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Corpo e pensiero in Nietzsche, secondo Klossowski
di Giuseppe Zuccarino
Pierre Klossowski rappresenta una poliedrica figura di
narratore, saggista, filosofo, traduttore, disegnatore. Spetta a lui,
fra l’altro, il merito di aver tradotto in francese classici del
pensiero tedesco come le Meditazioni bibliche di Hamann, la Gaia scienza e i Frammenti postumi 1887-1888 di Nietzsche, il Tractatus e le Ricerche filosofiche di Wittgenstein, il Nietzsche
di Heidegger. Ma non meno importanti sono i suoi studi su alcuni
pensatori moderni e contemporanei. Da tutti gli scritti klossowskiani,
siano essi letterari o saggistici, emerge una visione molto personale
del linguaggio, dell’arte e dell’esistenza in genere, che ha esercitato
un significativo influsso sui filosofi della generazione successiva, in
special modo Deleuze e Foucault.
I suoi primi testi brevi su Nietzsche risalgono agli anni Trenta,
però ad essi ne succedono altri, che trovano il loro culmine in un libro
assai più tardivo, Nietzsche et le cercle vicieux[1].
Si tratta di un’opera sorprendente, dato che in essa l’autore, pur
riportando, nella propria traduzione, numerosi passaggi degli scritti
postumi e delle lettere nietzschiani, sceglie di non tener conto degli
studi precedenti sul filosofo tedesco. Tutto ciò, del resto, viene
dichiarato fin dall’esordio: «Ecco un libro che testimonierà di una rara
ignoranza: come si può anche solo parlare del “pensiero di Nietzsche”
senza mai fare il punto su ciò che è stato detto dopo? Non si corre
forse il rischio di mettere i propri passi su piste percorse più d’una
volta, su orme calcate e ricalcate – di porre incautamente quesiti ormai
superati – dando in tal modo prova di una negligenza, di una totale
mancanza di scrupoli nei confronti delle minuziose esegesi che, anche di
recente, sono state intraprese […]? Qual è dunque il nostro proposito –
ammesso che ne abbiamo uno? Poniamo che quello che abbiamo scritto sia
un falso studio. Per il solo fatto che leggiamo Nietzsche nel
testo, che lo ascoltiamo parlare, ciò significa forse che lo facciamo
parlare per “noi stessi” e traiamo partito dal bisbiglio, dal respiro,
dagli scoppi di collera e di riso di questa prosa, la più insinuante che
si sia mai formata nella lingua tedesca – la più irritante, anche?»[2].
Se l’ignoranza è senz’altro fuori questione e se l’originalità
dell’interpretazione proposta da Klossowski è indubbia, è vero però che
egli cerca di realizzare una fusione tra le idee di Nietzsche e le
proprie. Il fatto che il libro sia incentrato su scritti e lettere
nietzschiani dell’ultimo periodo (dal 1880 al 1889) pone all’autore il
problema di come situarsi in rapporto al tema dell’insorgere della
follia nel filosofo tedesco. Su questo punto, Klossowski si mostra
subito deciso, persino perentorio: «In Nietzsche il pensiero lucido, il
delirio e il complotto formano un tutto indissolubile: indissolubilità
che diventa criterio per stabilire d’ora innanzi che cosa avrà o non
avrà rilevanza. Tale pensiero non sarebbe dunque “patologico” perché
implica il delirio; al contrario, esso assume l’aspetto
dell’interpretazione delirante proprio perché è altamente lucido»[3].
Siamo dunque lontanissimi da quelle interpretazioni tradizionali che
cercano di stabilire con precisione il discrimine cronologico oltre cui
il pensiero nietzschiano deve ritenersi alterato, reso inattendibile,
dalla pazzia. Poiché per Klossowski follia e lucidità coincidono, è
chiaro che i termini stessi del problema subiscono una drastica
modifica.
A
suo avviso, Nietzsche contesta fin dall’inizio le istanze di controllo
costituite sia dai principi di identità e di realtà, sia dalle autorità
costituite in ambito filosofico e scientifico. Dapprima lo fa in maniera
più timida, limitandosi a parlare della Grecia antica e ponendosi nella
posizione dell’insegnante; poi, però, «l’umore o la tonalità
dell’anima, in quanto contagiosa, prendono il sopravvento sulla
dimostrazione […]: Nietzsche introduce nell’insegnamento ciò che nessuna
autorità garante della trasmissione delle conoscenze (la filosofia) si è
mai sognata di insegnare»[
4]. E ben presto la tonalità
dell’anima sopprime la possibilità stessa dell’insegnamento, conduce a
un mutismo che il filosofo tedesco riesce però a tradurre in pensiero: «
Identificandosi con questo ostacolo muto dell’umore
per pensarlo, il “professor Nietzsche” distrugge non solo la propria identità, ma anche quella delle
istanze parlanti. Di conseguenza sopprime
la loro presenza nel suo discorso: e, con essa, il principio stesso di
realtà»[
5].
Ciò non gli impedisce di assegnare a sé, in quanto filosofo, un
ruolo attivo nei confronti degli altri; egli si pone, anzi, il problema
di scegliere la migliore strategia da adottare: «Bisogna conquistare le
coscienze per provocare un “evento” (
spaccare in due la storia dell’umanità),
oppure tale evento, che il filosofo teme (le conseguenze della
scomparsa del Dio unico, garante delle identità, e il ritorno di
molteplici dèi), non deve egli dapprima
mimarlo, seguendo la semiotica gestuale degli
Indovini e dei
Profeti?»[
6].
Com’è noto, Nietzsche percorre entrambe le strade, ma al tempo stesso
respinge la posizione del filosofo insegnante, giudicandola la meno
efficace di tutte. Dal suo punto di vista, non si tratta più solo di
sceverare il vero dal falso, vocazione tipica dei filosofi, ma anche di
distinguere il sano dal malato, tenendo presente che la spinta creativa,
quando si manifesta, può assumere dapprima il carattere della malattia.
«Soggetto a variazioni valetudinarie, e avendo il continuo timore che
il suo pensiero potesse risentire dei suoi stati depressivi, Nietzsche
ritenne rivelatore il sondare da questo punto di vista ciò che i
pensatori prima di lui avevano offerto sotto forma di pensiero: il loro
rapporto con la vita, col vivente, vale a dire gradi di
elevazione e di caduta d’intensità,
sotto tutte le forme di aggressività, di tolleranza, d’intimidazione,
di angoscia, di bisogno di solitudine o al contrario di oblio di sé in
mezzo alle effervescenze di un’epoca»[
7].
Klossowski pone al centro del proprio studio il rapporto che si
stabilisce in Nietzsche, e secondo Nietzsche, fra il corpo e il
pensiero. Si tratta in effetti di un problema essenziale agli occhi del
filosofo tedesco, come si rileva ad esempio da un passo non citato nel
libro klossowskiano: «L’inconsapevole travestimento di necessità
fisiologiche sotto il mantello dell’obiettivo, dell’ideale, del
puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli – e abbastanza
spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non
sia stata fino a oggi principalmente soltanto una spiegazione del corpo e
un
fraintendimento del corpo. Dietro i supremi giudizi di
valore, da cui fino a oggi è stata guidata la storia del pensiero, sono
nascosti fraintendimenti della condizione corporea sia da parte di
individui che di classi o di razze intere. È legittimo ravvisare in
tutte quelle ardite stravaganze della metafisica, specialmente nelle sue
risposte alla domanda sul
valore dell’esistenza, in primo
luogo e sempre i sintomi di determinati corpi: e se anche, tutto
sommato, in tali affermazioni o negazioni del mondo non v’è, a misurarle
scientificamente, un granello di significato intrinseco, esse
costituiscono tuttavia per lo storico e lo psicologo indici tanto più
apprezzabili, in quanto sintomi, come si è detto, del corpo, del suo
riuscire bene o male, della sua pienezza, potenzialità, dominio di sé
nella storia, oppure invece delle sue inibizioni, stanchezze,
scadimenti, del suo presentire la fine, del suo volere la fine […]: in
ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino a oggi, di “verità”,
ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita…»[
8].
Nietzsche intende effettuare anche su di sé un’indagine di questo
tipo: «Noialtri assetati di ragione, vogliamo guardare negli occhi le
nostre esperienze di vita così severamente come se fossero un
esperimento scientifico, ora per ora, giorno per giorno! Vogliamo essere
noi stessi i nostri esperimenti e le nostre cavie»[
9].
Ciò avviene in due modi diversi: da un lato egli si sforza di far sì
che le proprie idee non subiscano il condizionamento negativo che
potrebbe esercitare su di esse la malattia, dall’altro cerca di
ricavare, dalle sofferenze che prova, delle scoperte sul piano
conoscitivo. Klossowski riporta vari estratti di lettere nelle quali il
filosofo si lamenta dei problemi fisici (forti attacchi di mal di testa,
nausea, dolori agli occhi e crescente miopia). Al tempo stesso, però,
Nietzsche considera tale condizione, pressoché insopportabile, come
rivelatrice sul piano del pensiero: «L’esistenza mi
pesa spaventosamente:
me ne sarei liberato da un pezzo se non fosse proprio questo stato di
sofferenza e di rinuncia quasi totale quello che mi permette di fare le
prove e gli esperimenti più istruttivi nella sfera spirituale e morale –
la lietezza che mi dà questa sete di conoscenza mi solleva ad altezze
tali che riesco a trionfare di ogni tormento e di ogni disperazione.
Tutto sommato sono più felice di quanto lo sia mai stato in vita mia.
Eppure! Sofferenza ininterrotta, ogni giorno, per ore e ore, una
sensazione di intorpidimento molto simile al mal di mare mi rende
difficile anche il parlare; a questo stato si alternano attacchi
violenti (l’ultimo mi ha fatto vomitare per 3 giorni e 3 notti, agognavo
di morire). Non essere in grado di leggere! Rarissimamente di scrivere!
Nessun contatto umano!»[
10].
Non è chiaro quale fosse l’origine delle cefalalgie di cui soffriva
Nietzsche; certo è che esse lo costringevano a una continua ricerca del
modo di vivere e di scrivere più compatibile col suo stato. Si sa ad
esempio che egli camminava molto all’aperto, annotando a tratti, su
taccuini, appunti che poi trascriveva, correggendoli e sviluppandoli.
Cambiava spesso luogo di residenza, cercando ogni volta il clima e
l’alloggio più adatti, a seconda della stagione dell’anno, e inoltre
tentava di sperimentare sempre nuove cure e regimi dietetici, nella
speranza che gli portassero giovamento. Klossowski ricorda queste cose,
ma sostiene in proposito un’interpretazione tendenziosa: a suo avviso,
Nietzsche desidera soffrire, perché considera i dolori come un
linguaggio attraverso cui il corpo vuol comunicargli qualcosa di
importante: «Non solo egli interpreta la sofferenza come energia, ma la
vuole tale: la sofferenza fisica è vivibile solo in quanto è
strettamente legata al godimento, in quanto sviluppa una lucidità
voluttuosa: o essa spegne ogni possibile pensiero, oppure raggiunge il
delirio del pensiero»[
11]. In effetti, però, esiste in
Nietzsche anche la convinzione opposta, cosa che spiega il suo ostinato
desiderio di cercare in tutti i modi la salute; non a caso egli scrive:
«Quando un filosofo è malato, ciò costituisce già quasi un
argumentum contro la sua filosofia»[
12].
Klossowski preferisce ignorare dichiarazioni del genere, anche perché, a suo avviso, il corpo «è solo il
luogo d’incontro di un insieme di impulsi individuati per l’intervallo costituito da una
vita umana, impulsi che
aspirano solo a disindividuarsi»; la persona si crede installata in un corpo, «ma questo corpo proprio non è altro che un
incontro fortuito d’impulsi contraddittori»[
13].
Beninteso, egli non sta inventando di sana pianta, ma accentua e
personalizza certe affermazioni di Nietzsche – che peraltro non cita –,
nelle quali veniva chiaramente riconosciuta la molteplicità dell’io.
Vediamo solo alcuni esempi, tra i tanti possibili: «L’io non è la
posizione di
un essere rispetto a più esseri (istinti, pensieri, e così via); bensì, l’
ego è una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta come
ego[
14]. E ancora: «L’intelletto è evidentemente solo uno
strumento,
ma nelle mani di chi? Senza dubbio degli affetti; e questi sono una
pluralità dietro la quale non è necessario porre un’unità […]. Forse non
è necessario assumere
un soggetto unico; forse è altrettanto
permesso assumere una pluralità di soggetti, la cui fusione e lotta
stiano alla base del nostro pensiero e in genere della nostra
coscienza»[
15]. Klossowski, da parte sua, insiste
sull’idea che gli impulsi siano distinti non solo da un soggetto
centralizzato, ma persino da un soggetto plurale, ed aspirino a divenire
autonomi e dominanti. Deve riconoscere, però, che per Nietzsche le cose
non stanno in questi termini: «Egli lotta al tempo stesso con gli
impulsi che vanno e vengono, e per una
coesione nuova del suo pensiero con il corpo in quanto pensiero
corporante: fa ciò seguendo quello che chiama a più riprese
il filo conduttore del corpo:
dunque cerca di tenere quel filo d’Arianna nel labirinto tracciato
dagli impulsi a seconda delle alternanze dei suoi stati valetudinari»[
16].
Klossowski ci presenta il filosofo tedesco in preda ad attacchi
sempre più violenti non tanto della sofferenza fisica o mentale, quanto
piuttosto degli impulsi, che tendono a disgregare il suo io, agendo come
se fossero «delegati dal
Caos»[
17]. Ma in
realtà Nietzsche non subisce affatto passivamente i propri disturbi,
bensì li analizza e cerca di comprendere – in generale e non solo in
riferimento al proprio caso specifico – in che modo funzioni
l’interazione fra impulsi e coscienza, così come quella fra mente e
corpo.
Si potrebbe pensare che Klossowski operi nei confronti di Nietzsche
una sorta di psicoanalisi, volta a privilegiare l’importanza che i
fattori inconsci avrebbero in rapporto al pensiero cosciente. Tuttavia
questo è vero solo in parte, perché nell’ottica klossowskiana la stessa
distinzione fra conscio e inconscio è da ritenersi inadeguata: «Le
nozioni di
coscienza e
incoscienza, formate a partire da ciò che sarebbe responsabile o irresponsabile, presuppongono sempre l’
unità della persona dell’io, del soggetto – distinzione puramente istituzionale»[
18].
Il problema, secondo Klossowski, è diverso: in ogni persona, e non solo
in Nietzsche, esiste un fondo impulsionale, che risulta, a rigore,
incomunicabile se si cerca di esprimerlo ricorrendo al «codice dei segni
quotidiani»[
19]. L’unico modo per restare davvero
fedeli al Caos degli impulsi sarebbe il mutismo, mentre se si sceglie la
via della comunicazione ci si espone ad ogni sorta di malinteso. Che
queste tematiche siano tipiche di Klossowski è indubbio, ma la loro
applicazione al filosofo tedesco appare piuttosto forzata.
Nel libro, un ruolo di grande rilievo viene assegnato alla teoria
dell’eterno ritorno: «Il pensiero dell’Eterno Ritorno del Medesimo
giunge a Nietzsche come un
brusco risveglio provocato da una
Stimmung, da una certa tonalità dell’anima: confuso con questa
Stimmung, esso se ne libera facendosi pensiero, ma mantiene il carattere di una rivelazione, ossia di un
improvviso disvelarsi»[
20].
Klossowski non nega l’interpretazione etica della teoria, secondo cui
essa ci invita ad agire come se dovessimo, e volessimo, rivivere
infinite volte le stesse esperienze, ma insiste sul ruolo che l’idea
dell’eterno ritorno conferisce all’oblio e alla perdita dell’identità.
Tale perdita, a sua volta, viene posta in connessione con un’altra
celebre idea del filosofo: «La “morte di Dio” (del Dio garante
dell’identità dell’io responsabile) apre all’anima tutte le sue
possibili identità già esperite nelle diverse
Stimmungen
dell’anima nietzschiana; la rivelazione dell’Eterno Ritorno porta con sé
di necessità le realizzazioni successive di tutte le identità
possibili: “in fondo io sono tutti i nomi della storia”»[
21].
Anche qui Klossowski sta attribuendo a Nietzsche qualcosa di diverso
rispetto a quanto ha affermato, perché una cosa è rivivere infinite
volte la propria identità, e ben altra cosa è rivivere in sequenza, nel
corso di innumerevoli cicli cosmici, quella di tutti. È difficile
sostenere una simile interpretazione basandosi su una frase contenuta
nell’ultimo dei «biglietti della follia», di tono burlesco-delirante,
nel quale Nietzsche, dopo aver detto di essere Dio, Vittorio Emanuele
II, l’assassino Prado, l’architetto Antonelli e altri ancora, conclude:
«Quello che è spiacevole e che mette a prova la mia modestia è che in
fondo io sono tutti i nomi della storia»[
22]. Eppure è
proprio questa la tesi klossowskiana: «Nell’istante in cui mi viene
rivelato l’Eterno Ritorno io cesso di essere me stesso
hic et nunc
e sono suscettibile di diventare innumerevoli altri, sapendo che
dimenticherò tale rivelazione una volta che sarò uscito dalla memoria di
me stesso»[
23].
Ma
a Klossowski, come abbiamo visto, non basta dissolvere il soggetto
unico nella pluralità dei soggetti, perché deve ancora sostituire a
quest’ultima la fluttuazione delle intensità, che si sprigionano a loro
volta da una profondità caotica: «Il significato, costituendosi solo
nell’afflusso,
non si stacca mai del tutto dai mobili abissi che ricopre. Ogni significato resta in funzione del Caos generatore di senso»[
24].
Se le intensità, al loro massimo grado, potranno ancora individuarsi in
una qualche forma, non sarà di certo in quella umana, bensì piuttosto
in quella di una molteplicità divina: «Il girotondo degli dèi che
s’inseguono è ancora, nella visione mitica di Zarathustra, soltanto una
spiegazione del moto di flusso e riflusso dell’intensità delle
Stimmungen nietzschiane, la più alta delle quali gli si manifestò sotto il segno del
Circulus vitiosus deus»[
25].
A ragion veduta, Klossowski omette di citare il passo nietzschiano
in cui si incontra quest’ultima espressione, perché in esso il filosofo
non parla affatto di vivere e rivivere esistenze
diverse.
Scrive Nietzsche: «Chi, come me, si è sforzato a lungo, in una specie di
enigmatica bramosia, di pensare sino in fondo il pessimismo e di
liberarlo dalla ristrettezza e dall’ingenuità […], costui ha forse,
senza propriamente volerlo, aperto proprio con ciò gli occhi sull’ideale
opposto: l’ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita e più
affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e
a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta
l’eternità, tutto questo,
così come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente:
da capo
non soltanto a se stesso, ma all’intero dramma e spettacolo, e non
soltanto a uno spettacolo, ma fondamentalmente a colui che proprio di
questo spettacolo ha bisogno – e lo rende necessario: poiché egli ha
sempre di nuovo bisogno di se stesso – e si rende necessario – – Come? E
non sarebbe questo –
circulus vitiosus deus?»[
26].
Nonostante ciò, Klossowski ribadisce la propria opinione, secondo cui
quello dell’eterno ritorno è un pensiero che cessa di apparirci
terribile, e diventa divino, solo quando capiamo che non comporta la
ripetizione di un’unica vita: «L’annuncio a prima vista opprimente,
ossia il
ricominciamento ad infinitum dei medesimi atti, delle medesime sofferenze,
appare ormai come la redenzione stessa, non appena l’anima sa di aver
percorso e di essere destinata a percorrere ancora altre individualità,
altre esperienze»[
27].
Tornando al tema del rapporto fra corpo e pensiero, l’autore spiega
che Nietzsche si trova di fronte alla necessità di distinguere ciò che è
sano da ciò che è malato, ma al tempo stesso non può semplicemente
prendere posizione a favore del primo elemento. Il filosofo tedesco
infatti sa bene che la persona sana segue perlopiù le tendenze gregarie,
mentre è piuttosto il malato, l’uomo della
décadence, a
rappresentare la singolarità individuale. Quindi la salute appare, da
questo punto di vista, un fattore negativo, che ha prodotto i valori
tradizionali, e la malattia si rivela all’opposto creatrice di nuovi
valori. Sarebbe troppo semplice, però, se bastasse capovolgere i criteri
consueti: «
Salute e
malattia non sono niente di
essenzialmente diverso, come credevano i vecchi medici e come ancor oggi
credono alcuni praticanti. Non se ne devono fare princìpi o entità
distinti che si disputino l’organismo vivente facendone il proprio campo
di battaglia. […] In realtà, tra queste due forme di esistenza ci sono
differenze di grado: l’esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei
fenomeni normali costituiscono lo stato di malattia»[
28].
Occorre dunque saper effettuare una diagnosi accurata, che consenta di
distinguere, ad esempio, tra un dominio di sé che sia segno di forza e
un’autolimitazione attuata in nome di presunti valori (disvalori, agli
occhi di Nietzsche) come quelli cristiani dell’umiltà o della
rassegnazione. In maniera analoga, uno stato fortemente energetico può
risultare tanto da un’esaltazione malsana – quella del fanatico,
dell’esaltato religioso –, quanto da una proficua esuberanza di forze.
Il filosofo tedesco deve porsi di continuo problemi di questo tipo, e
non solo su un piano teorico generale, ma anche riflettendo sulla
propria condizione personale: «L’esperienza stessa dell’Eterno Ritorno
non attestava in Nietzsche
ciò che proprio lui aveva denunciato come
esaurimento? Egli era
sì o no vittima di ciò che designa come il
più pericoloso malinteso, quello cioè che confonde i
sintomi dell’esaurimento con quelli dell’eccesso di vita, della ricchezza?»[
29].
Klossowski cita giustamente la testimonianza di Lou Andreas-Salomé
riguardo al momento in cui il filosofo le aveva comunicato la sua idea
dell’eterno ritorno: «Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo
confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla
cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne
parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo
sgomento. E Nietzsche in effetti soffriva così profondamente della vita
che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di
raccapricciante. […] Diventare l’annunciatore di una dottrina che
risulta sopportabile solo nella misura in cui l’amore per la vita prende
il sopravvento, che può avere un effetto esaltante solo laddove il
pensiero umano s’innalza fino alla divinizzazione della vita, doveva in
verità rappresentare una contraddizione tremenda per il suo più intimo
modo di sentire»[
30]. Secondo Klossowski, invece, il
turbamento del filosofo si spiega col timore di essere impazzito: è
proprio questo timore ciò che lo induce ad intraprendere degli studi
allo scopo (ovviamente non conseguibile) di trovare una dimostrazione
scientifica della teoria dell’eterno ritorno. Persino un’opera
importante quale
Così parlo Zarathustra non risolve la tensione
interiore di Nietzsche; anzi, col suo stile profetico, non fa che
acuire l’esigenza di fornire in seguito un chiarimento decisivo: «Tanto
più forte l’obbligo di dare a tale profezia un commento “sistematico”.
L’incomprensibile evidenza dell’estasi di Sils-Maria, l’intensità
esplicita in questa vertigine del Ritorno, in una parola l’
alta tonalità dell’anima, non è più quella di Nietzsche: essa viene
mimata tramite la
gesticolazione declamatoria di Zarathustra»[
31].
Klossowski dedica ampio spazio all’esame dei progetti (alquanto
folli e reazionari) elaborati dal filosofo tedesco riguardo a come si
potrebbe giungere a una selezione degli individui superiori di contro
alla massa gregaria, e li considera sempre in base alla propria opinione
secondo cui, in Nietzsche, pazzia e lucidità crescono assieme. L’autore
francese mostra di apprezzare le elucubrazioni socio-politiche
nietzschiane, giudicandole anticipatrici nei confronti della società
attuale. Ma non è su questa parte del suo libro, assai discutibile anche
sotto il profilo ideologico, che ci interessa soffermarci, e neppure
sulla successiva, in cui egli si dedica a variazioni di tipo
psicoanalitico sul ruolo delle figure paterna e materna (intese in senso
reale e simbolico) nella biografia intellettuale di Nietzsche, bensì
piuttosto sui capitoli finali, nei quali torna in primo piano il tema
dell’interazione fra corpo e pensiero.
Il problema è sempre quello di capire se, in fondo, sia da preferire la
salute o la malattia. Klossowski ritiene che il filosofo tedesco, a
dispetto delle sue dichiarazioni in senso opposto, negli ultimi anni si
sia orientato sempre più a favore della condizione patologica: «Nella
misura in cui sa di essere egli stesso malato e debole, rivalorizza
questi stati dell’esistenza, modificando così, e quindi arricchendo di
ulteriori sfumature, la propria discriminazione. Ecco riabilitato il
malato perché ha una compassione maggiore e al tempo stesso è il solo ad
aver “inventato la malizia”; riabilitate le razze vecchie, decadenti,
perché sono tanto più dotate di spirito; riabilitati il
buffone e il
santo»[
32]. Ciò spiegherebbe anche il ruolo crescente che svolgono, negli scritti e lettere di quel periodo, le componenti istrioniche.
Le interpretazioni tradizionali del crollo mentale nietzschiano
appaiono a Klossowski illecite, perché pretendono di valutare il
filosofo tedesco in base a quelle concezioni ottimiste della vita
psichica che, per l’appunto, egli si era sforzato di distruggere. Ma «in
che modo Nietzsche era giunto a negare la serenità dell’intelletto, se
non a partire dalle forze centrifughe del Caos? Ciò non significa che
abbia invocato tali forze: più ne temeva l’irruzione imminente, più
lottava contro l’incoerenza, e più subiva l’attrazione del discontinuo e
dell’arbitrario»[
33]. Nell’ottica klossowskiana,
quest’attrazione è sempre stata presente in Nietzsche, e dunque alla
fine non ha fatto altro che manifestarsi allo scoperto: «La visione
(paranoica) del mondo e della propria situazione, a partire da Torino,
costituisce un sistema dettato, organizzato dal pathos nietzschiano: è
il periodo in cui il gesto si sostituisce al discorso; la sua stessa
parola, oltrepassando il livello “letterario”, deve ormai essere
esercitata come un attentato dinamitardo. Nietzsche è ormai convinto di
perseguire non la realizzazione di un sistema, ma l’applicazione di un
programma. Lo trascina a ciò la straordinaria euforia degli ultimi
giorni torinesi»[
34].
Di essa troviamo ampie tracce nella corrispondenza nietzschiana. A
Klossowski interessa in particolare lo scambio di lettere col grande
scrittore svedese August Strindberg: «L’acerba ironia di Strindberg si
accorda, per una singolare coincidenza, con la tonalità dell’anima, al
tempo stesso violenta ed euforica, di Nietzsche […]. Strindberg, che ha
già una lunga esperienza delle proprie crisi paranoiche e che, verso la
fine del 1888, conosce un periodo tra i più cupi della sua esistenza,
non si rende ancora conto dello stato d’animo torinese di Nietzsche.
Prenderà le sue ultime parole per sfumature stilistiche, o per semplici
moti d’umore»[
35]. E in effetti è uno spettacolo
inconsueto quello offerto dall’apparente sintonia epistolare che si crea
tra queste due persone inclini all’ironia e all’esaltazione. Persino
quando il filosofo tedesco scrive: «Ho indetto una riunione di principi a
Roma, voglio far fucilare il giovane Imperatore. Arrivederci!
Poiché ci rivedremo…
Une seule condition: Divorçons…»,
firmandosi «Nietzsche Caesar», lo scrittore svedese gli risponde a
tono, ossia con un breve messaggio in greco e in latino firmato
«Strindberg (Deus, optimus maximus)»[
36].
Klossowski considera significativo il fatto che altri biglietti
nietzschiani dello stesso periodo rechino le firme «Dioniso» o «Il
Crocefisso», e commenta: «Mai Nietzsche sembra perdere la nozione del
proprio stato: egli
simula Dioniso o il Crocefisso e si
compiace di tale enormità. Ed è appunto in questo compiacimento che
consiste la sua follia: nessuno può giudicare fino a che punto
la simulazione sia perfetta, assoluta;
il suo criterio sta nell’intensità che egli prova nel simulare, fino
all’estasi: ora qui, per giungere a una simile gioia estatica,
un’immensa derisione liberatrice deve averlo sostenuto in quei pochi
giorni, i primi dell’anno ’89, nelle strade di Torino, quasi un
superamento della sua sofferenza morale»[
37]. Per lo
scrittore francese, i «biglietti della follia» sono dunque lucidi, visto
che in essi Nietzsche mostra di accettare la perdita dell’identità: «
Ciò di cui ha coscienza, è appunto del fatto di aver smesso di essere Nietzsche, di essersi come svuotato della propria persona»[
38].
Il venir meno del principio di realtà, il cedimento al gusto per la
teatralità e l’istrionismo costituiscono, agli occhi di Klossowski, la
meta infine raggiunta dell’intero percorso filosofico nietzschiano. Per
quanto, come abbiamo visto, egli ricorra a volte al termine «paranoia»,
non lo considera né adeguato né squalificante: «Quali che siano le
definizioni “cliniche” che si possono dare del comportamento di
Nietzsche prima e durante il periodo torinese (1887-1888) – parafrenia,
demenza precoce, paranoia, schizofrenia – tali definizioni sono
stabilite dal
di fuori, cioè a partire dalle norme istituzionali»[
39].
Secondo lui, l’euforia del filosofo non costituisce un sintomo
allarmante, confermato del resto dal successivo crollo, ma rappresenta
all’opposto «un
beneficio per l’insieme del pathos nietzschiano»[
40].
È
naturale che Klossowski interrompa la propria ricostruzione della vita
del filosofo a questo punto, ossia con la citata lettera del gennaio
1889 in cui Nietzsche dichiara di essere «tutti i nomi della storia». Se
si fosse spinto più oltre, avrebbe dovuto descrivere l’impazzimento
definitivo, il trasporto del malato nel manicomio di Basilea, poi in
quello di Jena (periodo in cui le cartelle cliniche sono impietose nel
descriverne il contegno), e infine i lunghi anni trascorsi nella casa
materna a Naumburg e in una villa a Weimar con la sorella, ormai ridotto
a un mutismo e a un’immobilità quasi totali, fino al decesso nel 1900[
41].
È vero che tutto questo si colloca dopo la fine, o piuttosto
l’interruzione, dell’opera filosofica di Nietzsche, ma non può essere
arbitrariamente staccato dal periodo torinese solo per creare
l’illusoria impressione che tutto termini con una pazzia lucida e
gioiosa, con una dionisiaca perdita d’identità.
Abbiamo già accennato in più punti al fatto che, per quanto
originale, l’interpretazione delle idee di Nietzsche offerta da
Klossowski risulta poco persuasiva. Il suo libro, però, non va
considerato solo come un’opera di carattere teorico. In esso, infatti,
egli trasforma il filosofo tedesco in un personaggio, per certi aspetti,
immaginario. Di ciò si è accorto Jean Decottignies, che osserva: «Se si
volesse caratterizzare il contributo klossowskiano alla biografia di
Nietzsche, si potrebbe dire che ne elabora una vera e propria deriva
finzionale»[
42]. Ma la cosa, del resto, viene in parte
ammessa dall’autore stesso: «Anche se nelle mie opere speculative su
Sade o su Nietzsche predominano l’ordine della morale, della riflessione
e della metafisica, ritengo che in esse non sia assente la
drammaturgia»[
43].
Sempre in questa chiave, diventa più comprensibile perché egli
abbia assegnato, nella sua lettura del filosofo tedesco, un ruolo così
importante al rapporto fra corpo e pensiero, fra linguaggio verbale e
linguaggio gestuale. Basta leggere l’incipit di un importante saggio di
Gilles Deleuze: «L’opera di Klossowski è costruita su un sorprendente
parallelismo tra il corpo e il linguaggio, o piuttosto sul riflettersi
dell’uno nell’altro. Il ragionamento è l’operazione del linguaggio, ma
la pantomima è l’operazione del corpo»[
44]. Qualcosa di
analogo può dirsi per la scelta klossowskiana di confrontarsi col
tratto finale dell’itinerario filosofico di Nietzsche, cosa che implica
un confronto col tema della follia. Anche in ciò, infatti, agisce il
particolare temperamento dello scrittore francese: «Da lunga data ero
attratto dalle costruzioni mentali o plastiche che dipendono
immediatamente dalla patologia, e ciò niente affatto in un senso
“disinteressato”, che forse mi avrebbe portato agli studi medici, ma
perché, sentendomi dall’altro lato (visione ancora tutta medioevale,
dovuta alla mia formazione cattolica, che assimila i prodotti
spettacolari della follia alla vita religiosa), mi chiedevo con quale
sotterfugio, in certi casi, tali costruzioni avessero potuto trionfare
sulla tirannia del senso comune che il loro costruttore subiva da parte
d’un ambiente “volgare”. È così che, ben prima di frequentare amici
psichiatri o psicoanalisti, ossia fin dall’adolescenza, sceglievo
preferibilmente autori la cui biografia rivelasse una qualche anomalia:
ogni anomalia mi sembrava allora un’invenzione dell’autore stesso»[
45].
Occorrerebbe uno studio specifico per mostrare come Nietzsche sia
divenuto per Klossowski non solo un interlocutore sul piano filosofico,
ma anche un personaggio presente nelle opere narrative, sia tramite
richiami alle sue idee, sia in maniera più complessa e spettacolare,
come nel caso del romanzo
Le Baphomet[
46]. Ci
accontentiamo qui di fare un accenno al versante pittorico della
produzione klossowskiana: incontriamo infatti l’immagine del filosofo in
alcuni dei suoi disegni a matite colorate, legati ai temi del citato
romanzo oppure autonomi[
47]. A questi ha accennato lo stesso Klossowski, ricordando che «
Sade o
Nietzsche […] riappaiono, in effetti, in grandi composizioni:
Sade dans sa cellule de la Bastille méditant sur la mort de Justine,
Nietzsche couronné d’épines par le dernier Pape, au côté de Strindberg effrayé, e nel quadro intitolato
La Nef des fous, ispirato a un celebre capitolo dell’
Histoire de la folie
di Michel Foucault, che vi compare anche lui, per aver raccolto sulla
medesima barca, fra gli altri, Freud, Bataille, Gilles de Rais e me
stesso bambino»[
48]. Tutto questo ci aiuta a capire che
Klossowski non intende affatto mantenere verso Nietzsche la distanza
critica adottata di solito dagli studiosi del filosofo, ma all’opposto
si sente in un rapporto di prossimità decisamente maggiore: quella di
chi si trova, appunto, sulla stessa barca.
__________________________
Note
[
1] P. Klossowski,
Nietzsche et le cercle vicieux, Paris, Mercure de France, 1969, che citeremo nella «nouvelle édition revue et corrigée» del 1990 e indicheremo con la sigla
NCV (tr. it.
Nietzsche e il circolo vizioso, Milano, Adelphi, 1981).
[
2]
NCV, p. 11 (tr. it. p. 11; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[
3]
Ibid., p. 12 (tr. it. p. 13).
[
4]
Ibid., p. 15 (tr. it. p. 15).
[
5]
Ibid., p. 15 (tr. it. p. 16).
[
6]
Ibid., p. 23 (tr. it. p. 24). Il filosofo, oltre che in varie lettere, anche in
Ecce homo
attribuisce a se stesso, in quanto smascheratore della morale
cristiana, il ruolo di chi «spacca in due la storia dell’umanità»
(Friedrich Nietzsche,
Ecce homo, in
Opere, vol. VI, tomo III, tr. it. Milano, Adelphi, 1970; 1986, p. 383).
[
7]
NCV, p. 26 (tr. it. p. 27).
[
8] F. Nietzsche,
Prefazione alla seconda edizione di
La gaia scienza, in
Opere, vol. V, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1965; 1991, pp. 18-19.
[
9] F. Nietzsche,
La gaia scienza,
ibid., p. 217.
[
10] F. Nietzsche, lettera a Otto Eiser, primi di gennaio 1880, in
Epistolario, IV: 1880-1884, tr. it. Milano, Adelphi, 2004, p. 3.
[
11]
NCV, p. 51 (tr. it. p. 55).
[
12] F. Nietzsche, lettera a Reinhart e Irene von Seydlitz del 24 novembre 1885, in
Epistolario, V:1885-1889, tr. it. Milano, Adelphi, 2011, p. 115.
[
13]
NCV, pp. 53-54 (tr. it. pp. 57, 59).
[
14] F. Nietzsche,
Frammenti postumi 1879-1881, inOpere, vol. V, tomo I, tr. it. Milano, Adelphi, 1964; 1986, p. 439.
[
15] F. Nietzsche,
Frammenti postumi 1884-1885, inOpere, vol. VII, tomo III, , tr. it. Milano, Adelphi, 1975, pp. 334 e 336-337.
[
16]
NCV, p. 56 (tr. it. p. 61).
[
17]
Ibid., p. 59 (tr. it. p. 63).
[
18]
Ibid., pp. 66-67 (tr. it. p. 70).
[
19] La stessa idea viene esposta da Klossowski nella
Postface alla propria trilogia narrativa
Les lois de l’hospitalité, Paris, Gallimard, 1965, pp. 333-350 (tr. it.
Postfazione dell’autore, in
Le leggi dell’ospitalità, Milano, ES, 2005, pp. 319-334).
[
20]
NCV, p. 93 (tr. it. p. 95).
[
21]
Ibid., p. 94 (tr. it. p. 96).
[
22] F. Nietzsche, lettera a Jacob Burckhardt del 6 gennaio 1889, in
Epistolario, V, cit., p. 893.
[
23]
NCV, pp. 94-95 (tr. it. p. 97).
[
24]
Ibid., p. 99 (tr. it. p. 101).
[
25]
Ibid., p. 102 (tr. it. p. 105).
[
26] F. Nietzsche,
Al di là del bene e del male, in
Opere,
vol. VI, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1968; 1986, pp. 61-62.
Conviene ricordare che negli appunti postumi baudelairiani (almeno in
parte noti al filosofo tedesco) si legge una formula assai simile:
«Essenza divina del circolo vizioso» (C. Baudelaire,
Listes de titres et canevas de romans et nouvelles, in
Œuvres complètes, I, Paris, Gallimard, 1975, p. 592; tr. it.
Liste di titoli e appunti per romanzi e racconti, in
Opere, Milano, Mondadori, 1996, p. 1501).
[
27]
NCV, p. 107 (tr. it. pp. 110-111).
[
28] F. Nietzsche,
Frammenti postumi 1888-1889, inOpere, vol. VIII, tomo III, tr. it. Milano, Adelphi, 1974; 1986, p. 41.
[
29]
NCV, p. 143 (tr. it. p. 147).
[
30] L. Andreas-Salomé,
Friedrich Nietzsche,
tr. it. Milano, SE, 2009, p. 164. Assai simili sono i ricordi di
Overbeck: «Nel corso di un soggiorno a Basilea nell’estate del 1884,
Nietzsche mi fece delle rivelazioni sulla sua teoria dell’eterno
ritorno. Così un’altra volta, mentre giaceva a letto malato all’Hotel
della Croce Bianca, mi fece della confidenze relative alla sua dottrina
segreta, come aveva fatto poco prima, mi disse, alla signora Andreas:
circondandosi di mistero e con una voce volutamente smorzata come se
rivelasse un terribile segreto» (Franz Overbeck,
Ricordi di Nietzsche, tr. it. Genova, Il Melangolo, 2000, p. 21).
[
31]
NCV, p. 150 (tr. it. p. 154).
[
32]
Ibid., p. 295 (tr. it. p. 303).
[
33]
Ibid., p. 312 (tr. it. p. 321).
[
34]
Ibid., p. 324 (tr. it. pp. 335-336).
[
35]
Ibid., p. 326 (tr. it. p. 338).
[
36] Cfr. F. Nietzsche, lettera a Strindberg del 31 dicembre 1888, in
Epistolario, V, cit., p. 883 (il «giovane Imperatore» cui si allude è Guglielmo II di Germania) e risposta dell’1 gennaio 1889, cit.
ibid.,
p. 1321. In verità, però, come fanno notare i curatori del volume, a
quella data Strindberg ha già dei sospetti sull’effettiva condizione
mentale del filosofo tedesco.
[
37]
NCV, p. 334 (tr. it. pp. 346-347).
[
38]
Ibid., p. 334 (tr. it. p. 347).
[
39]
Ibid., p. 338 (tr. it. p. 351).
[
40]
Ibidem.
[
41] Su tutto ciò, si possono vedere i documenti raccolti nel libro di Anacleto Verrecchia,
La catastrofe di Nietzsche a Torino
(Torino, Einaudi, 1978), volume peraltro debole e persino deplorevole
dal punto di vista dell’interpretazione del pensiero nietzschiano.
[
42] J. Decottignies,
Nietzsche ironisé, in «Cahiers pour un temps», 1985, numero monografico su Klossowski, p. 47.
[
43] In
Entretien de Pierre Klossowski avec Rémy Zaugg (1981), in Bernard Lamarche-Vadel,
Klossowski, l’énoncé dénoncé, Paris, Marval-Galerie Beaubourg, 1985, p. 91.
[
44] G. Deleuze,
Klossowski ou les corps-langage (1965), in
Logique du sens, Paris, Éditions de Minuit, 1969, p. 325 (tr. it.
Klossowski o i corpi-linguaggio, in
Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 247).
[
45] P. Klossowski,
Protase et apodose, in «L’Arc», 43. 1970, p. 9.
[
46] Cfr. P. Klossowski,
Le Baphomet, Paris, Mercure de France, 1965 (tr. it.
Il Bafometto,
Milano, ES, 1994). Utili osservazioni riguardo alla presenza di temi
nietzschiani nella narrativa dell’autore si trovano nel già ricordato
saggio di Jean Decottignies.
[
47] Per i primi, si rinvia al catalogo
Pierre Klossowski e «Le Baphomet». Disegni inediti dalla collezione di Carmelo Bene, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 31 e 33.
[
48] Lettera di Klossowski ad Alain Jouffroy, inizio 1993, in P. Klossowski – A. Jouffroy,
Le secret pouvoir du sens. Entretiens, Paris, Éditions Écriture, 1994, pp. 167-168 (tr. it.
Il segreto potere del senso. Conversazioni, Genova, Graphos, 1997, p. 118). Il quadro
La Nef des fous, del 1990, è riprodotto nel catalogo
Pierre Klossowski. Tableux vivants, Paris, Gallimard-Centre Pompidou, 2007, p. 40.
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Le immagini contenute in questo post (
Pierre Klossowski,
Baphomet) sono tratte dal sito della
Fondazione Bevilacqua La Masa.