“La natura umana è
la comunità umana” , scriveva il giovane Marx. Se è cosi (e
noi lo crediamo fermamente) la follia è prima di tutto perdita di
questa consapevolezza e dunque totale ALIENAZIONE.
Uno di questi giorni cercheremo di capire insieme per quale ragione è scomparsa del lessico quotidiano questa antica parola che potrebbe fornire una chiave per comprendere il presente.
Laura Andreoli
Gaetano Benedetti. La follia ci aiuta a capire l’uomo
Il 2
dicembre, esattamente un mese fa, a Basilea, è mancato Gaetano
Benedetti. Un maestro, un pioniere in quei territori della malattia
psichica che, come la psicosi, più interrogano l’uomo nella sua
dimensione esistenziale. Aveva 93 anni, ma la sua morte appare
comunque qualcosa di irreale a chi ha sperimentato il suo pensiero,
la sua presenza così viva nelle supervisioni, da diventare una voce
costante nel proprio mondo interno, in particolare nei momenti
terapeutici più difficili. La sua stessa storia, di uomo e di
ricercatore, testimonia l’esigenza di rivolgersi alla follia come
un elemento essenziale per capire l’uomo.
Assistente alla clinica universitaria di Malattie Nervose e Mentali di Catania (dove è nato nel 1920), in un tempo in cui la psichiatria in Italia quasi non esisteva ed era per lo più relegata alla semplice custodia manicomiale, volge il suo appassionato interesse verso quei malati psichiatrici che egli vede nel cortile dell’Ospedale di Catania «accoccolati per terra, fra stracci e camicie di forza».
Questa fortissima esigenza di ricerca che appariva estranea alla psichiatria italiana, allora caratterizzata da un contesto positivistico in cui dominavano le teorie di Lombroso, trova invece una terra felix nella clinica Burghölzli di Zurigo; a 27 anni, il giovane Benedetti lascia l’Italia per poter aprirsi all’esperienza della psichiatria di lingua tedesca di quel periodo: dalla visione clinica di Eugen Bleuler, a cui si deve proprio l’introduzione della categoria della schizofrenia, fino alla corrente fenomenologica che in psichiatria pone attenzione alla esperienza vissuta e alla comprensione intuitiva.
Nonostante il pensiero di Benedetti molto debba a questo retroterra fenomenologico, gli è indispensabile qualche cosa che egli avverte come più fecondo per poter veramente «entrare» nella sofferenza del paziente «sentendone tutto il peso».
È la relazione terapeutica al centro della cura: in tal senso «sterili» gli appaiono come strumenti le sole diagnosi psichiatriche, ma anche il troppo impersonale «essere con» della fenomenologia; è nella psicoanalisi freudiana che trova, nella comunicazione tra inconsci del terapeuta e del paziente, il motore della cura.
Qui si colloca il suo contributo, che rompe il tabù freudiano di una impossibilità di cura psicoanalitica della psicosi e pone un capovolgimento della terapia della psicosi. Per arrivare in questo territorio, la psicoanalisi ha bisogno di ampliare il proprio statuto, il punto nodale della cura è che proprio nella costruzione di un inconscio «duale» stia il vero potenziale di cura. Benedetti «scopre» e precorre l’importanza terapeutica di attivare codici non verbali, come particolare linguaggio dell’inconscio, quando le radici del pensiero sembrano inattingibili. Ciò che più sostiene la sua «fiducia» terapeutica è il rivolgersi all’inconscio non solo come archivio di tutte le sofferenze, ma come forza generativa dell’unica possibilità di sentirsi «esistere», contro «l’identità di non-esistenza», che è — per lui — la fondamentale cifra del vivere psicotico. Nelle sue parole «il sintomo psicotico… è sia la fonte della massima sofferenza del paziente come il suo unico fronte di sviluppo potenziale».
Il pensiero e
l’esperienza clinica sulla psicosi di Benedetti sono arrivati in
Italia alla fine degli anni Settanta e hanno trovato un terreno
particolarmente recettivo, quasi un «laboratorio» di trasformazione
radicale della cura psichica. Ma sarebbe una lezione necessaria anche
oggi, in un momento storico in cui le istituzioni di cura del malato
psichico non vivono un momento felice, tra una psichiatria che
rischia di rinchiudersi nelle griglie strette di protocolli
diagnostici e farmacologici e una psicoanalisi che deve potersi
aprire alle nuove potenzialità di cura di un inconscio «a circuito
aperto».
(Da: Il Corriere della
sera del 2 gennaio 2014)
Nessun commento:
Posta un commento