Il nemico di classe
di Stefano Guerriero
Il bel film Class enemy,
diretto dallo sloveno Rok Biček e uscito in questi giorni nelle sale
italiane, sembra fatto apposta per far discutere, con i suoi assunti
problematici e controcorrente.
Come in una pièce teatrale,
quasi tutto accade dentro una scuola, che nonostante le suppellettili
invidiabili per qualsiasi istituto italiano, nonostante il decoro,
diventa subito un luogo claustrofobico. Il nemico di classe è il nuovo
insegnante di tedesco, il professor Zupan (Igor Samobor, veramente
bravo), che sembra apparentemente non interessarsi al lato umano del suo
mestiere, non si preoccupa di essere affettuoso e comprensivo con gli
studenti, come fanno invece tutti gli altri intorno a lui. Considera
anzi la condizione di studente un privilegio di cui essere all’altezza,
specie al di fuori degli anni dell’obbligo, e l’adolescenza l’età in cui
si inizia a trattare ed essere trattati da adulti. Ma questo lo
spettatore lo capisce via via, all’inizio è portato a solidarizzare con
la classe, che lo considera uno spietato nazista.
Catalizzatore degli eventi è il suicidio
di Sabine, la studentessa che al suo primo incontro con Zupan aveva
posto la domanda basilare e inevasa di qualsiasi adolescente (“perché si
vive?”), senza ottenere risposta (troppo bello se il senso della vita
si potesse trovare in una semplice risposta). In seguito il professore
la riprende duramente per la sua scarsa preparazione in tedesco: non
impegnarsi per lui vuol dire non sapere cosa si vuole fare e essere,
cosa inaccettabile. Contemporaneamente, avendola per caso sentita
suonare Mozart, le riconosce un talento e le dà un consiglio (“continua a
suonare il piano, quello lo sai fare”). Se non risponde a domande
dirette, tuttavia comunica. Sabine però esce dall’edificio scolastico e
scompare (telecamera impallata nel bianco).
Di fronte ai compagni sconvolti, Zupan
non offre affetto, ma strumenti per capire. Si ostina a fare le sue
lezioni, ma in quelle lezioni giganteggia Thomas Mann, il dramma di
essere o sentirsi diversi in una società borghese, il suicidio del
figlio, l’idea che la morte di qualcuno riguarda tutti gli altri che
restano.
La classe non vuole capire, rifiuta di
parlare e sceglie la rabbia, cerca solo un colpevole e un capro
espiatorio, ogni studente fa un uso personale del suicidio della
compagna, si ribella contro il sistema che ha schiacciato un individuo.
Il film rallenta, le vessazioni e gli scontri sono raccontate forse
troppo nel dettaglio, ma poi ritrova tutta la sua forza nel finale, dove
Zupan spiega le ragioni del suo agire (e il pubblico che ha ceduto al
meccanismo del capro espiatorio, sperimenta su di sé l’ingenuità
dell’errore: un brutto voto a scuola non può spiegare una morte, nella
sua grandezza tragica).
Si può dire che il professore di
tedesco difenda – senza simpatia certo – l’idea di una comunità nel
tempo dell’individualismo, e per questo nessuno lo sopporta, neanche i
suoi colleghi. Difende un’idea di educazione come maturazione,
assunzione di responsabilità, ricordando una verità oggi sempre più
controintuitiva: “andare incontro” agli studenti, essere “buoni”, non
vuol dire necessariamente fare il loro bene.
Il suicidio di Sabine non è quello di Neil in Dead Poets Society di Peter Weir (L’attimo fuggente,
1989). Neil è ostacolato nel suo desiderio (diventare attore) da un
mondo adulto costrittivo, Sabine è ostacolata prima di tutto da se
stessa e dalla debolezza dei suoi desideri. E tutti intorno la lasciano
in pace, nessuno la vede. Aspettare che arrivi il momento giusto, essere
comprensivi non è sempre la cosa migliore da fare, a volte è una scusa
per rinunciare a capire e stare a propria volta tranquilli (“scherzaci”,
“mettigli buoni voti”, e tutto passa, dice un collega).
L’antipatico Zupan parla invece di
responsabilità sia verso se stessi (verso il proprio talento), sia verso
la società (quelli che chiama rituali, che ci rendono diversi dagli
animali e ci vincolano a un legame comune). Responsabilità che un tempo
andavano sotto il nome di doveri: parola non a caso scomparsa dal
lessico attuale – i diritti seguiranno a breve? –, e sostituita tutt’al
più da merito, che però riconduce il discorso soltanto al singolo
(quanto sono bravo io: merito sicuramente di più, merito tutto,
comunque merito più degli altri! A me che merito la società deve dare,
agli altri, chissenefrega). Nel socialismo almeno c’erano pure i
bisogni: io la buona scuola la vorrei socialista anche nell’assunzione collettiva dei bisogni.
L’educazione, la scuola sono
l’interfaccia attraverso cui una società versa tutta se stessa in chi
sta ancora sulla soglia. Nelle scuole si trova tutta la vita, i valori e
i disvalori di un paese e di un’epoca. Questo, Biček lo intuisce
chiaramente e costruisce un ambiente gretto, stupido, razzista, confuso,
in cui ognuno è concentrato solo sul proprio io, ognuno vuole essere
capito senza sforzarsi di capire, come per il regista succede anche al
di fuori della scuola (la Slovenia corre gli stessi rischi dell’Europa
tutta?). Class enemy propone una realtà che non è in bianco e
nero, ma più articolata; sembra voler ricordare che il benessere vero di
una società è legato a una miscela complessa di valori e comportamenti,
non a qualche singolo valore totem di volta in volta aggiornato.
E in questo senso – e a bilanciamento –
giova ricordare che neanche il rigore, la disciplina e il fare i compiti
possono bastare da soli, neanche a scuola. Zupan aveva rimproverato
Sabine perché non sapeva che cosa voleva, dicendole che Mozart invece lo
sapeva fin da bambino, o almeno lo sapevano i suoi genitori (che lo
obbligavano alla musica). Curiosamente, anche Paolo Volponi nelle Mosche del capitale
parla del padre di Mozart, paragonandolo però all’impresa
capitalistica, per la loro comune natura “di promotori organizzatori
persecutori e consolatori, con la stessa presunzione di guidare e
proteggere, di scegliere e d’insegnare, di decidere cosa è bene e cosa è
male”.
12 ottobre 2014 |
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