Una storia da film, a dimostrazione
che la realtà spesso può superare la fantasia.
Philippe Daverio
Dialogo tra
un critico d’arte e l’operaio che comprò Gauguin
Caso
Gauguin/Bonnard in «collezione privata» siciliana. Non ho
potuto trattenermi dal chiamare i fortunati proprietari. C’è
chi compera arte perché crede che valga, in quanto il valore
viene garantito dalle case d’asta e dal mercato
internazionale. Le follie del genere «pescecane in
formaldeide» di Damien Hirst ne sono ottimo esempio. Roba che
costa 15 milioni di euro e poi rischia di decomporsi durante
uno spostamento. C’è chi compera perché è affascinato
dall’opera, al di là del prezzo.
È ciò che ha
fatto per tutta la sua vita un operaio Fiat di Torino, andando
alle aste, scegliendo soprattutto fra quelle povere, quelle
dove le Ferrovie dello Stato mettono in vendita gli oggetti
smarriti dopo che per lungo tempo nessuno ne ha rivendicato la
proprietà. L’operaio Fiat era addetto alla verifica dei
pezzi di precisione dei motori.
Ho sempre pensato
che vi è una intelligenza particolare nel capire l’arte da
parte di chi ha una buona conoscenza tecnica del lavoro. In
fondo Sergio Rossi, l’uomo che inventò il Comau, la fabbrica
per la robotizzazione delle catene di produzione, sosteneva
d’essere anche lui solo un operaio specializzato e capiva
l’arte di primo acchito, senza fronzoli mentali: lo vidi
personalmente acquistare capolavori senza istruzioni
supplementari, valutandone solo l’intima qualità.
Anche l’operaio
siciliano acquistava all’asta oggetti scientifici, macchine
fotografiche o bastoni da passeggio dimenticati in treno. E già
che c’era s’è comperato anche due dipinti di bell’aspetto
per i quali nel 1975 spese all’asta delle Ferrovie, in via
Sacchi 61 dietro Porta Nuova, a Torino, alcune decine di
migliaia di lire: acquisto per puro piacere di opere da
appendere al muro di casa.
E intanto cresce i
figli: il maschio è iscritto alla facoltà di architettura di
Siracusa, la sorella si è appena laureata in scienza della
comunicazione e poi specializzata in graphic design . Il
figlio, a vanto del fatto che l’università contribuisce
tuttora a formare il gusto, s’accorge che si tratta di opere
degne d’attenzione e quindi di studio. Le studia
effettivamente, ne decifra le scritte e scopre che la natura
morta ha tutte le caratteristiche di Gauguin mentre l’altro
dipinto sembra essere di Bonnard.
Con questi dipinti
era cresciuto, li aveva guardati mentre studiava al liceo
artistico, Bonnard gli sembrava «Bonnato», però gli appariva
come lavoro di qualità. La dedica in francese alla «comtesse
de…» era più misteriosa, assieme al cagnolino stilizzato.
Il babbo questo cagnolino lo trovava affascinante fino al punto
di disegnarlo. Aveva portato il figlio alle mostre, e nel libro
delle firme posto all’uscita si firmava spesso disegnando il
cagnolino. Il figlio poi colleziona libri, sulle bancarelle, e
trova una biografia di Bonnard, la scoperta per lui d’un
autore nuovo. Lo sfoglia col padre, il Fratelli Fabbri Editore,
e scopre che la foto di Bonnard corrisponde al quadro appeso in
casa, stessa poltrona e poi stessa firma.
Ma se l’uno è
Bonnard, l’altro che cosa può essere? La calligrafia della
dedica e quella della data corrispondono a Gauguin, basta
guardare su Internet, e qui nella Rete si trova lo stesso
cagnolino. Copie? Falsi? Le tele erano state acquistate, tolte
dal telaio e poi poste su un telaio nuovo. E così padre e
figlio tornano alla ricerca della verità. Chiamano la
Sovrintendenza, la quale dice che non vuole perdere tempo.
Intanto passano anni. E loro passano per mitomani. Un amico
archeologo suggerisce di mettersi in contatto con il ministero
dei Beni culturali, a Roma. I carabinieri li hanno informati
della storia del furto in Inghilterra, e hanno posto le opere
sotto custodia.
In teoria le opere
appartengono a loro, i nuovi possessori, in quanto hanno
acquistato in buona fede al secondo passaggio di proprietà. Il
babbo fa sculture, il figlio dipinge. Se li meritano. Sono veri
cattolici e come tali non accendono ceri alla Madonna. Il babbo
ha una pensione di 1.500 euro al mese. Il valore dei dipinti
corrisponde circa a duemila anni di pensione.
Il
Corriere della sera – 4 aprile 2014
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