Precarietà
di Rino Genovese
Tra le più maledette al mondo è la
condizione precaria. “E non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe”:
così un verso di Clemente Rebora citato in epigrafe a uno dei saggi più
importanti compresi nella nuova raccolta di Antonio Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento (di cui si può vedere qui la prefazione di Nicola Lagioia). Come dire che il precario è un non-morto, uno zombi.
Da un’inchiesta apparsa su “Le Monde”
(26-27 ottobre 2014) riguardo alla ripresa economica in Gran Bretagna
basata sulla massima flessibilità, apprendo dei contratti “a zero ore”,
una forma estrema di lavoro interinale in cui non è garantito alcun
orario, quindi neppure un salario. A Liverpool, nella biscotteria
Jacob’s, ci sono 830 lavoratori permanenti ai quali si aggiungono fino a
250 operai messi a disposizione da un’agenzia soprattutto nei periodi
in cui le scatole di biscotti si vendono bene, come in prossimità delle
feste di fine anno. Il salario minimo versato dall’agenzia è di sei
sterline e mezzo all’ora (8,20 euro), cioè due sterline in meno di ciò
che riceve per le stesse mansioni la mano d’opera stabilmente occupata.
Ma il punto non è questo. La condizione precaria non è caratterizzata
dal guadagnare di meno; consiste nel non poter vivere. Il lavoratore a
zero ore è legato al suo telefono come quello della fabbrica fordista lo
era alla catena di montaggio. Quando arriva la chiamata deve
presentarsi anche nel giro di un’ora. L’attesa gli beve il resto del
tempo. Non può mai allontanarsi e perciò non fa altro che sopravvivere. È
una nuova schiavitù, contro cui però l’opposizione laburista –
consapevole del fatto che tra il 2011 e il 2014 il tasso di
disoccupazione si è abbassato di due punti in Gran Bretagna grazie alla
flessibilità – non si batte in maniera frontale, limitandosi a proporre
d’instaurare il diritto a un orario minimo dopo un certo periodo
d’impiego a zero ore (insomma un contratto “a tutele crescenti” – vi
ricorda qualcosa quest’espressione? non vi sembra di averla sentita di
recente in Italia?).
Ritorno allora a Tricomi, che di
mestiere non fa l’operaio in un biscottificio ma il critico letterario.
Giovane per età anagrafica fino a poco tempo fa, il mio amico è uno che
non ha mai goduto i “fiori della giovinezza” per citare Mimnermo (“Come
le foglie che fa germogliare la primavera / ricca di fiori, appena
cominciano a crescere ai raggi del sole / noi, simili ad esse, per un
tempo brevissimo godiamo / i fiori della giovinezza […]”), cioè il
lirico greco probabilmente alle spalle dei celebri versi di Ungaretti:
“Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie”. Tricomi, che è
sempre stato un precario, non né un ragazzo né un uomo maturo, né un
giovane né un vecchio. Non può conoscere la caducità del vivente, il suo correre verso la morte, per la semplice ragione che del vivente ha esperito solo la precarietà,
appunto. Una condizione che rende molto diversa l’esistenza odierna da
quell’essere-per-la-morte che Heidegger aveva teorizzato nel rovente
clima industriale (e bellico) della propria epoca.
Precarietà come impossibilità della
caducità, dunque. Nella distinzione, o addirittura nella
contrapposizione tra le due, si può leggere la cifra esistenziale del
nostro tempo. Il lavoratore con il suo posto fisso muore a poco a poco,
il precario semplicemente non vive. Ma in quanto non-morto è proiettato
verso una sorta d’immortalità. La sua condizione si eternizza. Non ha un
ciclo, un passato, un futuro: ha soltanto un eterno presente. Alla sua
situazione può essere avvicinata quella del migrante, che del resto,
quando trova un lavoro, si trasforma per lo più proprio in un precario.
In pagine rischiosissime per quanto sono sincere, Tricomi si autodescrive come quel lavoratore intellettuale stabilmente precario
che attende una chiamata a scuola per supplenze non si sa quanto
lunghe, che si muove velocemente in auto da una sede universitaria
all’altra per corsi di tre mesi pagati pochi spiccioli, che scrive
recensioni remunerate anche peggio per mediocri giornali da cui riceve
pacchi di libri da sbrigare in poche ore. È il primo autoritratto,
dall’interno, di un determinato destino intellettuale che mi sia dato di
leggere. E la cosa ha tanto più valore in quanto Tricomi, definendosi
nonostante tutto un privilegiato, dichiara di poter condurre l’esistenza
che conduce soltanto perché può avvalersi di un piccolo patrimonio
familiare. Essere precari, sentirsi fino in fondo tali, ed essere al
tempo stesso benestanti – mi sembra sia qualcosa che possa accadere
unicamente nello strano paese chiamato Italia.
Qui da decenni, infatti, per non dire da
secoli, uno sviluppo ancorato al privato, incentrato sulla famiglia, ha
consentito ad ampi settori di classe media di mettere da parte risorse
anche cospicue. Su che cosa credete che stia campando il paese da anni
in recessione se non sui soldi accumulati nel tempo? Tuttavia ciò
implica una cancellazione dei giovani, tenuti ai margini del mondo del
lavoro e condannati a restare in perpetuo dei figli. È un discorso – se
si vuole una protesta – fortemente generazionale quello intrapreso da
Tricomi (non solo nell’ultimo libro ma anche nel precedente La Repubblica delle lettere).
Lui ha incontrato la tematica dell’assenza del padre, del venir meno
della Legge, cioè dell’impossibilità di una maturazione giovanile, come
un vissuto proprio della condizione precaria: è l’orfanezza di
cui parla in un modo a tratti accorato: essa non consiste nell’essere
rimasti senza genitori da piccoli, ma nell’avere avuto i genitori in una
forma non giusta, che fa sentire sradicati di fatto.
Un altro amico all’incirca coetaneo di
Tricomi, intellettuale disoccupato mantenuto dal padre facoltoso
commerciante, così una volta pressappoco gli diceva: “Avete voluto un
paese fondato sull’evasione fiscale? bene, adesso non potete lamentarvi
del fatto che nelle scuole e nelle università non ci siano posti se non
per pochissimi e malpagati, perché questa è la vostra Italia, e in
questa, caro babbo, sei costretto a mantenermi”. Di che orfanezza si
parla, allora? Si tratta di un “nemico” che non c’è più, di una frizione
ormai impossibile con la figura parentale dominante, con l’autorità. Il
che impedisce d’invecchiare: cioè, per quanto dicevo prima, sia di
gustare i frutti della giovinezza sia di vederli svanire.
Inutile che io – vent’anni più vecchio
di questi tardi giovani – mi sforzi di far comprendere che non si stava
affatto meglio quando si stava peggio, quando il principio di autorità
implicava ancora cinghia e punizioni, e la scuola era un piccolo inferno
di disciplina idiota. I miei amici riluttano al passaggio
dall’orfanezza all’aperto dandysmo intellettuale e all’impegno scettico:
ossia da quello che è in fondo un radicatissimo sradicamento a un altro
più effettivo in se stesso pacificato, privo di nostalgia per un
passato che essi abbelliscono perché non l’hanno vissuto. Sono dei
conservatori, anche se naturalmente dei conservatori di sinistra.
E in una prospettiva tutto sommato
conservatrice può essere collocato anche il rapporto intrattenuto da
Tricomi con la tradizione umanistica, intendendo con questa non soltanto
quella delle lettere e delle arti ma, in generale, l’afflato
universalistico della cultura occidentale tanto religiosa quanto laica.
Dopotutto, se siamo al punto in cui siamo (qualunque sia questo punto),
ciò è una conseguenza di un passato “umanistico” che non ha saputo
essere all’altezza delle sue promesse. Senza entrare qui nelle obiezioni
antiumanistiche che da varie parti della filosofia contemporanea sono
state sollevate, basti dire che già da semplice liceale imparai a
diffidare della retorica, che di quella tradizione è parte non
secondaria, sebbene riconosca come una certa competenza nel servirsi dei
suoi strumenti sia indispensabile per comunicare con qualche chiarezza
il proprio pensiero. Vedo anch’io in giro parecchia ignoranza e
incapacità di usare i mezzi che il sistema educativo dovrebbe mettere a
disposizione. Ma lamentarsi del decadimento, come fa Tricomi quando da
insegnante ha a che fare con ragazzi più giovani di lui di vent’anni,
non è in fin dei conti sbagliato? A me ricorda l’anziano professore di
latino, o la signora della piccola borghesia, che si scandalizzavano per
la perdita di terreno della tradizione umanistica nella scuola
dell’obbligo da poco unificata ed estesa ai figli degli operai e dei
contadini. Il processo che ha condotto a una sorta di analfabetismo
diffuso è lo stesso che ha portato grandi masse all’alfabetizzazione.
Bisogna soffrire per questo? O non si deve stare, nonostante tutto, con i
tempi nuovi che permettono a chiunque di inviare mediante i telefoni e i
computer messaggi forse sgrammaticati, ma che rendono la comunicazione
scritta qualcosa di vivo, di non riservato ai quattro gatti del passato?
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