Dal mio amico Giuseppe Casarrubea ricevo e pubblico volentieri quanto segue:
Nel paese di Frank Tre Dita
Nel
paese di Frank Coppola, alias Frank Tre Dita, primo dei grandi
trafficanti internazionali di droga, poi divenuto “re di Pomezia”, tutto
può accadere. Può accadere che ti trovi nella strada sacchi di
immondizia non ritirati e aperti dai cani randagi, la mattina quando
metti i piedi fuori di casa. Che per settimane nessuno passi a
toglierli. Che qualcuno se li levi dai
piedi e li depositi davanti all’ingresso di una villa pubblica. Che non
si faccia la raccolta differenziata dei rifiuti. Che tutti i
supermercati del mondo riempiano le cassette della posta e le strade
della loro propaganda. Che il sindaco non se ne accorga neanche. Che un
assessore faccia tagliare in una notte tutti gli alberi di una strada
principale piantati da decenni. Che si abbattano palazzi storici. Che i
servizi per cui si pagano tasse salate non si effettuino. E ancora, non
per finire, che un liceo sia intitolato a un concittadino in rapporti
epistolari con il capomafia del tempo, quale fu, appunto, Frank Tre
Dita. Santi Savarino, direttore del ‘Giornale d’Italia, partinicese pure
lui, scriveva, infatti, a Frank Coppola, avendo prima manifestato la
sua amicizia e il suo affetto: “Carissimo don Ciccio [...] Siamo di
Partinico e ci comprendiamo benissimo. Disponga di me. Non ho avuto
ancora risposta da Atene, appena l’avrò gliela comunicherò. Venga da me
quando vuole; avrò sempre piacere di vederla. Grazie ancora del bel
regalo e mi creda suo affezionatissimo Santi Savarino”.
Ma prendiamo un giorno come un altro che esci di casa, per andare a sbrigare alcune commissioni.
1
marzo 2014. Ore 9,00. Poste italiane di Partinico. Una grande calca di
gente sta ad ammassarsi, impossibilitata ad entrare, davanti alla porta
dell’ufficio postale. Stento ad aprirmi un varco e ci riesco solo perché
mi impongo di farlo. Voglio vedere cosa c’è all’interno. All’interno ci
sono vecchi che non possono stare in piedi, gente che deve andare ai
servizi igienici che non ci sono, persone con dei bigliettini in mano
usciti miracolosamente da una macchina che li distribuisce, a seconda
delle incomprensibili alchimie di chi l’ha programmata, un signore che
urla nomi e una folla di persone stordite. Come in un gioco al lotto
escono dal parallelepipedo micidiale varie lettere dell’alfabeto seguite
da numeri. Grazie a questa tecnologia avanzata l’intasamento è
assicurato. Non si sa se ciò accade perché nessuno riesce a programmare
bene la macchina, o per qualche altra misteriosa ragione che ciascuno
può supporre. Andava meglio in altri tempi quando i pappagalli tiravano a
sorte i biglietti del destino, e ciascuno, pagando qualche centesimo di
lira, si illudeva almeno di conoscere il suo futuro.
I
posti a sedere sono pochi e sempre occupati. Come le poltroncine del
pubblico al cinema o al teatro che a Partinico si sconosce cosa sia.
Tutto questo dalla parte della “massa” che, così, può assistere, se è
fortunata, allo spettacolo. Di cui, però, è vittima. Dal lato degli
sportelli ci sono tre postazioni di lavoro dove compaiono e scompaiono
lettere e numeri luminosi due metri sopra la testa degli operatori, due
sportelli con i segnali luminosi spenti dove stanno seduti due signori
con una terza persona che guarda le loro spalle. Un operatore si
intrattiene a parlare con il pubblico che non si capisce quale problema
abbia. Salta subito all’occhio che c’è chi lavora con una certa
tempistica, diciamo normale, e c’è chi ha ritmi molto lenti. O meglio,
se la prende comoda. Qualche volta un operatore impiega un tempo non
definibile, ma abbastanza lungo, per ultimare ciò che deve fare.
Perciò
chi decide di andare alla posta per fare le sue operazioni, deve
mettere in conto che si deve rassegnare a perdere una mezza giornata.
Bene che gli vada, perché c’è pure il rischio che debba ritornare al
pomeriggio o l’indomani per riavviare da capo le sue attese. Non
parliamo dello stato di salute dei pensionati che devono percepire la
pensione, dei soliti noti che scavalcano la coda, dei furbi che si
sentono intelligenti, dei cafoni e delle persone per bene che solo per
non rischiare di perdere la pazienza, non aprono bocca.
Ora,
non voglio esagerare. Sono stato negli uffici postali di mezza Europa.
Un’operazione, di qualsiasi natura non dura mai più di uno o due minuti.
Non ho mai visto formarsi folle di persone disperate, anche perché sono
convinto che qualcuno dovrebbe pagare gli effetti prodotti dal
disservizio sul sistema nervoso delle persone e sulla loro condizione di
salute. Ma qui non siamo all’estero e siccome la patologia è endemica
ed esistono solo quelli che possono e quegli altri che non possono,
siamo come Dante e Virgilio che nella città infernale di Dite, nel
settimo girone dantesco degli eretici si allenavano l’olfatto per
abituarsi alla puzza dei vapori che esalavano dal basso:
“Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al triste fiato; e poi no i fia riguardo“
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al triste fiato; e poi no i fia riguardo“
Quindi
non facciamo caso al fatto che abbiamo dei diritti, primo tra tutti
quello al benessere e che procurare un senso di malessere è anche un
reato. Dovunque andiamo e qualunque cosa facciamo. Ad esempio quando
andiamo a pagare i tributi all’ufficio tasse di via Bellini (che
funziona per diversi comuni). In questo buco (sedici metri quadrati
circa) dove l’unica cosa che si fa è disperarsi e pagare e perdere
l’intera giornata lavorativa, qualche centinaio di persone sono
costrette a stare in piedi, senza servizi igienici e senza nessun
confort, neanche un posto a sedere.
Se
fossi Renzi, quale io non sono, non fui, e non vorrei essere, farei una
legge molto semplice. Che preveda che simili strutture di sofferenza e
di tortura bellica, debbano essere chiusi, renderei obbligatoria una
nuova edilizia per simili casi. Inoltre stabilirei di pagare gli
stipendi dei pubblici dipendenti sulla base di un tariffario che preveda
il numero delle prestazioni effettuate. Nuova edilizia per i servizi.
Quanto agli impiegati il discorso è semplice:
-Tu,
impiegato Sempronio, quante operazioni hai fatto in un mese? Trecento?
Lo standard previsto è di un minimo di cinquecento, hai diritto allo
stipendio decurtato della percentuale di ‘lavoro in meno prodotto’.
-E tu, impiegato Caio, quante operazioni hai fatto? Settecento? Sei nella norma.
-E
tu Tizio, quante operazioni hai fatto? Milleduecento? Hai diritto al
tuo stipendio, più una quota premio rapportata alla percentuale di
produzione in più che hai effettuato.
Se questo discorso a qualcuno non sembra democratico, me ne spieghi la ragione.
Il
fatto è che lo Stato da sempre vuole soltanto avere e non dare. Ha un
braccio lungo per acchiappare e un altro cortissimo per dare. E il
codazzo degli impiegati e burocrati gli va dietro, come vagoni attaccati
a una locomotiva. Ma il binario è sbagliato e porta tutti a sbattere.
Siamo
certi che fino a quando sarà diffuso il senso di mancanza di
responsabilità e di servizio, saremo obbligati a sopportare quello che
abbiamo. Perché il pesce puzza dalla testa, e sul piano locale possiamo
solo turarci il naso. Fermo restando che anche il nostro naso non sente
più la puzza avendola respirata per secoli.
Dunque?
Lasciamo che ciascuno perda il suo tempo, che i vecchi scontino in
terra il loro purgatorio, oltre agli acciacchi che hanno, che i giovani
perdano il loro tempo, perché tanto sono disoccupati, e chi ha il lavoro
lo perda in modo diverso con il solo beneficio dell’eterna speranza del
pezzo di pane che si va a guadagnare, quando ci riesce. Tanto, come
sanno bene i veneziani, paga sempre Pantalone.
Giuseppe Casarrubea
Già pubblicato in http://casarrubea.wordpress.com/2014/03/02/nel-paese-di-frank-tre-dita/
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