La simpatia umana che provo per il papa argentino non mi impedisce di segnalare uno studio appena
pubblicato da Laterza che ricostruisce la storia della chiesa
argentina, dalle complicità con i militari alle aperture nei confronti della
“teologia del popolo”. Ne emerge una immagine complessa e non
priva di ambiguità, di cui Jorge Bergoglio sembra essere espressione.
Alessandro Santagata
La religione dello
status quo
Del papa «venuto dalla
fine del mondo» fatichiamo ancora a comprendere
a pieno la mentalità. Probabilmente,
anche perché la storia di quella «periferia»
la conosciamo poco. Abbiamo in mente la figure di Perón; la
drammatica vicenda dei desaparecidos;
l’insurrezione popolare del 2001. È meno noto il ruolo
che la Chiesa argentina ha ricoperto durante il XX secolo.
La ricostruzione di Loris Zanatta (La nazione cattolica,
Laterza, pp. 294, euro 20) ci aiuta a capirne di più. Il dato
di partenza è che in Argentina la fede cattolica
ha rappresentato una componente
fondamentale nella narrazione nazionale.
Da quando negli anni
Trenta si era spezzato il legame tra liberalismo
e democrazia, l’idea di trasformare la
società in una comunità coesa e organica ha
rappresentato l’obiettivo di tutte le culture
politiche che si contrapponevano ai
«nemici» del Ser nacional. Anche tra le forze meno
connotate dal punto di vista confessionale,
il mito della «nazione cattolica» risultava
funzionale a questo scopo. Nel 1946 il successo
del peronismo, un movimento laico, ma fortemente
sincretico, segnava il trionfo del corporativismo
coniugato con il populismo sociale. Proprio lo
scontro con l’episcopato ne provocava la caduta alla
metà del decennio successivo.
Nella seconda metà degli
anni Sessanta, durante i quali «tutti erano teologi
e militanti ecclesiali», il conflitto si
spostava invece dentro la Chiesa, lacerata dallo
scontro tra i settori conservatori e i
gruppi guerriglieri (i montoneros, il
Movimento dei sacerdoti per il Terzo Mondo, e altre
formazioni che si richiamavano alla teologia
della rivoluzione).
Il sostegno al Golpe
Di fronte a una
società attraversata dalla contestazione
studentesca e all’instabilità del potere
politico, la «nazione cattolica» si configurava
ancora una volta come l’argine di conservazione,
compresa quella della Chiesa. Si spiega da questo punto di
vista il contributo dato dalla gerarchia per il
ritorno al potere del peronismo nel 1973. Anche in questo
caso, il governo, considerato dai vertici
cattolici come un potenziale «erede secolare»
dell’unitarismo religioso, entrerà però rapidamente
in contrasto con la Conferenza episcopale.
Nel pieno del revival religioso la priorità per
i vescovi era ottenere quella pace sociale che Perón si
sarebbe mostrato incapace di garantire. Quando nel 1976 il
generale Videla prendeva il potere con le forze armate
e con il sostegno dei vertici della Chiesa – spiega
Zanatta – la «nazione cattolica» si apprestava
a vivere una nuova tappa della sua lunga storia: sarà
l’ultimo atto.
Le pagine del libro
dedicate alla carneficina operata dal regime
fino ai primi Ottanta attestano con dovizia di
particolari le responsabilità della
Chiesa argentina. Viene documentata la speranza
che i vertici dell’episcopato riponevano nel
cattolico Videla. E poi la disillusione
davanti alla brutalità del regime, disillusione
alla quale però non seguirà una sconfessione, nonostante
le violenze contro il clero. Di fatto, la frattura
silenziosa tra Santa Sede, Chiesa argentina e regime
militare ha segnato l’implosione della «nazione cattolica»,
il cui collasso coincideva con il primo
significativo rinnovamento
post-conciliare dell’episcopato. Con la conferenza di
Puebla (1979) Giovanni Paolo II frenava le teologie
della liberazione aprendo uno spazio significativo
a quella «teologia del popolo» che proprio in
Argentina aveva i suoi esponenti più illustri:
Juan Carlos Scannone e, soprattutto, Lucio Gera, di
cui Bergoglio è stato discepolo.
In sintesi, Gera
proponeva di salvare l’idea di «nazione
cattolica» slegandola dalla politica
e indirizzando la Chiesa verso l’accettazione della
pluralità. Della teologia della liberazione
voleva mantenere i principii sociali, ma li
declinava in chiave spirituale rifiutando la
contaminazione con il marxismo. Basta
riprendere in mano la prima esortazione apostolica
di papa Francesco, per ritrovare la medesima
impostazione: centralità della pietà popolare
e del popolo come agente di inculturazione.
Sulla «Civiltà
Cattolica» Scannone ha scritto che in Bergoglio
il conflitto di classe non viene mai teorizzato, ma
sarebbe consequenziale al ragionamento
complessivo sulla liberazione.
Altri interpreti
invece hanno definito quella del papa una «teologia
populista» che privilegia l’unità
(l’«incontro») sul conflitto e richiama gli elementi
interclassisti della dottrina sociale romana.
Quel che è certo è che il pensiero sociale del papa
trova le sue radici nella teologia argentina e nelle
vicende di quel Paese di cui il cattolicesimo ha
condizionato in maniera decisiva le sorti. Degli
anni più bui Bergoglio è stato un «comprimario»,
in qualità di provinciale della compagnia
di Gesù. Sostenitore della «nazione cattolica»,
ha cercato di contenere le spinte «eterodosse»
all’interno della Compagnia, non si è schierato
contro il regime, ma ha operato in alcune occasioni
a sostegno dei perseguitati. È ancora
aperta la polemica sulle sue responsabilità nel
caso Jàlics e Yorio: i due gesuiti sequestrati nel
1976 e poi espatriati (Zanatta non vi entra nel dettaglio).
Il rebus da risolvere
Seguendo la prospettiva
indicata dal libro, la «teologia del popolo» di papa
Francesco può essere considerata la
sintesi tra i retaggi del mito della nazione cattolica
e il superamento della teologia della
liberazione, della quale fa suo lo spirito popolare
e pauperista. Lo scarto rispetto all’impostazione
ratzingeriana è netto. Il fatto che dietro al
discorso di Francesco ci sia ancora una certa tradizione
organicistica e che i suoi riferimenti
teologici non siano quelli della teologia della
liberazione non rende meno significativa la
discontinuità pastorale.
Ecco allora che, se il
rebus dei caratteri del nuovo pontificato rimane
ancora in larga parte da risolvere, la storia ci viene in
aiuto per comprendere meglio quegli aspetti del
discorso papale difficili da spiegare con le
categorie del pensiero europeo, anche di quello
cattolico: per esempio, la compresenza al
suo interno dell’appello alla lotta alle diseguaglianze
prodotte dalla finanza e della celebrazione
dell’unità popolare e nazionale nella devozione
alla Vergine, caratteristica del modello
carismatico che fu di Giovanni Paolo II. Questo
modo di rielaborare la tradizione
teologica argentina di fronte alle sfide del mondo
globale, e dopo il tramonto delle «nazioni
cattoliche», rappresenta, senza dubbio,
uno dei punti di maggiore interesse dell’attuale
pontificato.
Il Manifesto – 23
dicembre 2014
L' amico Rosario Giuè, tramite fb, mi ha inviato un bel commento:
RispondiElimina"Caro Francesco, non ho letto il libro di cui parla la recensione da te proposta. Ma conosco quella storia e quelle problematiche. Questa "teologia del popolo" non mi è nota. Ma se tu leggi i discorsi di Francesco vedi che non sono "spiritualisti", sono denuncia di "conflitti" storici, non spirituali (che certo hanno una radice nel cuore umano), e lo fa ormai in continuazione. Per tutti vale il viaggio a Lampedusa. Non ha appoggiato, comunque, il regime di Videla, in alcune occasioni ha affrontato i generali apertamente e viso a viso, proprio per liberare i due gesuiti arrestati dal regime e a rischio di vita. Cose che qui, in Occidente, ci sogniamo di vedere. Questo è il vero problema.!! Prova a vedere se il metodo della tdl indicata nel mio libro, "Chiesa e liberazione" (ed Tau), sia o meno rifiutato nella sostanza da Francesco. Lo hai letto, lo puoi ra fare in diretta, senza sentito dire. Un bacio augurale. Rosario