07 marzo 2014

MOLIERE E' ANCORA VIVO






Benedetta Craveri

Molière un mito anche quando va in bicicletta
A differenza di Corneille e Racine, Molière continua ad essere puntualmente rappresentato anche nel nostro paese. Il successo di critica e di pubblico che ancora un mese fa ha accolto la messa in scena del Tartufo di Marco Sciaccaluga per il Teatro Stabile di Genova e il favore che ha incontrato anche da noi il film francese Molière in bicicletta ne sono la conferma più recente.

Due fattori contribuiscono in sommo grado a questa sua perenne giovinezza. Il primo è la sua capacità di proporci dei "caratteri" esemplari, codificati da una lunga tradizione - l'avaro, l'ipocrita, l'ipocondriaco, il misantropo, il libertino -, sapendo però infondere loro una vita autonoma, trasformandoli in personaggi estremamente complessi, in grado di suscitare in noi sentimenti diversi e la cui interpretazione si presta a una grande varietà di letture. Chi è veramente il suo Misantropo? Un essere che rifiuta le regole del vivere sociale in nome di un individualismo inaccettabile o, come parve un secolo dopo a Jean-Jacques Rousseau, un uomo che osa finalmente essere sincero? Un saggio o un pazzo?

Molière si guarda bene dal dircelo così come non ci dice se il suo Don Giovanni sia un libertino ipocrita o un libero pensatore o, come lo vide poi il romanticismo, un eroe trasgressivo. Il secondo fattore è la capacità di Molière di non lasciare i suoi protagonisti dominare da soli la scena ma confrontarli con una folta schiera di comprimari e di personaggi minori ugualmente convincenti e ugualmente necessari a creare il contesto sociale, psicologico, morale che rende così irresistibilmente credibile il suo teatro. Forse solo le commedie di Shakespeare sanno restituirci con una tale ricchezza e varietà di personaggi e di situazioni l'immagine viva di una società del passato.

Attore, capocomico e autore, Molière ci appare come l'emblema stesso del teatro moderno nel momento culminante della lunga guerra di auto legittimazione intrapresa nel corso del Seicento contro le ingerenze della chiesa e i pregiudizi di ogni specie che ne minacciavano l'autonomia. Un teatro vissuto come una vocazione assoluta che aveva trasformato un figlio della borghesia, con una eccellente educazione alle spalle, in un attore girovago che per quattordici anni aveva battuto con la sua compagna Madeleine Béjart e un piccolissima troupe la provincia francese in cambio di magri guadagni.

Il successo gli era giunto, improvviso, al suo ritorno a Parigi, ormai quarantenne, nel 1659, con una commedia in un atto, in prosa, Le preziose ridicole. Appena arrivato nella capitale egli seppe infatti cogliere sul suo nascere un fenomeno di costume - il primo movimento femminista moderno -, destinato a lasciare nella società d'antico regime una traccia profonda, mettendone alla gogna gli eccessi. Da quel momento in avanti Molière si sarebbe attenuto alla morale del giusto mezzo, del sorridente buon senso, in accordo alla regola, cara agli antichi, dell'aptum, vale a dire di un comportamento in armonia con il proprio personaggio sociale. Ma l'imperativo assoluto a cui avrebbe subordinato, in piena coerenza con l'estetica classica, il suo teatro sarebbe stata la volontà di piacere al suo pubblico.

Vi riuscì, fino alla morte che lo colse sulla scena, mentre impersonava il Malato immaginario, nel febbraio del 1673, sobbarcandosi di un lavoro immenso, compiendo una sintesi straordinaria delle tradizioni teatrali più diverse. «Prendo il mio bene dove lo trovo», egli avrebbe detto in occasione di una delle tante accuse di plagio che gli venivano rivolte. Attinse, infatti, situazioni, maschere, personaggi, canovacci, intrecci dal teatro antico e da quello italiano del Rinascimento, dalla commedia dell'arte e dagli spettacoli delle fiere, misurandosi con la farsa, la "commedia d'intrigo" e di "carattere", la "commedia balletto", conquistando il pubblico aristocratico come quello popolare e imprimendo a ogni nuovo spettacolo il marchio inconfondibile del suo genio.

Una nuova edizione italiana della quasi totalità delle sue commedie (Molière, Teatro, a cura di Francesco Fiorentino, testo francese a fronte a cura di Gabriel Conesa) ci offre ora una eccellente occasione di rileggerne l'opera nelle migliori condizioni possibili. Nell'affidare presentazione e traduzione delle diciotto commedie che figurano nel volume a altrettanti "francesisti" con sicure credenziali scientifiche, Francesco Fiorentino è infatti riuscito ad imporre una linea editoriale vincente. I suoi collaboratori si sono cimentati in traduzioni il più possibile agili e moderne, ricostruendo genesi, contesto teatrale e fortuna critica di ciascuna commedia in modo sobrio e coinciso ma senza rinunciare a dare al lettore le informazioni essenziali per cogliere la complessità e la ricchezza dei significati di ciascuna commedia.

E Fiorentino ha dato l'esempio per primo con la sua bella introduzione che in una ventina di pagine ripercorre l'avventura teatrale di Molière e "l'estensione del dominio del comico" che ne ha connotato l'arte. Lo studioso mostra bene la diversità e la complessità delle strategie di cui Molière si serve per indurci al riso in un teatro che «non corregge più i costumi punendo ma consente di riunire nevrosi e aspirazioni legittime, vecchi e giovani, sogno e realtà in un equilibrio gioioso, non punitivo né autoritario».
La Repubblica – 6 marzo 2014

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