“Arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli ingranaggi, fermare tutto. E far capire a chi la guida che fino a quando non saremo liberi non potremo permettere a quella macchina di funzionare...”.
E così Mario Savio,
giovane studente di Berkeley, salì sul tetto di un auto della
polizia e con il suo gesto fece scoccare la scintilla che avrebbe
infiammato il mondo. Era il primo ottobre 1964.
Quando saliranno sui tetti delle auto i giovani d'oggi per bloccare il sistema?
Enrico Deaglio
Il ragazzo
sulla macchina
“Lo studente che cambiò
il mondo” oggi avrebbe settantadue anni. Avrebbe potuto diventare
un grande leader politico, ma non volle: la vita pubblica gli avrebbe
richiesto troppi compromessi; quella privata fu fin troppo
tormentata. Morì giovane, per un infarto, a soli cinquantaquattro
anni. Si chiamava Mario Savio e il primo ottobre 1964 all’università
di Berkeley — cinquant’anni fa — diventò il simbolo genuino e
quasi involontario di un movimento degli studenti che sarebbe poi
esploso in tutto il mondo quattro anni dopo, nello storico 1968. Ed
ecco come andò la storia.
Siamo nell’autunno del
1964, nel campus di Berkeley, la più antica delle università
statali della California, nella baia di San Francisco; l’anno che
si avvia a finire è un concentrato di contraddizioni americane. John
Kennedy è stato ucciso da appena dieci mesi, il repubblicano Barry
Goldwater — uno che vede comunisti dappertutto e vorrebbe tirare la
bomba atomica su Mosca — sfida il democratico texano Lyndon Johnson
per diventare presidente. I ragazzi americani cominciano a morire in
numero allarmante in un lontano posto chiamato Vietnam; nel
Mississippi e in Alabama strani pastori battisti marciano chiedendo
la fine della segregazione razziale e la televisione mostra immagini
di attivisti picchiati, derisi, e qualche volta uccisi. Berkeley è
il più grande campus della California, ventimila studenti bianchi,
figli della nuova middle class.
Di loro si dice che sono
stati concepiti tra l’entrata in guerra e la prima licenza del
coscritto. Le ragazze hanno i capelli cotonati; occhiali di
celluloide e camicia bianca per i maschi. Ci sono anche i primi
gruppi politici del post maccartismo, che fanno propaganda alle più
svariate cause; chiedono di poter svolgere liberamente l’attività
politica dentro il campus, in particolare nella Sproul Plaza, il
luogo di incontro studentesco su cui si affacciano biblioteche,
laboratori, uffici, il teatro.
Ma il rettore, Clark Kerr, è uno
dalle idee chiare: niente volantini, niente raccolta di fondi, niente
comizi con megafoni. Per il rettore Kerr, «le idee devono restare
fuori dal campus, l’università è una fabbrica e serve a riempire
le teste vuote, per farle lavorare per il sistema». Il rettore
autorizza la polizia a circolare nel campus per garantire che la
nuova classe dirigente non venga a contatto con idee strane.
Il primo ottobre la polizia ferma uno studente, Jack Weinberg, che ha allestito un tavolino da cui pubblicizza l’attività del CORE, il gruppo politico che si batte per il diritto al voto dei neri negli stati segregati del sud. Weinberg si rifiuta di dare i documenti, la polizia lo chiude in macchina, una folla di studenti accorre a proteggerlo. Ed ecco che uno sconosciuto studente si fa avanti. Alto, magrissimo, capelli a cespuglio, occhi azzurri, si toglie le scarpe «per non danneggiare una proprietà dello Stato» e sale sul tettuccio dell’automobile della polizia.
Si chiama Mario Savio,
viene da New York, figlio di emigrati siciliani. Rivendica il diritto
degli studenti a parlare, scandisce « free speech! », invita gli
studenti a resistere, ad opporre il proprio corpo al sopruso, «in
modo non violento, ma con dignità». La trattativa, con Weinberg
chiuso in macchina e i poliziotti intorno, durerà trentadue ore (!)
fino a quando il rettore accetta di liberarlo. Ma non torna sui suoi
passi sui divieti e la polizia diventa ospite fisso del campus.
Il 2 dicembre quattromila studenti si ritrovano di nuovo nella Sproul Plaza e di nuovo quello studente, Mario Savio, prende il microfono. Questa volta pronuncia il breve discorso che resterà nella storia della grande oratoria americana. Non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi: “Il rettore ci ha detto che l’università è una macchina; se è così, allora noi ne saremo solo il prodotto finale, su cui non abbiamo diritto di parola. Saremo clienti — dell’industria, del governo, del sindacato… Ma noi siamo esseri umani! Se tutto è una macchina, ebbene… arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli ingranaggi, sulle leve, sull’apparato, fermare tutto. E far capire a chi sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché non saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare”.
Tutti i ragazzi che ascoltarono (la scena si può vedere oggi in tutto il suo pathos sulla Santa You Tube) furono rapiti dalla passione, dalla semplicità e dalla forza morale del discorso (anni fa, una testimone oculare mi disse. «Mario sembrava Mosè e noi di fronte al Mar Rosso»). Partì un corteo, guidato dalla cantante Joan Baez che cantava We shall overcome . La polizia, schierata in forze, eseguì 792 arresti, gli studenti vennero portati in varie prigioni della California. Con gli studenti in carcere, il Free Speech Movement ottenne però la sua prima vittoria, quando il Senato accademico di Berkeley votò a stragrande maggioranza la libertà di parola e di propaganda nel campus.
Il movimento presto
dilagò in tutte le università americane, diventando la spina
dorsale del movimento contro la guerra in Vietnam, e la forza fresca
delle idee di giustizia sociale.
Mario Savio diventò così la prima icona politica degli anni Sessanta, il suo simbolo libertario: poter parlare liberamente, ribellarsi all’autorità ottusa. Con Mario Savio risbocciarono due protagonisti: l’università, un po’ Alma Mater, ma anche luogo dell’inquietudine, e lo Studente, immaginario e reale, come la principale forza di contestazione della società. Gli emuli di Savio saranno tantissimi in tutto il mondo e, in qualche modo, anche il ragazzo di Tien An Men che si mette davanti al carrarmato (usare il corpo per fermare gli ingranaggi del potere) è un po’ figlio suo.
Mario Savio diventò così la prima icona politica degli anni Sessanta, il suo simbolo libertario: poter parlare liberamente, ribellarsi all’autorità ottusa. Con Mario Savio risbocciarono due protagonisti: l’università, un po’ Alma Mater, ma anche luogo dell’inquietudine, e lo Studente, immaginario e reale, come la principale forza di contestazione della società. Gli emuli di Savio saranno tantissimi in tutto il mondo e, in qualche modo, anche il ragazzo di Tien An Men che si mette davanti al carrarmato (usare il corpo per fermare gli ingranaggi del potere) è un po’ figlio suo.
Ma chi era quel ragazzo col megafono? I giornali lo fecero diventare immediatamente una star, l’Fbi lo etichettò (e lo vessò per vent’anni) come spia comunista, gli stessi movimenti di sinistra lo guardavano come un animale non ortodosso. Mario Savio, però, non apparteneva a un cliché; era piuttosto il frutto del melting pot newyorchese. Primo nato in America della famiglia, cresciuto in una casetta nel quartiere di Queens, con un nonno (don Peppino) emigrato da Santa Caterina Villermosa, provincia di Caltanissetta, ammiratore di Mussolini; il padre, operaio in fonderia, che aveva servito con l’esercito americano proprio in Sicilia e che litigava continuamente con il nonno, la mamma silenziosa.
Il ragazzo Mario serviva
messa in parrocchia e veniva preso in giro a scuola per quel nome e
cognome con così tante vocali e perché balbuziente; a quindici anni
si scoprì un piccolo genio della fisica (aveva scoperto un errore
nelle tabelle della Marina americana sulla propagazione del suono in
acque profonde, aveva mandato il suo lavoro alla Westinghouse, che lo
aveva premiato con una borsa di studio) e così era arrivato a
Berkeley.
Mario a quel punto aveva maturato dubbi su molte cose. Sulla Chiesa (non era più cattolico praticante), sulla giustezza di quanto gli avevano insegnato nelle esercitazioni a scuola: era proprio vero che sarebbe bastato rannicchiarsi, mettersi la maschera antigas e respirare contro vento per salvarsi dalla bomba atomica? Sulla guerra appena finita: come era stato possibile che il popolo tedesco non sapesse niente dell’olocausto? Mario Savio — che fu sempre di poche parole e non lasciò scritti importanti — si descrisse così parecchi anni dopo essere diventato una star: «Un membro della prima generazione che si conquistò il diritto di vedere le cose».
Queste idee lo portarono,
nelle estati universitarie, prima ad aiutare i poveri in un paese
messicano, poi a cercare di organizzare il voto dei neri nel
Mississippi. Fu quest’ultima esperienza, durante la quale fu
arrestato e picchiato, a segnarlo. Disse, «ho visto che cosa è
l’ingiustizia e che cosa è la tirannia». E, tornato al campus,
aveva concluso: «Mi sentirei un Giuda se dopo essere stato in
Mississippi a spingere i neri a lottare per i propri diritti, non
facessi lo stesso per i diritti degli studenti violati dal rettore».
Il ragazzo che l’Fbi
considerava uno dei dieci uomini più pericolosi d’America
scomparve quasi subito dalla scena. L’università di Oxford in
Inghilterra gli offrì un insegnamento, ma in Inghilterra Mario non
si trovò bene. Tornò a San Francisco, lavorò come bibliotecario,
si presentò senza successo alle elezioni del Senato della California
con il partitino “Pace e libertà”, insegnò fisica e
letteratura. Mille persone commosse, a Berkeley, lo ricordarono
quando morì nel 1996.
Altri, nella baia di San
Francisco, erano diventati, nel frattempo, capi di movimenti, in
qualche modo figli del suo esempio. Harvey Milk, che per primo al
mondo aveva fatto vedere che si poteva essere eletti a una carica
pubblica, in quanto omosessuale. Steve Jobs, studente fallito, aveva
fatto vedere che si poteva, in un garage, sfidare il monopolio della
Ibm. A Mario, quando morì, intitolarono un grande bar nel campus —
dove sono le gigantografie in bianco e nero del Free Speech Movement
— una targa dove fece il famoso discorso e un monumento nella via
principale della città.
Ma Berkeley, come tutto,
è cambiata. Ci sarà un ciclo di conferenze per ricordare Savio. Uno
studente ha chiesto «dove trovo il programma?» e quando gli hanno
detto: «là, sul tavolo, c’è un volantino», ha guardato storto.
«E cos’è un volantino?». Nessuno usa più i volantini; d’altra
parte i vecchi volantini e i muri dei dormitori dove gli studenti
pinzavano bigliettini con i loro desideri, sono stati lo spunto per
la costruzione di Facebook.
I trentaseimila studenti di Berkeley sono oggi in maggior parte asiatici e il campus è quieto. Savio aleggia, quasi sconosciuto, come un buon papà del secolo scorso. L’università — tutte le università, verrebbe da dire — da tempo non sono più il centro della contestazione. La libertà di parola è un diritto acquisito. Anzi, ce n’è fin troppa. — Appuntamenti per il 2 dicembre, a cura del circolo Mario Savio. Ore 17, corso sulla Sproul Plaza per imparare a cantare in coro canzoni di protesta e gospel. Ore 21, conferenza in sostegno ai lavoratori dei fast food in lotta per l’aumento della paga minima oraria.
La Repubblica – 5
ottobre 2014
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