L' albero della vita di Davide Tonato
Dal raffinato sito http://rebstein.wordpress.com/ questa mattina prendo questa perla:
Fuoco nero, fuoco bianco
di Giuseppe Zuccarino
Che esista uno stretto rapporto fra alcuni aspetti del pensiero
di Jacques Derrida e la tradizione ebraica è un fatto ormai assodato, e
su questa problematica esistono vari studi d’assieme[1].
Si tratta di analisi che andrebbero prolungate, ma in quest’occasione
ci interessa affrontare un compito più modesto, ossia proporre un minimo
esercizio di lettura in rapporto ad alcuni passi del saggio derridiano La dissémination[2].
Ricordiamo che il testo costituisce un’ampia disamina, assai poco
tradizionale, di un’opera letteraria a sua volta innovativa, ossia Nombres di Sollers[3].
In questo romanzo, i numeri non figurano solo nel titolo, ma esercitano anche un ruolo essenziale nella costruzione del libro. Come ha ricordato Guido Neri, «Nombres si presenta come un “dispositivo” nettamente programmato nella sua struttura e nel suo funzionamento. Sono 100 capitoletti, numerati in ordine progressivo dal principio alla fine e inoltre in serie successive di 4 (100 è insieme il quadrato della somma 1 + 2 + 3 + 4 e la somma dei cubi di questi numeri)»[4]. Non mancano, nell’opera, figure geometrico-numeriche con funzione esplicativa, così come – sul versante più propriamente linguistico – abbonda la presenza di ideogrammi cinesi. Il romanziere richiama a tratti (mediante allusioni o citazioni implicite) passi appartenenti ad opere di scrittori, pensatori e scienziati, ma anche a testi connessi alle varie tradizioni religiose, fra cui quella ebraica. E proprio a quest’ultima, e più in particolare alle dottrine mistiche della Qabbalah, sono indirizzati certi accenni di Nombres che, nel suo saggio, Derrida individua, isola e commenta. La dissémination, infatti, implica a sua volta un gran numero di prelievi testuali, sia da Sollers che da altri, e molto spesso si tratta di citazioni effettuate senza virgolette e senza indicazione dell’autore, a conferma del fatto che il filosofo intende dar vita a un’operazione di scrittura in certo modo analoga, o parallela, rispetto a quella compiuta dal narratore[5].
I riferimenti cabbalistici sono concentrati in una sezione del saggio che ha per titolo La colonne. Infatti, dopo aver citato vari punti di Nombres nei quali si accenna a colonne d’aria, Derrida ritiene di potervi scorgere in filigrana «la colonna d’aria inafferrabile dello Zohar […] e colonne di numeri che sono, anche lì, degli alberi […]. Cosa che, unita all’autorità del numero 10 (1 + 2 + 3 + 4), potrebbe […] mettere in scena l’albero delle dieci sefirot che corrispondono ai dieci nomi o categorie archetipici. Safar vuol dire contare e talvolta si traduce sefirot con numerazioni. L’albero delle sefirot, tutto inciso, è immerso nell’En Sof, “radice di tutte le radici”; e questa struttura può essere in ogni punto riconosciuta nei Nombres. Sarebbe solo uno dei numerosi innesti testuali attraverso cui la Qabbalah vi si reimprime»[6].
Proviamo a fare un po’ di chiarezza, a beneficio di chi non abbia alcuna familiarità con la mistica ebraica. Già nel Sefer yesirah (Il libro della formazione), breve testo redatto verso il VI-VII secolo, si diceva della divinità che «grandi colonne intagliò nell’aria inafferrabile»[7]. Quanto allo Zohar (Sefer ha-zohar) evocato da Derrida, è una delle più celebri opere cabbalistiche; gli storici ritengono sia stata composta nel XIII secolo in Spagna da vari autori, il principale dei quali dovrebbe essere Mošeh de León[8]. Vi ritroviamo l’immagine della colonna d’aria, o piuttosto di nuvola, che è di origine biblica. Quando gli Ebrei si misero in marcia verso il Mar Rosso, fu la divinità ad indicare la strada da seguire: «E partirono da Succot e si accamparono in Etam al margine del deserto. Jahweh marciava davanti a loro: durante il giorno in una colonna di nube per guidarli nel cammino; durante la notte in una colonna di fuoco per far loro luce, onde marciare di giorno e di notte»[9]. Le due colonne vengono evocate spesso nello Zohar, sia pure in contesti e con intenzioni differenti[10]. Ben più importante, come dottrina cabbalistica, è quella delle dieci sefirot, sulla quale Gershom Scholem ha fornito importanti chiarimenti nelle sue opere, e in particolare in un libro da cui Derrida, pur senza citarlo, riprende parecchie idee e persino singole espressioni, come avremo modo di constatare[11]. Scholem spiega che le sefirot sono già presenti nel Sefer yesirah, dove si parla appunto di «dieci sefirot senza determinazione»[12]. In quel testo, la parola «significa i dieci numeri archetipi (da safar = contare) e cioè le forze fondamentali di tutto l’essere»[13]. In libri mistici successivi, come lo Zohar, le sefirot vengono invece a configurarsi come altrettante emanazioni dell’En Sof (l’infinito), appellativo con cui i cabbalisti indicano la divinità. Ai loro occhi, tali emanazioni sono idealmente disposte secondo uno schema rappresentabile con l’immagine di un albero, radicato nell’aura luminosa che circonda l’En Sof, oppure in un nulla che «è a sua volta la somma e la prima di tutte le sefirot. Nel simbolo dei cabbalisti è la “radice di tutte le radici”, di cui si nutre l’albero»[14].

Esaminiamo ancora due estratti dal saggio derridiano, perché vertono su un’immagine che ci sembra particolarmente significativa. Il primo passo evoca «i fuochi della Torah, fuoco nero e fuoco bianco: il fuoco bianco, testo scritto in lettere ancora invisibili, si dà da leggere nel fuoco nero della Torah orale che alla fine viene a disegnarvi le consonanti e a punteggiarvi le vocali, “3.43. /… Tragitto del fuoco nero dove mi bruciavo sul fuoco bianco…”»[17]. Il secondo passo, strettamente collegato sul piano tematico, si legge poche pagine dopo: «Come si sa, esiste tutta un’interpretazione della spaziatura, della generazione testuale e della polisemia, attorno alla Torah. La polisemia è la possibilità di una “nuova Torah” che può uscire dall’altra (“Torah uscirà da me”). “Rabbi Levi Yitzhaq di Berditchev: ‘Ecco come stanno le cose: il bianco, gli spazi nel rotolo della Torah provengono anch’essi dalle lettere, ma noi non sappiamo leggerli come facciamo con il nero delle lettere. Nell’epoca messianica, Dio rivelerà il bianco della Torah, le cui lettere sono per il momento invisibili per noi, ed è questo ciò che l’espressione ‘nuova Torah’ lascia pensare’”. Qui, al contrario, un testo nuovo sarà sempre possibile, poiché il bianco apre la struttura a una trasformazione indefinitamente disseminata»[18].

Prima di procedere oltre, conviene richiamare, come fa Scholem, la «distinzione tradizionale fra una “Torah scritta” e una “Torah orale”. La Torah scritta […] è il testo registrato nel Pentateuco. La Torah orale è tutto ciò che gli studiosi della Scrittura e i saggi hanno detto per spiegare questo corpus scritto»[22]. Il cabbalista Yitzhaq il Cieco (XII-XIII secolo) fornisce una versione mistica di tale distinzione, diversa da quanto ci si aspetterebbe; è quella a cui si richiama Derrida: «La forma della Torah scritta è quella dei colori del fuoco bianco, e la forma della Torah orale ha i colori del fuoco nero»[23]. Scholem elucida lo strano pensiero dicendo che «l’organismo igneo della Torah, che bruciò davanti a Dio in forma di fuoco nero su fuoco bianco, è ora interpretato da lui [Yitzhaq il Cieco] nel senso che il fuoco bianco è la Torah scritta, in cui non compare ancora la forma delle lettere, e che riceve invece tale forma, delle consonanti e dei punti vocalici, solo in virtù del fuoco nero, che è la Torah orale. […] È un’idea veramente radicale! Quella che noi chiamiamo Torah scritta a sua volta è già passata attraverso il mezzo di quella orale, non è più forma nascosta nella luce bianca, ma è uscita dalla luce nera, che determina e delimita»[24].

Dato che una caratteristica tipica della spiritualità hassidica consiste nel narrare sempre di nuovo le stesse storie relative ai maestri (gli tzaddiqim) delle varie comunità mistiche, non sorprende il fatto che le frasi di Levi Yitzhaq compaiano regolarmente nelle raccolte di racconti hassidici, alcune delle quali famose, come quelle di Chajim Bloch e Martin Buber[26]. Del resto anche ad altri maestri di quella corrente della Qabbalah era familiare l’immagine dei due fuochi: «Rabbi Uri di Strelisk, mentre pregava, vedeva le lettere scritte in fuoco nero su un fuoco bianco, come furono date sul monte Sinai – tale era l’impegno con cui si buttava nella preghiera, da qui il soprannome “l’ardente” – e usciva dalla preghiera come da un fuoco, ardente e purificato da tutte le scorie delle debolezze, inclinazioni, umori e passioni umane»[27].
Ma veniamo ad autori assai più vicini, non solo cronologicamente ma anche sul piano del pensiero, a Derrida. Basti pensare a Maurice Blanchot, che nel saggio conclusivo della sua raccolta L’entretien infini riprende a sua volta la distinzione fra Torah scritta e orale, ed anche il motivo pirico che ci interessa: «È davvero affascinante il fatto che, in una certa tradizione del libro (come ci viene dalle formulazioni dei cabbalisti, anche se per loro si tratta di accreditare il significato mistico della presenza letterale), la cosiddetta “Torah scritta” abbia preceduto la “Torah orale”, e che quest’ultima abbia dato luogo più tardi alla versione redatta che da sola costituisce il Libro. […] Esistono due scritture, una bianca e l’altra nera, una che rende invisibile l’invisibilità di una fiamma senza colore, l’altra che la potenza del fuoco nero rende accessibile in forma di lettere, di caratteri e di articolazioni. Fra le due l’oralità, che non è tuttavia indipendente, essendo sempre mescolata alla seconda, giacché essa stessa è il fuoco nero, la misurata oscurità che limita, delimita e rende visibile ogni luce»[28]. La prossimità con i passi derridiani è tanto più singolare in quanto i rispettivi saggi sono apparsi su rivista contemporaneamente, il che rende improbabile l’influenza dell’uno sull’altro. In dialogo diretto con Derrida si pone invece Edmond Jabès, che in suo testo redatto sotto forma di lettera suggerisce appunto al filosofo che non si è finito di meditare sull’immagine dei due fuochi: «Ponendomi, a mia volta, la domanda bruciante: Cos’è il libro? trovo (offerta alle più pertinenti, alle più pressanti interrogazioni) questa risposta, suggerita da un rabbino cabbalista – che, glielo assicuro, ne sapeva più di quanto s’immagina su quel che oggi chiamiamo scrittura, o che forse non ne sapeva nulla, preoccupato com’era soprattutto di simbolismo, ma cosa importa? – e che, discostandomi dal suo originario significato mistico, sottopongo letteralmente alla sua riflessione: il Libro sarebbe ciò che “è inciso col nero del fuoco sul bianco del fuoco”. Fuoco nero su fuoco bianco. Consumazione senza fine della pergamena sacra e della pagina profana votate ai segni, come se ciò che è […] scritto fosse solo un gioco perpetrato dalle fiamme, fuochi di fuochi, “fuochi di parole” diceva lei in una recente intervista»[29]. Jabès allude a un colloquio del 1972 nel quale, a Lucette Finas che lo interrogava riguardo ai giochi di parole assai frequenti nei suoi testi, Derrida replicava appunto: «Non sono giochi di parole. Questo non mi ha mai interessato. Piuttosto, sono fuochi di parole»[30].

Leggendo queste righe, si ha l’impressione che ciò che il filosofo asserisce riguardo a Sollers valga anche per lui stesso Infatti, il riferimento di Derrida ai temi cabbalistici (nutrito soprattutto dalla lettura delle opere di Scholem) va rapportato al fatto che alcuni dei suoi testi degli anni Sessanta e Settanta teorizzano un proliferare illimitato dei significati, di contro a una più rassicurante polisemia: «La disseminazione […], per il fatto di produrre un numero non-finito di effetti semantici, non si lascia ricondurre né ad un presente originario semplice […] né a una presenza escatologica. Essa indica una molteplicità irriducibile e generativa. Il supplemento e la turbolenza di una certa mancanza fratturano il limite del testo, impediscono la sua formalizzazione esaustiva e chiudente o almeno la tassonomia saturante dei suoi temi, del suo significato, del suo voler-dire»[32]. L’impossibilità di ricondurre il discorso di Derrida a una gerarchizzazione e a una chiusura su se stessi dei significanti o dei significati (opposizione terminologica che, del resto, egli giudica contestabile) dovrebbe dunque, nelle sue intenzioni, fare tendenzialmente uscire tale discorso da ogni prospettiva metafisica e teologica. In quest’ottica, la Qabbalah, specie per la sua pratica di permutazione delle lettere, si configura come un corpus testuale non soltanto interessante sul piano culturale, ma anche riattivabile in una prospettiva extra-religiosa.
C’è stata un’occasione favorevole per un esame ravvicinato dei rapporti che si potrebbero stabilire tra le idee del filosofo francese e la mistica ebraica. Infatti quello che probabilmente è il più noto tra gli studiosi viventi della Qabbalah, Moshe Idel (allievo, ancorché dissidente, di Scholem), ha dedicato un saggio all’argomento[33]. Egli esordisce sottolineando, giustamente, l’importanza del dialogo che il filosofo francese ha intrattenuto con le opere di altri autori ebrei, del passato o contemporanei, fra i quali Freud, Benjamin, Levinas, Jabès e lo stesso Scholem[34]. Entra poi nel merito del pensiero derridiano, concentrandosi in primo luogo su uno specifico aspetto di esso, ossia sull’«affermazione che non c’è niente al di fuori del testo»[35].
Ma già qui sorgono dei dubbi riguardo all’effettiva comprensione, da parte sua, degli intenti del filosofo. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che la celebre formula «non c’è fuori-testo», usata da Derrida in De la grammatologie[36], non è in alcun modo interpretabile nel senso che tutto il reale può essere ridotto o ricondotto ai libri (e tantomeno a un Libro), bensì allude al fatto che nulla sfugge a quel meccanismo di differimento della presenza che Derrida indica con termini come «testo» o «scrittura». Esiste anzi, nel filosofo francese, una forte resistenza nei riguardi delle implicazioni metafisiche presenti nel concetto di libro: «L’idea del libro è l’idea di una totalità, finita o infinita, del significante; questa totalità del significante può essere ciò che è, una totalità, solo a condizione che una totalità costituita del significato le preesista, vigili sulla sua iscrizione e sui suoi segni, ne sia indipendente nella sua idealità. L’idea del libro, che rinvia sempre a una totalità naturale, è profondamente estranea al senso della scrittura. È la protezione enciclopedica della teologia e del logocentrismo contro l’azione dirompente della scrittura […]. Se distinguiamo il testo dal libro, diremo che la distruzione del libro, così come si annuncia oggi in tutti i campi, mette a nudo la superficie del testo»[37]. Quest’ultimo vocabolo risulta più adeguato ad indicare un sistema di tracce che rinviano l’una all’altra, e non sono dunque mai da ritenere semplicemente presenti. Offre inoltre il vantaggio di essere meno compromesso con la tradizione in genere, e con quella religiosa in specie.

Idel considera la Qabbalah come suscettibile di esercitare un influsso sulle idee che a suo giudizio sono tipiche del postmoderno, ambito a cui ascrive, indebitamente, lo stesso Derrida[40]. Così, la concezione cabbalistica dell’infinità dei significati del testo sarebbe soggetta ad un processo di secolarizzazione ancora in corso, in quanto filosofi come Gadamer o Derrida si mostrerebbero disposti a mantenerla, pur rinunciando alle sue premesse teologiche[41]. Probabilmente c’è del vero in ciò che afferma Idel, ma occorrerebbe analizzare meglio, senza assimilarle o confonderle, le due posizioni che egli evoca, assai diverse fra loro, ossia l’ermeneutica gadameriana e la decostruzione derridiana.
Lo studioso della mistica si sposta poi sul terreno che gli è più familiare, vale a dire la Qabbalah estatica, il cui maggiore rappresentante è Avraham Abulafia (1240-1291 circa)[42]. Quest’ultimo considerava la permutazione delle lettere dell’alfabeto ebraico come una forma di logica superiore rispetto a quella aristotelica, come una via per conseguire l’estasi mistica e come una tecnica utilizzabile nel campo dell’esegesi della Torah. Secondo Idel, «Derrida ha preso conoscenza di questa concezione di Abulafia attraverso la traduzione francese di Le grandi correnti della mistica ebraica di Scholem»[43]. Il filosofo novecentesco e il mistico medievale sarebbero accomunati dal fatto che entrambi «considerano il testo come un’entità dal significato instabile. Per Derrida, quest’instabilità è soprattutto di ordine semantico. […] In Abulafia, per contro, i nuovi significati del testo non risultano soltanto da associazioni inedite o da vocalizzazioni inedite che il lettore proietta sul testo, ma anche da manipolazioni preliminarmente operate sulle consonanti»[44]. Certo, il lavoro che Derrida, in quanto scrittore, compie sulla lingua è esente da implicazioni mistico-teurgiche, ma Idel avrebbe dovuto quanto meno precisare che ciò non impedisce al filosofo di dedicarsi a sperimentazioni sulla forma grafico-fonica dei vocaboli. Tra i molti indizi di ciò, possiamo ricordare ad esempio le catene di parole di suono analogo e senso diverso (semblant, sens blanc, sans blanc, cent blancs), l’insistenza su certi gruppi di lettere (si veda un minimo estratto da un testo: «traiter, triturer, traîner, tramer, tracer, traquer»), oppure la coniazione di neologismi che fondono fra loro più lessemi (économimesis, exappropriation, nostalgérie, animot)[45].
Dunque la tecnica mistica della combinazione delle lettere non è poi così lontana, almeno per certi aspetti, dai «fuochi di parole» cari a Derrida. Essi manifestano l’intento e il gusto di manipolare il linguaggio, ma implicano anche un preciso sottofondo concettuale e non sono mai – il filosofo ha ragione nel rivendicarlo – puramente ludici. Per quanto non sia assente una componente di gioco nello stile con cui Derrida redige i suoi testi, egli mantiene la coscienza del rischio di poter rimanere scottato. Sa infatti che le parole mettono in scena, in modo mai del tutto controllato o controllabile da chi ne fa uso, una propria danza ardente di sensi e di suoni. Nero o bianco che sia, il fuoco – come si legge in La dissémination – «scherza sempre col fuoco»[46].
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Note
[1] Cfr. ad esempio AA. VV., Judéités. Questions pour Jacques Derrida, Paris, Galilée, 2003 e Silvia Geraci, L’ultimo degli Ebrei. Jacques Derrida e l’eredità di Abramo, Milano-Udine, Mimesis, 2010.
[2] Il saggio era apparso dapprima in «Critique», 261-262, 1969, ed è stato poi ripreso nel volume dallo stesso titolo, La dissémination, Paris, Éditions du Seuil, 1972, pp. 319-407 (tr. it. in La disseminazione, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 301-370).
[3] Philippe Sollers, Nombres, Paris, Éditions du Seuil, 1968 (tr. it. Numeri, Torino, Einaudi, 1973).
[4] G. Neri, postfazione senza titolo all’edizione italiana citata, p. 134.
[5] Ricordiamo per inciso che anche il titolo del saggio di Derrida può essere inteso come desunto da Nombres, visto che l’espressione «la dissémination» compare nel romanzo alle pp. 61 e 71 (tr. it. pp. 61 e 72).
[6] La dissémination, cit., p. 380 (tr. it. pp. 349-350; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[7] Sefer yesirah, nella raccolta Mistica ebraica, tr. it. Torino, Einaudi, 1995, p. 38.
[8] Cfr. la più ampia antologia disponibile in italiano: Zohar. Il libro dello splendore, Torino, Einaudi, 2008. Per un compendio storico delle varie fasi della Qabbalah, si veda il classico studio di Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica (1941), tr. it. Torino, Einaudi, 1993.
[9] Esodo, 13, 20-21, in La Sacra Bibbia, tr. it. Milano, Garzanti, 1964, p. 121; cfr. anche 33, 9-10, ibid., p. 145.
[10] Cfr. ad esempio Zohar, cit., pp. 35, 83-84, 165, 169, 214, 241, 248, 393-394.
[11] Il libro a cui alludiamo è G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo (1960), tr. it. Torino, Einaudi, 1980 (Derrida poteva leggere l’edizione francese: La Kabbale et sa symbolique, Paris, Payot, 1966).
[12] Cfr. Sefer yesirah, cit., pp. 35-36.
[13] La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., p. 128.
[14] Ibid., p. 131.
[15] La dissémination, cit., pp. 382-383 (tr. it. p. 351). Per i passi sollersiani, cfr. Nombres, cit., pp. 58 e 117 (tr. it. pp. 59 e 121). La formula «spiegazione orfica della terra» proviene da Mallarmé, che la usa in una lettera a Paul Verlaine del 16 novembre 1885; cfr. Stéphane Mallarmé, Œuvres complètes, I, Paris, Gallimard, 1998, p. 788 (tr. it. in Tutte le poesie e prose scelte, Parma, Guanda, 1966, p. 327).
[16] La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., pp. 140-141.
[17] La dissémination, cit., p. 381 (tr. it. p. 350). La frase sollersiana in corsivo è da Nombres, cit., p. 59 (tr. it. p. 60).
[18] Ibid., p. 383 (tr. it. p. 352).
[19] M.-A. Ouaknin, Le Livre brûlé. Philosophie du Talmud, Paris, Lieu Commun, 1986; Paris, Éditions du Seuil, 1994, p. 121 (tr. it. Il Libro bruciato. Filosofia della tradizione ebraica, Genova, ECIG, 2000, p. 116). Per il passo da lui citato, Ouaknin rinvia a una raccolta haggadica, Yalqut Shim’oni, ma anche ai trattati Sotah e Sheqalim del Talmud di Gerusalemme; altri riferimenti si trovano in Giulio Busi, Introduzione a Mistica ebraica, cit., pp. XXXV-XXXVI (in questo volume, cfr. le pp. 337 e 465). Il versetto biblico è da Deuteronomio, 33, 2 (in La Sacra Bibbia, cit., p. 283), dove però di Jahweh si dice semplicemente: «Dalla sua destra lampeggiano fiamme».
[20] La frase di Nahmanide è riportata in La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., p. 51.
[21] Zohar, cit., p. 132 (cfr. anche ibid., p. 335).
[22] La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., p. 62.
[23] Frase citata ibid., p. 64.
[24] Ibid., pp. 64-65.
[25] Ibid., pp. 104-105.
[26] Cfr. C. Bloch, Storie chassidiche (1929), tr. it. Roma-Napoli, Theoria, 1991, p. 67 e M. Buber, I racconti dei chassidim (1949), in Storie e leggende chassidiche, tr. it. Milano, Mondadori, 2008, p. 769.
[27] C. Bloch, op. cit., p. 238 (la storia non compare nella raccolta di Buber).
[28] M. Blanchot, L’absence de livre, in «L’Éphémère», 10, 1969, ripreso in L’entretien infini, Paris, Gallimard, 1969; 1986, pp. 630-631 (tr. it. L’assenza di libro, in L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, p. 571).
[29] E. Jabès, Lettre à Jacques Derrida sur «La question du livre», in Ça suit son cours (Le Livre des Marges, I), Montpellier, Fata Morgana, 1975, p. 54 (tr. it. Lettera a Jacques Derrida su «La questione del libro», in Il libro dei margini, Firenze, Sansoni, 1986, p. 44). Come si capisce dal titolo, la missiva dello scrittore risponde idealmente al saggio derridiano Edmond Jabès et la question du livre, in L’écriture et la différence, Paris, Éditions du Seuil, 1967, pp. 99-116 (tr. it. Edmond Jabès e la interrogazione del libro, in La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971, pp. 81-97).
[30] J. Derrida, «Avoir l’oreille de la philosophie», in AA. VV., Écarts, Paris, Fayard, 1973, p. 311 (tr. it. «Aver l’orecchio della filosofia», in appendice a J. Derrida, Posizioni, Verona, Bertani, 1975, p. 141).
[31] La dissémination, cit., p. 383 (tr. it. p. 352).
[32] J. Derrida, Positions, Paris, Éditions de Minuit, 1972, p. 62 (tr. it. Posizioni, cit., p. 80).
[33] M. Idel, Jacques Derrida et les sources kabbalistiques, tr. fr. in AA. VV., Judéités, cit., pp. 133-156.
[34] Su quest’ultimo, cfr. J. Derrida, Les yeux de la langue, Paris, Éditions de l’Herne, 2005; poi, col titolo Les Yeux de la langue. L’abîme et le volcan, Paris, Galilée, 2012 (tr. it. Gli occhi della lingua, Milano-Udine, Mimesis, 2011).
[35] Jacques Derrida et les sources kabbalistiques, cit., p. 134.
[36] J. Derrida, De la grammatologie, Paris, Éditions de Minuit, 1967, p. 227 (tr. it. Della grammatologia, Milano, Jaca Book, 1969, p. 182).
[37] Ibid., pp. 30-31 (tr. it. pp. 21-22).
[38] Jacques Derrida et les sources kabbalistiques, cit., p. 139.
[39] Ibid., p. 140.
[40] È noto che il filosofo francese considera con ironia i vari «post-ismi», tra cui il postmoderno, come si vede dal suo saggio Some statements and truisms about neologisms, newisms, postisms, parasitisms, and others small seisms (1990), in AA. VV., Derrida d’ici, Derrida de là, Paris, Galilée, 2009, pp. 223-252 (tr. it. col titolo Come non essere postmoderni. «Post», «neo» e altri ismi, Milano, Medusa, 2002).
[41] Cfr. Jacques Derrida et les sources kabbalistiques, cit., p. 143.
[42] Di Idel, si vedano i due volumi L’esperienza mistica in Abraham Abulafia (1987), tr. it. Milano, Jaca Book, 1992, e Qabbalah. Nuove prospettive (1988), tr. it. Milano, Adelphi, 2010.
[43] Jacques Derrida et les sources kabbalistiques, cit., pp. 145-146. Cfr. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, cit., pp. 133-166 (la traduzione francese è Les grands courants de la mystique juive, Paris, Payot, 1950), nonché Avraham Abulafia, I sette sentieri della Torah, in Mistica ebraica, cit., pp. 373-414.
[44] Jacques Derrida et les sources kabbalistiques, cit., p. 147.
[45] Il breve passo fra virgolette è da J. Derrida, + R (par-dessus le marché), in La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978, p. 171 (tr. it. + R (al di sopra del mercato), in La verità in pittura, Roma, Newton Compton, 1981, p. 143).
[46] La dissémination, cit., p. 406 (tr. it. p. 370). La frase «Le feu joue toujours avec le feu» si può tradurre anche: «Il fuoco gioca sempre col fuoco».
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