«Il discorso assertivo afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. E’ un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto».
Renzi e Berlusca maghi del linguaggio assertivo
Si parla con…, si parla a… Vuol dire che parlare è innanzi tutto
comunicare. Ma se la comunicazione non arriva perché chi ascolta non
capisce la lingua di chi parla? E viceversa? Be’, smetteranno di
parlarsi. E se non possono smettere perché hanno interessi, bisogni,
pretese in comune? La situazione che si determina in questi casi è stata
descritta per la prima volta nella Bibbia e prende il nome dalla città
in cui avvenne: Babilonia. E le conseguenze furono talmente tragiche che
tutti, contemporanei e discendenti, furono d’accordo che, dopo il
Diluvio, la confusione delle lingue era la punizione più severa che Dio
potesse infliggere all’umanità. Non credo che Dio c’entrasse, ma per
quanto riguarda la gravità delle conseguenze, non ho dubbi.
Per questo mi preoccupa – e non da oggi – il fatto che il discorso pubblico in Italia si stia svolgendo su due registri diversi, lontani l’uno dall’altro fino al punto di far pensare a due lingue diverse, mentre sono entrambi in italiano.
Nella comunicazione politica italiana si fronteggiano interlocutori che utilizzano il discorso argomentativo e interlocutori che utilizzano il discorso assertivo. E anche i loro ascoltatori (gli italiani) sembra che si dividano tra chi capisce e ama il primo tipo di discorso e chi capisce e ama il secondo. Per discorso argomentativo intendo quel tipo di discorso che, rispettando i principi logici di causa ed effetto e di identità e non contraddizione, si svolge secondo il filo del ragionamento, esplicitando le premesse da cui parte, chiarendo i perché della scelta delle premesse e dei fatti che ne conseguono e concludendo con previsioni di risultati anch’esse razionalmente argomentate. E’ un discorso che non confonde la parte con il tutto, il singolare con il plurale; è un discorso basato su una corretta coniugazione dei verbi, sicché non confonde il presente con il desiderabile futuro; è un discorso che tiene conto del fatto che, quando si vuol cambiare qualcosa, bisogna intervenire anche sulle cause che hanno prodotto quella cosa.
Il discorso assertivo è tutt’altra cosa: afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. E’ un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto.
Spesso i politici di professione usano il linguaggio assertivo: è semplice da capire, diretto, immaginoso, tocca le corde profonde degli ascoltatori e consente con facilità di camuffare contraddizioni, di evitare rendicontazioni, in una parola di eludere i conti con la realtà. Mussolini era un maestro del linguaggio assertivo, che piaceva molto a molti italiani; fino alla tragica e grottesca conclusione, quel «Li fermeremo sul bagnasciuga» con cui annunciò agli italiani cosa intendeva fare quando gli Alleati fossero sbarcati in Sicilia.
Ma, ripeto, non c’è politico che non faccia ricorso ogni tanto al linguaggio assertivo, agli slogan: “Bandiera rossa trionferà” di contro a “ “I comunisti distruggono la famiglia”. Però ci sono state stagioni della vita politica italiana in cui il discorso assertivo fu utilizzato prevalentemente nei comizi, nei manifesti elettorali, magari nelle feste dell’Unità o nelle adunanze dell’Azione cattolica. Non nelle interviste, nelle conferenze stampa, nelle tribune politiche in tv. E nemmeno per illustrare proposte di legge da discutersi in Parlamento.
Le cose sono cambiate dalla discesa in campo di Berlusconi, altro maestro del linguaggio assertivo. Il milione di posti di lavoro, l’abolizione delle tasse, le grandi opere e il Ponte sullo stretto, la ricostruzione più rapida al mondo della città terremotata, i ristoranti pieni e i voli aerei tutti prenotati, per non ricordare che le asserzioni più celebri. Abilissimo utilizzatore della tv, Berlusconi asseriva anche con le immagini: ricordate l’edificante album di famiglia con cui si presentò in pubblico il patron delle cene eleganti?
Renzi si inserisce bene nella tradizione assertiva. Ha cominciato con l’affermazione dell’esigenza di rottamare (Chi? Perché?) onde realizzare il cambiamento (Quale? Come?) e prosegue con immaginose affermazioni, che raramente rispettano il principio di non contraddizione o chiariscono i rapporti di causa ed effetto.
Come già Berlusconi, anche Renzi ha successo. Il discorso argomentativo annoia, il discorso assertivo eccita, galvanizza. E’ un fatto, il discorso argomentativo è compreso e usato da un numero di persone in costante diminuzione; quello assertivo è sempre più apprezzato e praticato, anche nella sua forma che consiste nel dare sulla voce all’interlocutore (vedi i talk-shows). Questo sì che è un cambiamento, già in atto. E, che piaccia o no, va spiegato e capito. Cosa che tenterò di fare nel prossimo testo.
Per questo mi preoccupa – e non da oggi – il fatto che il discorso pubblico in Italia si stia svolgendo su due registri diversi, lontani l’uno dall’altro fino al punto di far pensare a due lingue diverse, mentre sono entrambi in italiano.
Nella comunicazione politica italiana si fronteggiano interlocutori che utilizzano il discorso argomentativo e interlocutori che utilizzano il discorso assertivo. E anche i loro ascoltatori (gli italiani) sembra che si dividano tra chi capisce e ama il primo tipo di discorso e chi capisce e ama il secondo. Per discorso argomentativo intendo quel tipo di discorso che, rispettando i principi logici di causa ed effetto e di identità e non contraddizione, si svolge secondo il filo del ragionamento, esplicitando le premesse da cui parte, chiarendo i perché della scelta delle premesse e dei fatti che ne conseguono e concludendo con previsioni di risultati anch’esse razionalmente argomentate. E’ un discorso che non confonde la parte con il tutto, il singolare con il plurale; è un discorso basato su una corretta coniugazione dei verbi, sicché non confonde il presente con il desiderabile futuro; è un discorso che tiene conto del fatto che, quando si vuol cambiare qualcosa, bisogna intervenire anche sulle cause che hanno prodotto quella cosa.
Il discorso assertivo è tutt’altra cosa: afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. E’ un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto.
Spesso i politici di professione usano il linguaggio assertivo: è semplice da capire, diretto, immaginoso, tocca le corde profonde degli ascoltatori e consente con facilità di camuffare contraddizioni, di evitare rendicontazioni, in una parola di eludere i conti con la realtà. Mussolini era un maestro del linguaggio assertivo, che piaceva molto a molti italiani; fino alla tragica e grottesca conclusione, quel «Li fermeremo sul bagnasciuga» con cui annunciò agli italiani cosa intendeva fare quando gli Alleati fossero sbarcati in Sicilia.
Ma, ripeto, non c’è politico che non faccia ricorso ogni tanto al linguaggio assertivo, agli slogan: “Bandiera rossa trionferà” di contro a “ “I comunisti distruggono la famiglia”. Però ci sono state stagioni della vita politica italiana in cui il discorso assertivo fu utilizzato prevalentemente nei comizi, nei manifesti elettorali, magari nelle feste dell’Unità o nelle adunanze dell’Azione cattolica. Non nelle interviste, nelle conferenze stampa, nelle tribune politiche in tv. E nemmeno per illustrare proposte di legge da discutersi in Parlamento.
Le cose sono cambiate dalla discesa in campo di Berlusconi, altro maestro del linguaggio assertivo. Il milione di posti di lavoro, l’abolizione delle tasse, le grandi opere e il Ponte sullo stretto, la ricostruzione più rapida al mondo della città terremotata, i ristoranti pieni e i voli aerei tutti prenotati, per non ricordare che le asserzioni più celebri. Abilissimo utilizzatore della tv, Berlusconi asseriva anche con le immagini: ricordate l’edificante album di famiglia con cui si presentò in pubblico il patron delle cene eleganti?
Renzi si inserisce bene nella tradizione assertiva. Ha cominciato con l’affermazione dell’esigenza di rottamare (Chi? Perché?) onde realizzare il cambiamento (Quale? Come?) e prosegue con immaginose affermazioni, che raramente rispettano il principio di non contraddizione o chiariscono i rapporti di causa ed effetto.
Come già Berlusconi, anche Renzi ha successo. Il discorso argomentativo annoia, il discorso assertivo eccita, galvanizza. E’ un fatto, il discorso argomentativo è compreso e usato da un numero di persone in costante diminuzione; quello assertivo è sempre più apprezzato e praticato, anche nella sua forma che consiste nel dare sulla voce all’interlocutore (vedi i talk-shows). Questo sì che è un cambiamento, già in atto. E, che piaccia o no, va spiegato e capito. Cosa che tenterò di fare nel prossimo testo.
Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2014
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