Prima e dopo la lirica. Tutte le poesie di Giovanni Raboni
di Niccolò Scaffai
In un suo recente pamphlet, Giulio Ferroni ha riconosciuto in Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto gli ultimi poeti
italiani capaci di vivere un «rapporto integrale con il mondo» e di
esercitare la propria coscienza critica nel campo delle questioni
storiche e collettive. Rappresentanti di una (paradossale) continuità
con la tradizione, tanto Giudici quanto soprattutto Zanzotto avrebbero
colto l’ultima possibilità di ricevere un’udienza commisurata
all’ampiezza dei rispettivi sguardi, criticamente organici al presente.
Se quel che ha scritto Ferroni è vero, dovrebbe valere a maggior ragione
per un poeta di poco più giovane rispetto a quegli ‘ultimi’, di loro
non meno autorevole (anche per gli altri mestieri: critico, traduttore,
funzionario editoriale) e calato nel flusso di una tradizione che
raggiunge e coinvolge il contemporaneo: parlo di Giovanni Raboni,
celebrato nel decennale della morte da una nuova edizione dei suoi
versi: Tutte le poesie. 1949-2004, a cura di Rodolfo Zucco, Torino, Einaudi, pp. XXXI-548, 2 volumi, euro 25,00.
Ultimo o no, Raboni è stato
probabilmente l’unico poeta italiano ad avere, per così dire, chiuso il
cerchio della lirica novecentesca assumendone tutti i migliori
presupposti per poi superarli naturalmente, senza dissipazioni
autoparodiche o compiacimenti desublimanti, evaporazioni metaletterarie o
estenuazioni formali. Questa nuova edizione einaudiana copre un arco
cronologico di sorprendente ampiezza (le prime poesie ‘abbandonate’ o
disperse sono opera di un Raboni diciassettenne) e, grazie anche alla
veste ‘leggera’ della collana «bianca», invita a leggere davvero Raboni,
senza mediazioni, e a ricapitolarne l’itinerario valutandone da una
sufficiente distanza la portata storica: da Gesta Romanorum e Le case della Vetra (1966), fino a Barlumi di storia (2002) e agli Ultimi versi (2006), già postumi. I libri di Raboni, fino al suo capolavoro – Quare tristis (1998) –, erano già stati inclusi dall’autore nel volume garzantiano di Tutte le poesie (2000); tra quell’edizione e la silloge proposta da Einaudi si colloca il «Meridiano» dell’Opera poetica
(2006), curato dallo stesso Zucco, che comprende tutti i libri del
poeta nell’ordine cronologico della loro prima pubblicazione e una
sezione finale di Altri versi organizzata dal curatore (oltre alla poesia per il teatro e alla raccolta di scritti critici Poesia degli anni sessanta).
La centralità di Raboni nel campo
letterario contemporaneo è confermata proprio dal susseguirsi, in meno
di dieci anni, di queste tre edizioni – Garzanti, Mondadori, Einaudi –
analoghe funzionalmente ma strutturalmente diverse. Anche per questo
sarebbe stato utile un confronto dettagliato almeno tra gli indici delle
ultime due, come guida e promemoria per il lettore; invece, la pur
ampia Nota al testo, comunque necessaria e su altri dati
scrupolosa, non dà conto esplicitamente delle difformità tra il
«Meridiano» e questo doppio volume.
L’insegna sotto cui Raboni sceglie di collocare il suo primo libro importante, Le case della Vetra, è dichiaratamente montaliana: la poesia iniziale, Notizia, allude infatti al testo conclusivo delle Occasioni, la quasi omonima Notizie dall’Amiata.
Ma si tratta già di un’allusione distintiva: «E anch’io che ti scrivo /
da questo luogo non trasfigurato / non ho frasi da dirti, non ho / voce
per questa fede che mi resta, / per i fiaschi simmetrici, le sedie / di
paglia ortogonali / non ho più vista o certezza, è come / se di colpo
mi fosse scivolata / la penna dalla mano / e scrivessi col gomito o col
naso». Un luogo «non trasfigurato», una «fede» senza voce, una scrittura
«col gomito o col naso»: la riconoscibilità dell’ipotesto serve anche a
prendere le distanze, attraverso negazioni o espressioni dissacranti,
non tanto dall’autore-modello quanto dal mondo che questi sceglieva di
rappresentare. «Non possiamo non dirci montaliani», scriverà Raboni nel
1981, in un saggio sul poeta delle Occasioni ora raccolto nell’antologia critica La poesia che si fa (2005);
la capacità di inquadrare e selezionare la realtà, di «dare un nome
alle cose» e di fondare su queste una «dialettica fra vuoto e gremito,
fra sgomento e speranza, fra negatività e salvazione» sono il lascito
ineludibile di Montale alle generazioni poetiche successive. Quel che
Raboni sembra voler scansare, mettendo la sordina al grande stile
araldico-sentenzioso di Notizie dall’Amiata, non è perciò il
metodo ma la qualità degli oggetti da rappresentare. Alcuni poeti
postmontaliani hanno continuato lungamente a lavorare dentro
l’inquadratura ritagliata dagli Ossi e dalle Occasioni:
tra questi, il migliore è stato Orelli. Altri hanno spostato
l’obiettivo, come ha fatto appunto, tempestivamente, Raboni preferendo
seguire piuttosto Sereni nella scelta delle «cose» da nominare. «Quello
che Sereni andava facendo – ha dichiarato Raboni in un’intervista uscita
su “Allegoria” nel 1997 e da poco riproposta in rete su “Le parole e le cose” – mi sembrava quello che io avrei dovuto fare: […] mi precedeva di un passo».
La mossa d’apertura di Le case della Vetra
è ispirata da una volontà dialettica rispetto a quei ‘padri’ o
‘fratelli’ poetici (cui si aggiungeranno almeno Rebora, Betocchi,
Fortini, per non dire di Baudelaire ed Eliot), o piuttosto da una
tensione alla circolarità: l’apertura, cioè, implica anche una chiusura,
un esorcismo che è a sua volta premessa al rilancio. Mi pare che questo
tratto sia una costante dell’opera di Raboni, che di fondo è perciò
difficilmente separabile in una prima maniera più ossequiosa e una
seconda più emancipata rispetto ai maestri novecenteschi. Il paradigma
non è oppositivo ma piuttosto evolutivo: un rinnovamento che passa
attraverso la conoscenza graduale di nuovi territori formali e tematici
(la componente sociale e politica della poesia matura di Raboni non
dipende né da Montale né da Sereni; un riferimento più vicino è Fortini,
ma anche in questo caso la consonanza non è dipendenza). In questo
senso, come dicevo all’inizio, Raboni chiude il cerchio della poesia
novecentesca, assumendola e superandola. Il superamento più importante
riguarda forse la postura dell’io: alla fedeltà per il canone modernista
della rappresentazione indiretta di sé attraverso situazioni e
personaggi (il correlativo di Eliot, gli oggetti di Montale) è
subentrato infine il racconto privato, l’autobiografia. «La capacità di
parlare direttamente di me in prima persona è stata una conquista molto
lenta», si legge nell’Autoritratto del 2003, pubblicato a
stampa per la prima volta all’inizio del secondo volume di
quest’edizione einaudiana. Una capacità maturata anche nel confronto con
poeti di generazioni più giovani e dispiegata senza portare la voce in
maschera (Raboni, che anche per questo non amava comprensibilmente il
Montale tardo, lo fa pochissime volte e quasi soltanto nelle poesie
d’occasione). Senza, soprattutto, l’imbarazzo di ammettere, come in Barlumi di storia,
le verità tragicamente semplici che altri avrebbero accomodato dietro
reticenze ed eleganze ironiche. Verità politiche: «Ricordo troppe cose
dell’Italia. / Ricordo Pasolini / quando parlava di quant’era bella / ai
tempi del fascismo. / […] Il punto / è che è tanto più facile /
immaginare d’essere felici / all’ombra d’un potere ripugnante / che
pensare di doverci morire». E verità esistenziali: «Si farà una gran
fatica, qualcuno direbbe / che si muore – ma a quel punto / ogni cosa
che poteva succedere sarà successa […] / E tutto, anche le foglie, che
crescono / anche i figli che nascono, / tutto, finalmente, senza
futuro».
Questo intervento è già uscito su «Alias» e oggi 10 ottobre 2014
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