Michele Serra
Nella strage delle matite i giovani fanatici giustiziano i vecchi libertini
Non è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci.
Il ceppo di Charlie e
del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del
radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura
sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito
sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e
Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François
Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di
versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere
e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa,
novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi
questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità
la sua ilare tribù.
Il marchio di
fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e
attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo
libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed
è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente
direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa
venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito
televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva
insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma
niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel
quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non
immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il
fondamentalismo islamista.
La lunga guerra
iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la
fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra
intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto:
pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata
da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel
pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita,
irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi
compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia.
Provate a immaginare,
per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i
vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui
giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di
fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così
superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche
per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo
debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.
La Repubblica – 8
gennaio 2015
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