Promuovere la cultura siamo d’accordo, ma per favore facciamolo in modo sistematico
Qualche settimana fa a Bologna si è svolto un convegno organizzato dall’associazione Hamelin sugli adolescenti e la lettura. Per chi non li conosce, gli Hamelin sono un gruppo di Bologna che in questi anni, attraverso una rivista e cento iniziative, sono diventati un riferimento rispetto alla lettura per ragazzi e per l’infanzia. Incredibilmente, a seguire l’incontro c’erano 300 persone (insegnanti, bibliotecari, editori… che avevano pagato 35 euro l’una), il che mi sembrava quanto meno un indizio evidente di un interesse non marginale per questi temi oggi in Italia, oltre a manifestare una domanda enorme di formazione. Ha aperto la giornata Romano Montroni, libraio storico e neo-direttore del Cepell, il Centro per il Libro e la Lettura, e per fortuna ha dato un segno inequivocabilmente diverso rispetto al suo predecessore: se Gian Arturo Ferrari parlava di nuove strategie di mercato per vendere i libri nell’era del passaggio dal cartaceo al digitale, Montroni giustamente se ne frega di questa falsa questione e pone l’accento sugli interventi educativi. Quindi lancia per la fine di ottobre (29, 30, 31) una tre giorni di letture ad alta voce proprio nelle scuole, intitolata Libriamoci.
Si potrebbe applaudire all’iniziativa, se non fosse che per l’ennesima volta, mi sono venute in mente almeno un paio di obiezioni che da vari anni a questa parte chiunque si occupa di politica culturale pone. La prima, che senso hanno queste iniziative sporadiche, una tantum, simboliche, organizzate in modo volontaristico, con il feticcio della cultura come buona azione? La seconda, perché non partire dai modelli di promozione della lettura che già esistono, mapparli, metterli in rete, valutarli e da quelli progettare gli interventi?
Queste obiezioni non sono come si dice di scuola. (Quando vedo che il Tropico del Libro, un sito che si occupa di editoria, lancia Open Atlas sulla lettura per ragazzi, una rete che mappi le varie iniziative che esistono in Italia, dalla rivista Andersen a Biblioragazzi ai Piccoli Maestri, mi viene da dire: ma perché il Cepell arriva sempre dopo e sempre malino?) Ma, se dovessi farle queste osservazioni a voce, tradirebbero un tono un po’ recriminatorio. Da un po’ di anni ormai, c’è un folto numero di persone in Italia che si occupa di politiche culturali e lo fa supplendo a una mancanza o a una fragilità di forze, di competenze, e soprattutto di visione di chi ha un ruolo politico. Assessori imballati, responsabili culturali ingenui, decisori irresoluti, e una quantità nettamente eccessiva di impreparazione in ruoli chiave.
Ora questa funzione suppletiva per me deve finire. Per varie ragioni evidenti. La prioritaria è che il welfare culturale – il sistema dei teatri, dei musei, delle biblioteche, degli archivi… – sta crollando. Nelle ultime settimane solo a Roma ha chiuso il Teatro Eliseo e sono stati licenziati gli orchestrali dell’Opera. La risposta della politica a questa rovina strutturale è la riduzione dell’offerta, l’esternalizzazione, la resa. Mai, dico mai, la reazione è quella di immaginare una politica di sistema sulle leve dell’educazione culturale: introdurre uno studio del teatro o della musica serio nei licei, formare gli insegnanti alla promozione alla lettura (invece di una tre giorni), consentire una cogestione degli spazi pubblici attraverso forme di reale partecipazione e sussidiarietà, che non vogliono dire supplenza, volontariato, ma governo, presa di responsabilità.
Altrimenti, quando ogni anno, commentiamo i tassi crescenti di analfabetismo funzionali e tassi decrescenti di lettori, poi non facciamo finta che un po’ non è anche colpa nostra.
Quest’articolo è uscito su Pagina 99 . Noi l'abbiamo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/
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