04 aprile 2014

LA STORIA DELL'OPERAIO CHE ACQUISTO' UN GAUGUIN




Una storia da film, a dimostrazione che la realtà spesso può superare la fantasia. 

Philippe Daverio

Dialogo tra un critico d’arte e l’operaio che comprò Gauguin
Caso Gauguin/Bonnard in «collezione privata» siciliana. Non ho potuto trattenermi dal chiamare i fortunati proprietari. C’è chi compera arte perché crede che valga, in quanto il valore viene garantito dalle case d’asta e dal mercato internazionale. Le follie del genere «pescecane in formaldeide» di Damien Hirst ne sono ottimo esempio. Roba che costa 15 milioni di euro e poi rischia di decomporsi durante uno spostamento. C’è chi compera perché è affascinato dall’opera, al di là del prezzo.

È ciò che ha fatto per tutta la sua vita un operaio Fiat di Torino, andando alle aste, scegliendo soprattutto fra quelle povere, quelle dove le Ferrovie dello Stato mettono in vendita gli oggetti smarriti dopo che per lungo tempo nessuno ne ha rivendicato la proprietà. L’operaio Fiat era addetto alla verifica dei pezzi di precisione dei motori.

Ho sempre pensato che vi è una intelligenza particolare nel capire l’arte da parte di chi ha una buona conoscenza tecnica del lavoro. In fondo Sergio Rossi, l’uomo che inventò il Comau, la fabbrica per la robotizzazione delle catene di produzione, sosteneva d’essere anche lui solo un operaio specializzato e capiva l’arte di primo acchito, senza fronzoli mentali: lo vidi personalmente acquistare capolavori senza istruzioni supplementari, valutandone solo l’intima qualità.

Anche l’operaio siciliano acquistava all’asta oggetti scientifici, macchine fotografiche o bastoni da passeggio dimenticati in treno. E già che c’era s’è comperato anche due dipinti di bell’aspetto per i quali nel 1975 spese all’asta delle Ferrovie, in via Sacchi 61 dietro Porta Nuova, a Torino, alcune decine di migliaia di lire: acquisto per puro piacere di opere da appendere al muro di casa.

E intanto cresce i figli: il maschio è iscritto alla facoltà di architettura di Siracusa, la sorella si è appena laureata in scienza della comunicazione e poi specializzata in graphic design . Il figlio, a vanto del fatto che l’università contribuisce tuttora a formare il gusto, s’accorge che si tratta di opere degne d’attenzione e quindi di studio. Le studia effettivamente, ne decifra le scritte e scopre che la natura morta ha tutte le caratteristiche di Gauguin mentre l’altro dipinto sembra essere di Bonnard.

Con questi dipinti era cresciuto, li aveva guardati mentre studiava al liceo artistico, Bonnard gli sembrava «Bonnato», però gli appariva come lavoro di qualità. La dedica in francese alla «comtesse de…» era più misteriosa, assieme al cagnolino stilizzato. Il babbo questo cagnolino lo trovava affascinante fino al punto di disegnarlo. Aveva portato il figlio alle mostre, e nel libro delle firme posto all’uscita si firmava spesso disegnando il cagnolino. Il figlio poi colleziona libri, sulle bancarelle, e trova una biografia di Bonnard, la scoperta per lui d’un autore nuovo. Lo sfoglia col padre, il Fratelli Fabbri Editore, e scopre che la foto di Bonnard corrisponde al quadro appeso in casa, stessa poltrona e poi stessa firma.

Ma se l’uno è Bonnard, l’altro che cosa può essere? La calligrafia della dedica e quella della data corrispondono a Gauguin, basta guardare su Internet, e qui nella Rete si trova lo stesso cagnolino. Copie? Falsi? Le tele erano state acquistate, tolte dal telaio e poi poste su un telaio nuovo. E così padre e figlio tornano alla ricerca della verità. Chiamano la Sovrintendenza, la quale dice che non vuole perdere tempo. Intanto passano anni. E loro passano per mitomani. Un amico archeologo suggerisce di mettersi in contatto con il ministero dei Beni culturali, a Roma. I carabinieri li hanno informati della storia del furto in Inghilterra, e hanno posto le opere sotto custodia.

In teoria le opere appartengono a loro, i nuovi possessori, in quanto hanno acquistato in buona fede al secondo passaggio di proprietà. Il babbo fa sculture, il figlio dipinge. Se li meritano. Sono veri cattolici e come tali non accendono ceri alla Madonna. Il babbo ha una pensione di 1.500 euro al mese. Il valore dei dipinti corrisponde circa a duemila anni di pensione.


Il Corriere della sera – 4 aprile 2014

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