Giovani, vecchi e l’eterna malattia generazionale
Il mondo che abbiamo davanti e che ci appare inabitabile, sarà tuttavia abitato e forse amato da alcune delle creature che amiamo. Il fatto che questo mondo sia destinato ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli, non ci aiuta a capirlo di più, ma anzi aumenta la nostra confusione. Perché il modo come i nostri figli riescono ad abitarlo e a decifrarlo ci è oscuro […]. Noi dal canto nostro non riusciamo a compiere un solo gesto nei confronti del presente, perché ogni nostro gesto meccanicamente precipita nel passato. […] E un cosa ancora ci stupisce, noi che siamo ormai sempre più raramente colpiti da meraviglia: guardare come i nostri figli riescano ad abitare e a decifrare il presente, e noi eccoci qua sempre assorti a sillabare ancora le parole limpide e chiare che incantavano la nostra giovinezza“.
(Natalia Ginzburg, Noi e i nostri figli, La Stampa, 10 dicembre 1968. La vecchiaia in Mai devi domandarmi, Garzanti 1970)
Un certo Gary Pikovsky @DesignTimes posta polemicamente su twitter la foto di una scolaresca nella stanza del Rijksmuseum ad Amsterdam di fronte a “La ronda di notte” di Rembrandt. I ragazzi voltano le spalle al quadro e sono tutti intenti a guardare i loro telefonini. Titolo del tweet: No comment necessary. Tutti si scatenano contro ‘sti poveri ragazzini, meno Mantellini che scrive un gustoso pezzo in loro difesa dicendo che forse i ragazzi stanno cercando in rete notizie sul quadro (dietro indicazione dell’insegnante ecco perché tutti, ma proprio tutti, hanno, contemporaneamente, la testa china sull’iphone).
Del resto gia nei commenti alla foto un certo Khalid aveva fatto notare l’esistenza di un’altra foto, dove la scolaresca è invece tutta intenta ad osservare un quadro e ad ascoltare la lezione della professoressa.
Ma si sa, ai media piace dire che la malattia generazionale riguardi solo i giovanissimi e non invece i loro genitori, la generazione degli inossidabili babyboomer che ogni volta che si dice “i giovani” ancora si voltano istintivamente come se si stesse parlando di loro, di loro che non si arrendono a poter decidere SOLO LORO quale sia la cultura che debba essere egemone, perché decisa giusta una volta per sempre, e quale quella che debba invece essere silenziata perché sbagliata una volta per sempre.
E’ stato Umberto Eco nell’anno che è passato, a parlare, per l’ennesima volta, di malattia generazionale in un articolo su l’Espresso (3 gennaio 2014). Ne riparla poi in una bustina di Minerva del 8 gennaio 2014 prendendo come spunto una serie di strafalcioni detti da alcuni “giovani” durante una trasmissione QUIZ (QUI il video):
“Possibile che i nostri quattro soggetti non avessero idea delle differenze tra il periodo in cui entrava in scena Hitler e quello in cui l’uomo era andato sulla Luna? Per Aristotele è possibile tutto quello che si è verificato almeno una volta, e dunque è possibile che in alcuni (molti?) la memoria si sia contratta in un eterno presente dove tutte le vacche sono nere. Si tratta dunque di una malattia generazionale” (umberto eco)
La malattia della nuova generazione sarebbe La perdita della memoria.
Ma la memoria l’abbiamo persa tutti, nonni, genitori, nipoti e nipotini e la colpa è della macchina certo. Più deleghi alla macchina la tua memoria e più la perde il tuo organismo è una cosa fisiologica che ognuno di noi (che gira in rete) ha già sperimentato sulla propria pelle ed è addirittura un fenomeno già denunciato dall’allarme lanciato da Marshall McLuhan addirittura prima ancora che nascesse la gigantesca idiota protesi di massa della e-memoria.
Se il cervello non produce più memoria attiva con le sue continue e soprattutto imprevedibili e originali connessioni interne, l’uomo (e di conseguenza il mondo) diventa meno intelligente e intelligibile, più banale, forse più inutile, oltre che più noioso. Forse non riesce più ad innovare culturalmente, forse resta abbarbicato al proprio passato più ancora di quanto succedesse in passato. Resta così abbarbicato da scambiare il proprio passato per l’unico possibile presente valido per tutti, l’unico presente possibile e, soprattutto, ammesso collettivamente. Il migliore dei presenti possibili. Più che alla perdita siamo al totalitarismo della memoria :-). Massimo Mantellini cita spesso, come fosse il vangelo (dice lui) un racconto di Natalia Ginzburg, La vecchiaia. E’ un racconto della raccolta Mai devi domandarmi. Non ricordo più se lo avessi o meno già letto, e l’effetto che mi aveva fatto. Ma anche se lo avevo letto certo non lo avevo capito e quindi non l’avevo memorizzato. Quello che non si capisce e non si elabora, non si ricorda.
Letto oggi è davvero molto interessante perché l’intelligenza della scrittrice è ancora una intelligenza critica e non solo assertiva come invece oggi dilaga.
Il racconto si trova in una raccolta del 1970. In realtà non si tratta di un racconto, ma bensì di un articolo per La stampa e il libro infatti è principalmente la raccolta di quella collaborazione al giornale torinese (1968-1970).
Ad essere precisi non è neppure un articolo, ma semmai una pagina di diario come scrive la stessa Ginzburg: “Non mi è mai riuscito di tenere un diario: questi scritti sono forse qualcosa come un diario, nel senso che vi ho annotato via via quello che mi capitava di ricordare o pensare”.
Usci sulla Stampa il 10 dicembre del 1968 con il titolo Noi e i nostri figli e un ancor più signficativo occhiello: Quando ci si distacca dal presente.
1968 una data fondamentale. Il mondo, tutto, da un po’ di tempo aveva improvvisamente accelerato e stava cambiando radicalmente. Natalia Ginzburg aveva 52 anni, non proprio vecchia, ma si sentiva molto vecchia perché il mondo le stava vorticando intorno ad una velocità eccessiva.
Sono andata a cercare il vecchio articolo. Lo potete leggere nell’archivio della Stampa. Andate QUI (se volete potete poi scaricarlo in pdf cliccando sulla destra sull’icona PDF). (georgia)
[…] L’incapacità di stupirsi e la consapevolezza di non destare stupore, farà sì che noi penetreremo a poco a poco nel regno della noia.La vecchiaia si annoia ed è noiosa: la noia genera noia, propaga noia attorno come la seppia propaga l’inchiostro. Noi così ci prepariamo ad essere insieme e la seppia, e l’inchiostro: il mare intorno a noi si tingerà di nero e quel nero saremo noi: proprio noi che il colore nero della noia l’abbiamo odiato e rifuggito tutta la vita. Fra le cose che ancora ci stupiscono c’è questo: la nostra sostanziale indifferenza nel sottostare a un simile nuovo stato. Tale indiffierenza è provocata dal fatto che a poco a poco veniamo cadendo nell’immobilità della pietra. Tuttavia ci rendiamo conto che prima di diventare pietre diventeremo ancora altro: perché anche questo è ancora per noi un motivo di meraviglia: l’estrema lentezza con la quale invecchiamo. Conserviamo a lungo ancora l’abitudine a crederci «i giovani» del nostro tempo: così che quando sentiamo parlare di «giovani» voltiamo la testa come se si parlasse di noi: aBitudine che ha radici così profonde, che forse non la perderemo se non quando saremo del tutto diventiati pietre, cioè alla vigilia della morte. A questa nostra lentezza nell’invecchiare contrasta la rapidità vorticosa del mondo che ruota intorno a noi: la rapidità con cui si trasformano luoghi e crescono giovani e bambini […].
(Natalia Ginzburg, Noi e i nostri figli, La Stampa, 10 dicembre 1968. La vecchiaia in Mai devi domandarmi, Garzanti 1970)
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