16 ottobre 2014

LA VECCHIAIA NON ESISTE PIU?


Oltrepassata quella che Conrad chiama la linea d'ombra, è all'orizzonte che ci avviciniamo, non sapendo minimamente cosa ci sia al di là. Ma la linea dell'orizzonte si sposta man mano che avanziamo e noi scopriamo sempre nuovi mari. Questo per noi è il “tempo senza età”.


Marc Augé

“Invecchio, dunque sono” L’ultima verità dell’anima


Qualche volta ci rendiamo conto di essere invecchiati ritrovando il volto di una persona che avevamo “perso di vista” da qualche tempo. Arrivati a una certa età non si dovrebbe mai restare troppo lontani da chi siamo destinati a rivedere: ne approfittano per invecchiare senza avvertire e riaffiorano all’improvviso come scortese specchio della nostra decrepitezza. In una cerchia più intima e abituale ci si può in qualche modo rassicurare con un «è davvero invecchiato di colpo», ma sono solo parole, in qualche modo il cuore non c’è, quasi gliene vogliamo; ci domandiamo se è malato; cerchiamo una spiegazione. Poi ritorna familiare e, se sta bene, glielo si perdona, si dimentica, lo si ritrova, ci si raccapezza.

La relazione con il proprio corpo, con se stessi, non è più semplice. Non abbiamo l’occasione di guardarci in uno specchio tutti i giorni e quando accade ci capita di rifuggire il contatto e ci allontaniamo dopo un’occhiata breve o indifferente. Al contrario, qualche volta, ci soffermiamo. Può essere per intervenire su un dettaglio — una volta si diceva “farsi belli” — passandosi una mano nei capelli, aggiustandosi il nodo della cravatta o, per le signore, ritoccandosi il maquillage, nel caso si tratti di un uomo con cravatta e di una donna truccata. Oppure può semplicemente essere — se posso permettermi di dirlo — per contemplare la nostra immagine senza commento, in un gesto di letterale “riflesso”.

Con questa sorta di parametri la relazione con se stessi si snoda secondo una serie di sdoppiamenti che generano espressioni verbali: il mio corpo e io — mi tira colpi bassi o mi dà soddisfazioni; la mia consapevolezza e io — l’io del piano superiore, il Super-io che mi domina e reprime, oppure quello del piano inferiore, quello dei bassi istinti; me e me — io è un altro — , la diversità imprevedibile che sembra ripetersi e riprodursi sempre nell’identico modo ma può anche battermi sul tempo e sfuggirmi di sorpresa.

Tuttavia, quando mi guardo allo specchio e mi dico che sono invecchiato, sebbene interpelli il mio riflesso dandogli del tu, ricompongo e riunifico il mio corpo e i diversi “me” in un’improvvisa consapevolezza. Paradossalmente questo ritorno alla fase dello specchio mi libera dalle aporie della consapevolezza riflessiva. Invecchio, dunque vivo. Sono invecchiato, dunque sono.

Si dice che la solitudine sia uno dei mali più crudeli dell’età avanzata: in realtà, più il tempo passa più si sciolgono, o almeno si allentano, quei legami che ci tenevano ancorati alla riva. Il pensionamento, a cui tuttavia alcuni aspirano, impone e crea di colpo una distanza dalle familiarità quotidiane, una distanza che può inquietare tanto è forte la sua somiglianza con una specie di morte. Eppure a volte si celebra quell’avvenimento con una cerimonia che evoca un servizio funebre, con i suoi discorsi, i fiori e la sincera emozione di qualcuno.

Il problema della solitudine che l’età comporta sta nel fatto che essa non soltanto si impone come evidenza intima, ma anche come evidenza esteriore: gli altri tradiscono, disertano, si ritirano, sprofondano nella malattia o muoiono. Non si può invecchiare a lungo senza vedere molti amici cari allontanarsi o scomparire. Il peggio è che ci si abitua. O, almeno, che sembra ci si abitui, come se, non per indifferenza ma bensì per pudore, si rifiutasse di considerare abominevole quella sorte che sappiamo essere comune. Parimenti, esiste anche un’indifferenza crescente nei confronti della storia attuale, nei confronti degli altri, perfino dei più cari, che Léo Ferré ha cantato così: «... E ci si sente assolutamente soli, forse, ma tranquilli...

Solitudine subita, imposta dalla scomparsa dei coetanei e dallo sguardo degli altri; solitudine voluta, come per un riflesso di difesa o una forma di sfida. Tutte queste solitudini sono l’i- neluttabile prezzo della vecchiaia? Non è detto. Che la si “dimostri” o meno, certamente abbiamo la nostra età, noi l’abbiamo, sì, ma è lei al timone. Eppure, “avere” la nostra età significa vivere e i suoi segni sono dunque segni di vita. Dietro i pretesti proclamati di chi si mostra attento al proprio corpo possiamo scoprire — al di là di una certa civetteria — la voglia di vivere pienamente come invitava a fare Cicerone.

Il vivere pienamente è un ideale che molti non hanno avuto la possibilità di raggiungere durante la loro vita definita “attiva”, a causa di differenti obblighi che li vincolavano e pesavano su di loro. Succede dunque che il pensionamento sia effettivamente vissuto come liberazione e rinascita, come l’occasione di prendersi finalmente il tempo di vivere — vivere senza scadenze, di prendersi il proprio tempo senza più preoccuparsi dell’età.

Forse è una questione di fortuna: alcuni sono afflitti meno di altri dai malanni dell’età, o, almeno, lo sono ma più avanti negli anni. All’improvviso sopravviene la saggezza del gatto e domandano al loro corpo solo quello che è in grado di fare: vi si identificano e astutamente si risparmiano. Queste persone rappresentano proprio l’esempio che può essere contrapposto a qualunque analisi pessimistica evocata dal naufragio dell’età avanzata.

Di tanto in tanto ci stupiamo dell’ottimo umore dimostrato senza dissimulazione dagli anziani, che, per potersi godere la vita, sembrano avere atteso fino alla fine. In qualche modo è ciò che sintetizza lo spesso citato aforisma lapalissiano: «Cinque minuti prima di morire, Monsieur de La Palisse era ancora in vita». In effetti...

(testo tratto dal capitolo “ Invecchiare senza età” del libro “ Il tempo senza età” di Marc Augé)

La Repubblica - 15 ottobre 2014

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