1958, finisce l’era
dell’autoconsumo e si apre quella dell’industria alimentare.
Mario Soldati con le sue inchieste televisive registra con acume i
cambiamenti in atto. Terza e ultima tappa del nostro viaggio nella storia
gastronomica d'Italia.
Benedetta Diamanti
La resistenza di mondi
divini
Siamo nel 1958, anno di
confine. Questa è la definizione data da
Guido Crainz dell’anno che segna il punto di non ritorno per
l’Italia e l’avvio del boom economico: c’è una
forte impennata nello sviluppo industriale, inizia
l’esodo dei meridionali verso le città industriali
settentrionali, le campagne si spopolano
e si diffondono nuovi fenomeni di costume, come
ad esempio la televisione.
Un altro anno cruciale
è il 1968, quando finalmente si raggiungono le
3000 calorie medie per abitante. Così, in ritardo rispetto
a molti paesi europei, inizia a spezzarsi il
rapporto fra cibo e territorio e si
sviluppa l’industria alimentare, che fornisce
prodotti convenienti e accessibili per
tutti. Finisce l’era dell’autoconsumo.
Pian piano il modello
alimentare «urbano» si diffonde e cadono
le antiche distinzioni tra città e campagna,
si impongono prodotti destinati a diventare
simbolo dell’italianità a tavola, come la pasta, il
parmigiano, la mozzarella, i biscotti
e infine la diffusione su larga scala della carne, per
una popolazione che aveva avuto fino ad allora
un’alimentazione sostanzialmente vegetariana.
Povertà quindi non è più sinonimo di denutrizione
e si apre la corsa al cibo, divenuto a tutti gli
effetti status symbol del conquistato
benessere.
Un decennio di cambiamenti di cui si fa interprete Mario Soldati. Scrittore, regista, giornalista, sempre al passo con i tempi, pronto a cogliere con sensibilità e acume i cambiamenti in atto. Presente fin dal primo giorno di trasmissione della televisione italiana, il 3 gennaio 1954, con un suo film, decide di cimentarsi nel ruolo di conduttore tra il 1956 e il 1957. Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini è la sua prima trasmissione, che gli darà notorietà, creando la sua immagine memorabile: basco, occhiali tartarugati, baffo e l’immancabile sigaro.
Appassionato
gastronomo, sentendo vicina la fine di un’epoca, avverte la
necessità di fissare in qualche modo il tempo, di
documentare un’Italia che sta mutando. Sulla scia del
Ghiottone errante di Monelli, Soldati si mette in viaggio
adottando un punto d’osservazione laterale, eppure
efficace per l’interpretazione della società: il cibo. Per
Soldati praticare la cucina del luogo in cui si
viaggia vuol dire conoscerlo con immediatezza,
approcciare con semplicità tradizioni,
cultura, usi.
Oltre a creare uno
straordinario documento di antropologia
sociale, Soldati capisce la necessità di fare
intrattenimento, crea così una trasmissione
dinamica e accattivante che riproduce la
cadenza ritmata della sua prosa. Incontra i personaggi
più disparati, agricoltori, pescatori,
imprenditori, produttori di vino e con tutti
dialoga: incalza, interrompe, domanda, spiega, con uno
stile chiaro e sempre fluente.
Il viaggio si snoda
in maniera asistematica, senza la pretesa di
voler vedere tutto, sulla scia dell’ispirazione momentanea,
mostrando un paese dall’indole dialettale, legato alle
tradizioni locali, eppure in movimento verso nuovi
orizzonti. L’obiettivo del viaggio è trovare
il cibo genuino, ma dare una definizione univoca di
genuinità è difficile anche per Soldati,
che oscilla di continuo tra l’approvazione per le
acquisizioni moderne e la volontà di rifugiarsi
in un passato nostalgico e più vicino al «naturale».
Dopo un decennio
decide di mettersi di nuovo in viaggio per il
progetto di Vino al vino, Alla scoperta dei vini
genuini, che esce a tre riprese, nel 1968, nel 1971 e infine
l’ultimo viaggio nel 1975. Siamo nel clou
dell’industrializzazione italiana, gli anni dell’avanzata
della società dei consumi e di un benessere diffuso.
Dovendo ammettere i lati positivi del progresso,
tuttavia ne porta alla luce anche le conseguenze,
nella fattispecie per la cultura enologica
italiana, che ha subìto un processo veloce di decadenza
da quando gli italiani hanno tagliato i legami con la
campagna.
Soldati vuole capire
qual è la verità sulla condizione dei vini in
Italia, se dietro ai nomi è rimasto ancora
qualcosa di buono. Anche in questi viaggi
è asistematico, segue il sentimento
e l’intuito. Non vuole stilare una lista di vini, ma
insegnare un metodo, quello della ricerca strenua
e continua, la curiosità di guardare al di
là dei pochi nomi noti, di cercare ciò che di genuino rimane.
Bisogna andare dal vino, per poterlo assaggiare veramente,
e così fa Soldati, che visita cantina dopo cantina,
interrogando le persone del vino, dialogando
animatamente, indagando su metodi di raccolta,
di produzione, di conservazione, senza paura
di scendere nei dettagli tecnici.
Ma parlare del vino
è vano, ogni assaggio è legato alla contingenza,
ogni bottiglia è un mondo a sé, qualcosa
di unico e irripetibile. Il vino è ineffabile,
non ci sono parole sufficienti a descriverlo,
appartiene più alla sfera del sogno, al di là del
linguaggio. Tuttavia Soldati non smette mai
di tentare, innescando col lettore il gioco del
desiderio, lettore e autore condividono
quello spazio vuoto che si crea là dove le parole non bastano
più.
Il vino non potrà essere
descritto, ma parla a chi sa ascoltarlo e racconta
la storia della sua produzione, l’impegno del
vinificatore, la terra che lo ha prodotto, il
sole che ha fatto maturare l’uva. Con Vino al
vino Soldati vuole insegnare il metodo più efficace
per far parlare il vino, le domande che bisogna porgli.
Con il suo viaggio vuole spronare i lettori
a mettersi alla ricerca: per trovare i propri
vini genuini, le proprie isole felici che oppongono
resistenza al dilagare della società dei consumi con
il lavoro onesto. Senza estremismi e toni accesi
Soldati ci invita a combattere e a
perseverare, ad avere fiducia in un’idea.
«Se l’Italia resiste,
se l’Italia si salverà, lo dovrà, prima che a tutti gli
altri, a gente come questa: che accetta la nuova civiltà
ma solo fino a un certo punto; che non crede necessario,
progredendo, rinunciare a tutto il passato;
che non vede insanabili contraddizioni tra
i costumi moderni e quelli antichi; che ha nelle sue
mani anche l’avvenire del vino».
Il Manifesto – 24
ottobre 2014
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