Aveva scritto sulla
sua chitarra “Questa macchina ammazza i fascisti”. Cantava
l'America degli anni della grande crisi, i vagabondi, gli operai in
lotta. La sua canzone più bella This Land Is You Land (Questa terra
è la tua terra, ripresa oggi da Bruce Springsteen) diceva: “C’era
un muro che mi sbarrava la strada, e su questo muro c’era scritto
proprietà privata... ho visto la mia gente in fila davanti alla
mense dell’assistenza, e mi sono chiesto se davvero questa terra è
stata fatta per me e per te”. Oggi, dopo settant'anni riemerge "Una
casa di terra", un libro dimenticato, e scopriamo così che
Woody Guthrie è stato anche un grande scrittore.
Roberto
Brunelli
Americana. Il
romanzo in cui Guthrie cantò l'apocalisse di vento e
polvere
Come al solito
tutto comincia con l'apocalisse. Domenica delle Palme, 1935.
Corrono alla mente gli uragani che anche oggi o ieri si
mangiano un pezzo dell'America, ma quell'anno è una specie
di tempesta di sabbia, un'immensa nube di polvere — le
chiamavano Dust Bowl — a mangiarsi un pezzo delle pianure
del Texas, come era già successo in Kansas, Nebraska,
Oklahoma, Nuovo Messico. La gente si mette stracci bagnati
davanti alla bocca per non morire asfissiata, c'è chi non
riesce a vedere «un decino nelle proprie tasche, il piatto
che ha sotto il naso». Il bestiame è decimato, strangolato
dal terriccio che gli intasa naso e gola, i terreni
coltivabili diventano deserti, i vecchi muoiono, come le
mosche, di "polmonite da polvere", il cielo è
nero. I più colpiti sono, ovvio dirlo, quelli che meno
hanno, già stremati dalla Grande Depressione. «Quelli che
son rimasti spellati», come avrebbe detto anni prima Jack
London.
Le apocalissi abitano spesso la letteratura americana, si sa. Questa qui (grande o piccola che sia, dipende dai punti di vista) è all'origine di Una casa di terra, l'unico romanzo — fino a quest'anno inedito e completamente sconosciuto — di Woody Guthrie: sì, quello di This Land is Your Land, la stella polare di tutti i folk singer, il padre nobile di una tradizione che va dall'ultimo degli hobo — i girovaghi poi mitizzati dalla Beat Generation — a Bruce Springsteen, passando ovviamente da Pete Seeger a Bob Dylan, senza considerare i migliaia di epigoni contemporanei. Ebbene, oggi l'America viene a sapere che Guthrie è stato anche un notevolissimo romanziere: ma forse non c'è tanto da stupirsi, visto che il mare magnum dello storytelling a stelle e strisce in cui affondava le mani è così strettamente intrecciato con la coscienza che l'America ha di sé.
Woody Guthrie |
Come non
bastasse, sinanche il ritrovamento di questo libro è una
storia strepitosamente americana: il manoscritto è stato
scoperto quasi per miracolo dallo storico Douglas Brinkley
che ne aveva trovato un accenno tra le carte del musicologo
Alan Lomax mentre era al lavoro su una biografia dedicata
all'inevitabile Dylan. Poi, pubblicato all'inizio dell'anno
negli Stati Uniti come primo titolo in assoluto della
Infinitum Nihil (che è, strano a dirsi, la casa editrice
dell'attore Johnny Depp), per Una casa di terra sono stati
scomodati i nomi di Steinbeck e di D. H. Lawrence
(quest'ultimo viene chiamato in causa per le pagine dense di
torrida ed esplicita sessualità, forse troppo esplicita,
per i tempi): eppure il libro era rimasto a languire
nell'abisso degli scaffali dell'Università di Tulsa per
oltre sette decadi, nonostante che nel frattempo Guthrie —
al ritmo di una chitarra "che uccide fascisti" —
fosse diventato una pietra angolare della storia musicale
americana, come colui che per primo, e dal profondo delle
viscere degli Stati Uniti, era riuscito a cantare quel pezzo
di umanità che si sporca le mani, che suda, quella che
soffre, quella che perde quasi sempre, quella su cui le luci
di Hollywood non si erano posate mai. Insomma, "il
popolo", quello trasformato in icona dalla Costituzione
americana e lì cristallizzato.
Ma se oggi Una casa di terra (che in Italia vede la luce con Mondadori, pagg. 198, euro 17,50) ha le stimmate del tesoro ritrovato, ai suoi tempi le caratteristiche del "grande romanzo americano" le aveva già tutte: la parabola drammatica ed epica di Tike ed Ella May che lottano contro la povertà, i capitalisti rapaci e il Dust Bowl e che, soprattutto, resistono a tutto fino alla propria consunzione, è un vortice di visioni e di parole, un fiume lavico in cui si specchia un'umanità vibrante e dolente come non ne capitano tutti i giorni. «Non ho mai chiesto di diventar padrona di qualcosa, né di comandare né di dominare sulla terra e sulla vita delle persone. Non ho mai aspirato a niente, se non ad avere un lavoro dignitoso da fare e una casa dignitosa dove abitare... Perché non possiamo, Tike?».
Non è un caso
se Dylan (il quale, come si sa, giovanissimo andò ad
omaggiare il Guthrie a lungo morente in ospedale) l'abbia
definito «geniale»: in fondo è un'immensa ballata, una
specie di Desolation Row della Grande Depressione. Ma,
soprattutto, la storia di Tike ed Ella May e della loro
disperata fedeltà alla "casa di terra" (ossia
costruita con mattoni di "adobe", unico materiale
capace di resistere al vento distruttore del Texas) è
strettamente imparentata con le storie di scrittori come
Sherwood Anderson, Jack London, Upton Sinclair: quelli,
insomma, che nel primo pezzo del secolo scorso hanno messo
nero su bianco la nascente e convulsa coscienza sociale
dell'America dentro e fuori l'immaginario prepotente ma
falsato dell'american dream.
Qui siamo alla puntata della narrazione americana che precede Woody Guthrie, un altro scorcio di storia che — come l'uragano di sabbia di cui sopra — si rivolge a noi direttamente. «La crisi economica mondiale che stiamo vivendo, con i suoi alti e i suoi bassi, le illusorie ripresine e i tonfi improvvisi e devastanti, e i tassi di disoccupazione che crescono ovunque, ha indotto a riavvolgere la pellicola della nostra storia di quasi un secolo, fino agli anni trenta del Novecento: alla Grande Depressione statunitense»: così scrive Mario Maffi nella nuova prefazione al suo
La giungla e il grattacielo, memorabile saggio che uscì la prima volta nel 1981 e che ora Odoya pubblica in una nuova versione, ampliata e rimaneggiata. Non solo incursioni in un realismo epico, vicende di lavoratori delle miniere di carbone alle prese con il loro primo sciopero, ma pagine spesso anche profetiche, come quelle di Petrolio!, di Upton Sinclair, con quella lunga corsa in automobile per le strade californiane che anticipa tanti road movies nonché un'infinità di canzoni del "Boss" (considerate che siamo nel 1927), strade lungo le quali si schierano «parecchi alberghetti dall'aria malconcia e cadente e lunghe file di casupole fatte solo di assi... c'era persino qualche pietoso tentativo di orto o di giardino, ma ceneri e fumo bruciavano ogni cosa».
Un viaggio alle origini di quel «ricco repertorio di parole, immagini, trame, personaggi, scenari, vicende personali e collettive », come dice l'americanista Maffi, dal quale riaffiorano libri che l'ingenerosità della storia rischiava di gettare nel dimenticatoio: gli scritti statunitensi di John Reed, per esempio, e poi ancora Winston Churchill (l'omonimo e popolarissimo scrittore "anti-novecentesco" americano, non il premier britannico col sigaro) o pagine come quelle di Uomini in marcia di Sherwood Anderson, dove è l'industrialismo alienante a strappare la gente dai campi e privarli del passato in nome di un futuro che arricchisce solo gli altri. E ancora, le metropoli dolenti di Theodore Dreiser o l'incredibile Popolo degli abissi di Jack London: «Uomini, donne, bambini, in stracci e cenci, cupe feroci intelligenze senza più sembianze divine, facce pallide cui la società-vampiro aveva succhiato ogni linfa vitale, feccia e schiuma della vita, un'orda infuriata, urlante, convulsa, diabolica». Come si vede, si chiude con l'apocalisse, come si era iniziato, e forse non è un caso.
la Repubblica | 24
Dicembre 2013
Woody Guthrie
Una casa di terra
Mondadori, 2013
euro 17,50
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