Ristampato “I
giacobini neri”, il magnifico libro in cui "Siellar" James, marxista nero di
Trinidad, ricostruisce la storia della rivoluzione haitiana del 1791
e del suo capo Toussaint Louverture. Il libro, uscito nel 1938 (e
tradotto in italiano nel 1968) è una riflessione lucidissima su
potenzialità e limiti delle rivoluzioni anticoloniali.
Andrea Colombo
Schiavi senza colore
A ricordarlo oggi,
quando il solo nome di Haiti è sinonimo di miseria
e arretratezza, pare incredibile, ma alla
vigilia della Rivoluzione francese quella che
allora si chiamava Sainte-Domingue era la colonia più
ricca del mondo: tanto da far dire ai governanti inglesi che
strapparla alla Francia avrebbe compensato con
gli interessi la recente perdita del Nord America. Ci
cresceva di tutto ma soprattutto caffè e zucchero,
merci preziose. A coltivarle erano gli schiavi
che arrivavano in catene dall’Africa sulle navi negriere,
a botte di decine di migliaia l’anno.
Lo schiavismo
dal volto umano è esistito solo nelle bugie dei
piantatori e nelle fantasie nostalgiche
di Margaret Mitchell, ma in alcuni Paesi era più
atroce che in altri e in nessuno come a Sainte-Domingue.
Riempire il culo dei neri con polvere da sparo e poi
farli esplodere era un giocondo e abituale
passatempo, seppellirli fino al collo con ferite
aperte per attrarre insetti famelici una punizione
consueta per sgarri anche minimi.
Proprio l’altissimo
tasso di mortalità tra gli schiavi rendeva
l’importazione fiorente: 40mila ogni anno nella fase
immediatamente precedente il 1789, quando
Sainte-Domingue, in piena espansione, era quasi la sola voce
positiva dell’economia francese.
La popolazione era divisa in tre colori e quattro classi sociali. I bianchi, 40mila o poco meno, si dividevano in una minoranza di Grands Blancs, i proprietari delle piantagioni, e Petits Blancs, in parte artigiani ma soprattutto sottoproletariato urbano, poveri ma superiori ai neri e alla gens de couleur, i meticci, per il colore della pelle. I 27mila mulatti, gerarchicamente segmentati in 64 gradazioni di colore a seconda della percentuale di sangue nero nelle vene, erano spesso molto più ricchi dei Petits Blancs ma del tutto privi di diritti civili e politici.
In fondo alla piramide c’erano quasi 500mila schiavi neri per i quali la parola «diritti» non aveva senso alcuno. I piccoli bianchi erano in conflitto con i mulatti: ne invidiavano la ricchezza. I proprietari avevano ingaggiato un braccio di ferro con la madre patria: l’imposizione di commerciare in esclusiva con la Francia gli andava stretta. L’Inghilterra aspettava l’occasione per impadronirsi dell’isola del tesoro. La Spagna, padrona dell’altra metà dell’isola chiamata da Colombo Hispaniola, covava la stessa bramosia.
Il nome indio
La Rivoluzione in Francia fece esplodere tutte le tensioni insieme. Nella notte del 22 agosto 1791 gli schiavi insorsero mettendo a ferro e fuoco l’isola. Non era la prima sollevazione di schiavi nella storia: sarebbe stata l’unica a vincere. Dopo quattordici anni di guerra prima civile, poi con la Spagna, l’Inghilterra e infine con la stessa Francia, Sainte-Domingue, tornata al nome indio di Haiti, sarebbe diventata la prima colonia del Terzo Mondo a conquistare l’indipendenza.
La storia della rivoluzione degli schiavi e del suo comandante, Toussaint Louverture, è stata scritta molte volte, a partire da metà del XIX secolo. Lo scrittore americano Madison Smartt Bell la ha raccontata in una magnifica trilogia, edita in Italia da Alet, forse il principale romanzo storico moderno. Due anni fa persino la televisione francese ha dedicato a Toussaint una mini serie e nel 2009 Wyclef Jean, ex Fugees, nato ad Haiti, ha reinventato il condottiero nero, chiamandolo Toussaint St. Jean, in uno dei suoi cd migliori: From the Hut, To the Projects, To the Mansion.
I nuovi e numerosi
studi hanno messo in evidenza aspetti in precedenza
poco considerati: l’importanza della rivolta
spontanea nel Sud del Paese, il ruolo del culto voodoo
(che Toussaint, cattolico, aveva proibito). Però,
a 77 anni dalla sua pubblicazione, resta
insuperato, per la profondità dell’analisi,
l’acume delle intuizioni e la capacità di
affrontare nodi modernissimi, I giacobini
neri, il saggio storico dedicato a Toussaint
e alla rivoluzione haitiana da C.L.R. James,
ripubblicato ora da DeriveApprodi.
James, nero di Trinidad, giornalista, storico marxista, comunista anti stalinista, parla di Haiti ma guarda a tutte le rivolte anticoloniali che andavano allora maturando. Scopre e anticipa i nodi, le contraddizioni e i rischi delle rivoluzioni in un Terzo Mondo visto dall’interno e con appassionata partecipazione, senza cedere al terzomondismo che avrebbe affascinato e confuso la mente di tanti epigoni nei decenni successivi.
James guarda alle lotte
di liberazione nazionale prossime venture
senza mai mettere la linea del colore o del riscatto
nazionale (figurarsi poi quella dell’identità
religiosa) in rilievo rispetto alla connotazione
di classe. Il rischio che le due linee di forza rivoluzionaria,
invece che in sinergia, entrino in tensione
e contraddizione non gli sfugge. Fa parte della
grandezza di Toussaint l’averle sapute, sino a un
certo punto, coniugare. Per James quel che conta non è il
colore, ma la collocazione sociale.
I pochi neri liberi (com’era peraltro lo stesso Toussaint) fecero puntualmente fronte comune con i mulatti e non con la massa degli schiavi, che nella geografia sociale di Sainte-Domingue erano la vera forza lavoro. Le stesse continue alleanze trasversali furono dettate sempre e solo dall’interesse economico delle diverse fasce sociali, che s’identificavano essenzialmente, ma non sempre, con il colore.
Che tuttavia,
in una società razzista, restava determinante,
proprio come, più tardi, la componente di
indipendentismo nazionale nelle colonie.
Il principale errore di Toussaint fu, secondo James,
proprio l’aver perso di vista, nell’ultima fase della sua
dittatura, l’importanza di questo elemento,
sacrificato alla necessità di coniugare la
liberazione degli schiavi con la ricostruzione
economica del Paese, affidata in parte ai bianchi.
Il centro della
narrazione è giocoforza Toussaint
Louverture, il genio politico e militare che
sconfisse i mulatti, gli spagnoli e gli inglesi,
conquistò tutta l’isola, diede forma rivoluzionaria
a quella che probabilmente sarebbe stata senza di
lui solo una rivolta di schiavi, costruì la base per un Paese libero
che, se il generale nero non fosse stato sconfitto, sarebbe
stato molto diverso da quel che è poi diventata Haiti.
L’ammirazione di James per «lo Spartaco nero» è incondizionata, ma le critiche restano puntuali e acuminate. Toussaint era consapevole di aver bisogno dei bianchi. Non li amava, né li odiava. Li temeva e non se ne fidava, ma sapeva che senza il loro bagaglio culturale e senza la loro esperienza Sainte-Domingue sarebbe stata perduta. Credeva nella Francia rivoluzionaria, e non si accorse per tempo che la breve parentesi giacobina e più ancora sanculotta si era chiusa.
Quando, ormai padrone
incontrastato di tutta Sainte-Domingue, per difendere
i bianchi tornati a gestire le piantagioni,
senza più schiavismo ma con una disciplina rigida,
condannò a morte il più brillante e popolare
dei suoi generali, il nipote Moise, Toussaint decretò la
propria rovina.
Quando poco dopo,
a fronte dell’invasione francese, non ebbe la prontezza
di riconoscere nella Francia il nemico, e dunque
esitò, evitò di schierarsi per l’indipendenza e cercò
fino all’ultimo di mantenere aperto un dialogo, si
condannò alla deportazione in Europa e alla
prigionia nella tetra e gelida prigione di
Fort-de-Joux, dove morì dopo pochi mesi nel 1803.
Errori fatali
Toussaint sbagliò,
ma per lungimiranza non per miopia.
Dessalines, il generale feroce col corpo coperto
dai segni delle frustate ricevute da schiavo, era l’uomo
adatto per portare a compimento la rivoluzione.
Sbaragliò i francesi, proclamò
l’indipendenza del Paese a cui restituì il suo antico
nome, si proclamò imperatore, ordinò (su spinta
della civile Gran Bretagna) lo sterminio di tutti
i bianchi.
Ma Dessalines non poteva ricostruire Haiti, né riportarla all’antica ricchezza. Toussaint avrebbe potuto, ma per provarci aveva dovuto lasciare spazio, pur senza fidarsene, a quelli che miravano solo a ripristinare lo schiavismo e aveva perso così la connessione con il suo popolo in armi. Il suo dilemma, riconosce James, era tragico e non dissimile da quelli con cui si trovò alle prese Lenin dopo la presa del potere e nei giorni di Kronstadt.
Con tutte le loro
astuzie e i frequenti cambi di campo, né Toussaint,
né Dessalines, né Moise avrebbero mai
accettato il ritorno dello schiavismo a cui
mirava Bonaparte. Ma per Dessalines l’obiettivo
non andava oltre, mentre Toussaint era davvero un uomo
della Rivoluzione francese, intesa nella sua
accezione più giacobina, e Moise sarebbe forse
stato l’unico capace di andare oltre e intendere la
Rivoluzione degli schiavi come sociale
e consapevolmente di classe. Anche per
questo sacrificarlo fu, secondo James, lo sbaglio
più imperdonabile e dalle conseguenze
disastrose di Toussaint.
I giacobini
neri è un magnifico libro di storia e, insieme, un
attualissimo saggio di teoria politica
rivoluzionaria. Oggi, e probabilmente
per molto tempo ancora, è impossibile leggerlo
senza ritrovarsi negli occhi l’immagine di quella «storica»
manifestazione parigina seguita alla stragi
jihadiste nella redazione e nel supermercato.
Alla testa c’era un manipolo di uomini di potere non meno
cinici e rapaci di quelli con cui dovette vedersela
Toussaint, pronti a esaltare i valori della
Rivoluzione francese contrabbandandoli
come «universali», ma solo dopo averli depurati
dall’ombra sgraziata e scomoda dei sanculotti
e persino dello stesso Robespierre.
Dall’altra parte, un
Terzo Mondo, ormai spesso interno al Primo, sbandato
e smarrito, infiammato da un’oscura identità
religiosa, incapace di riconoscere le radici
sociali della propria disperazione. E intorno il
coro unanime e bugiardo dei pensatori di corte,
indignato e furibondo (giustamente) con gli
jihadisti, ma al fondo contentissimo di
doversi misurare con i tagliagole della Shari’ah
invece che con una rivolta di classe come, con tutti i suoi
errori, fu quella di Toussaint e del suo esercito
rivoluzionario di schiavi ribelli.
Il manifesto – 20
gennaio 2015
Nessun commento:
Posta un commento