare malintesi ho pensato di sostituire alla parola volontario,
di per sé ambigua, quella di bénévole e di rimettermi, quanto al suo
significato, a quello che, per esempio, i francesi ci dicono a tale
proposito in un rapporto di tre anni fa.
Le rapport du Conseil
économique et social présenté par Marie-Thérèse Cheroutre définissait
en 1993 le bénévole comme celui qui s’engage librement pour mener à bien
une action non salariée, non soumise à l’obligation de la loi, en
dehors de son temps professionnel et familial.
En
tant que tel, le bénévolat constitue un enjeu économique évalué à
environ 935 000 emplois équivalents temps plein (ETP) dans les
associations, concentré dans un petit nombre de secteurs dont quatre
bénéficient de l’essentiel de la ressource bénévole, un quart assumant
des fonctions d’animation ou d’encadrement d’activités : Sports 29% Culture et loisirs 28% Action sociale, santé, humanitaire 23% Défense des droits 10% Économie, développement local 4% Éducation, formation, insertion 4% Autres 2%
Ipotizzando
che tali cifre possano funzionare anche nel caso italiano la prima cosa
che colpisce è come il settore culturale sia tra quelli più toccati da
questo tipo di attività. Certo vengono accorpati culture et loisirs. Ma cos’è un loisir?
La Conférence internationale du travail di Ginevra, del 1924 afferma nelle sue conclusioni: « La
Conférence générale ha avuto per oggetto l’assicurare ai lavoratori,
oltre alle ore di sonno necessarie, un tempo sufficiente per fare quel
che gli piace, così come la indica l’origine etimologica del termine
loisir ( dal latino licere, permettere)
Questa
apparente divagazione in realtà ci permette di identificare da subito
tutto il “paradosso” del lavoro culturale che consiste nel volersi
rappresentare come un lavoro vero e proprio nonostante il
piacere che si provi nel farlo. Se nel mondo del lavoro manuale o
tecnico, il piacere che si prova nello svolgere una certa professione,
la passione che si nutre dell’esercizio di un’attività sembra, e a
torto, un optional, nel mondo culturale è difficile che quella voglia
manchi. In altri termini ci sono in Italia migliaia di giovani e meno
giovani che giocoforza non potranno mai accedere a un lavoro,
retribuito, regolare, di tipo culturale e non perché gli manchino
talento, devozione, capacità, ma perché l’industria culturale non ha
bisogno di tantissima gente e la poca di cui ci sarebbe bisogno, tolti i
figli di, le amanti di, gli amici di, e i fortunati che erano al posto
giusto nel momento giusto, non basta ad assorbire tutti. E poi, che
follia pensare addirittura di fare un lavoro che piace! Così la nostra
esperienza ci dice che sono tante, troppe le persone uscite da Lettere e
Filosofia, Conservatorio, Accademia delle Belle Arti, Architettura,
Sociologia, per non parlare della ricerca scientifica tout court, a
gettare prima la spugna e poi il sangue in lavori spesso poco
retribuiti, abbastanza infami ma soprattutto lontani anni luce dalle
proprie aspirazioni, dalle competenze acquisite per passione.
Per
fortuna nostra e loro queste migliaia di persone nonostante tutto
questo non si sono arrese; continuano a leggere, tradurre, recensire
libri, presentarli, partecipare a convegni, festival, collaborare a
riviste. Qualcuno dirà che lo fanno nel loro tempo di loisir, da
bénévoles, esattamente come Primo Levi, James Joyce, Franz Kafka,
Roberto Bolaño, ecc ecc.
E
allora? Allora io vorrei che qualcuno mi dicesse a quanto tutto questo
corrisponda in termini percentuali sul lavoro culturale e soprattutto in
che modo incida sulla qualità della produzione il fatto di essere
sostanzialmente libera dal mercato. Per il momento di questa energia ne
sento soltanto il profumo.
Concludo
con un documento che mi sembra importante condividere per due ragioni.
La prima per rimandare al mittente l’accusa di farmi promotore dello
sfruttamento della forza lavoro culturale nelle imprese commerciali e
dall’altra per ben marcare il passo su cosa non si deve assolutamente
accettare che accada in una società civile.
Volontariato e profitto: appello di Sergio Bologna ai volontari dell’Expo di Milano
La vera lotta di classe non è quella di chi è dentro ma di chi è fuoriArticolo tratto da: http://www.nazioneindiana.com/2014/10/18/il-volontariato-salvera-la-cultura/
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