01 novembre 2014

L'INDIMENTICABILE PASOLINI




Pasolini, la profezia sbagliata per difetto

di Oliviero Beha


Era una domenica esattamente come la prossima, il 2 novembre 1975, quando Pasolini venne assassinato. Non c’era la tv del mattino, e tantomeno Internet, e la notizia cominciò a circolare nei giornali radio. Adesso, dopo quasi una generazione e mezza, mentre i suoi libri continuano a essere tradotti in tutto il mondo e la filmografia ogni tanto ce lo ricorda, come per il film discutibile di Abel Ferrara su di lui, almeno in Italia le sue idee, che ancora affascinano i giovani, sono estranee al dibattito pubblico, quello per esempio sul Pd tra la Leopolda e San Giovanni. Oppure quello sull’interrogatorio eccentrico, eccentricissimo, del Presidente Napolitano nel processo alla “trattativa Stato-mafia” (le due maiuscole sono da intendersi solo come segni diacritici, non un attestato di valore: cfr. le polemiche su Grillo e “la morale della mafia di una volta”).
Mi riesce difficile non sentire in occasioni simili il buco, la mancanza di un’intelligenza forte e non pusillanime come quella di uno scrittore di cui magari non resterà tutto, ma di sicuro sopravviverà la veggenza socioculturale. Resisto alla tentazione banale e improduttiva di chiedermi che cosa avrebbe detto oggi: di Renzi e del suo monopolio propagandistico con il codazzo di “cani del Sinai” (Fortini, ma anche Flaiano) dietro al carro del vincitore; della manifestazione di San Giovanni, del milione di protestanti e di quella parte di sinistra considerata non senza motivo alla stregua di vecchi arnesi intercambiabili; dell’interrogatorio al Quirinale, meglio se confrontato con il celeberrimo “Io so… io so… ma non ho le prove” del “romanzo delle stragi” di Pier Paolo.
Invece mi guardo attorno: le considerazioni del poeta sul consumismo che aveva antropologicamente cambiato i connotati degli italiani si sono rivelate una profezia sbagliata, ma per difetto. Ormai gli italiani non ci sono più, sono stati polverizzati culturalmente ed economicamente a colpi di spread, tv e quant’altro, in un Paese svuotato di morale personale e di etica collettiva, in cui anche la battaglia per la legalità può assumere una veste tecnica, amministrativa, politica, in definitiva amorale mutuando stilemi mentali dall’illegalità. Va bene quel che succede in aula a Berlusconi, non va bene se succede a De Magistris. Quanto agli intellettuali, categoria di riferimento pasoliniana comprensiva anche dei media e dei sottomedia di allora, ditemi il nome di una figura pubblica che oggi abbia il coraggio di non avere paura o vantaggi o interessi minuti o massimi che lo tacitino.
Che dica di Renzi semplicemente chi è e che cosa fa, astraendolo dal confronto con la classe dirigente che l’ha preceduto sul quale – anche comprensibilmente – prospera. Che gli faccia notare che avere un partito al 41 e magari anche al 51%, in un Paese distrutto, significa solo amministrare un deserto per sé e per i suoi, cosa che non mi mette di un’allegria sconfinata. Forse sarebbe meglio vincere nel Paese, e rischiare di perdere le elezioni, dico così, per capirci. Uno, pasolinianamente o no, che non si esima dallo stigmatizzare gli effetti di un sindacalismo pernicioso non nei suoi ideali bensì nei suoi comportamenti, da cinghia di trasmissione con la politica e con le relative poltrone, al punto che oggi in giro per Roma riconosci un sindacalista piccolo, medio o grande dalla sua fisiognomica: sono diventati un’espressione antropologica. Uno, infine, che dica dei media che sono pienamente corresponsabili di un Paese sfasciato, più sfasciato che ai tempi del fascio. Ed è davvero tutto dire, anche se alla Leopolda si è celebrato, con grande attenzione all’“eterno femminino”, il “nuovo che avanza”: certo, ma in un paesaggio ormai spettrale. Che birba, quell’ottimista di Pier Paolo.

Oliviero Beha, Il Fatto Quotidiano


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