Ushuaia, storia di una
cittadina nella Terra del Fuoco che nasce nel 1948 con l’arrivo di
600 italiani dal Veneto. Una città italiana alla «fine del mondo»
che con i suoi panorami mozzafiato è diventata un'attrazione
turistica.
Stefano Fonsato
Il pallone più
australe
Il Sud – sì, con la
«s» maiuscola – come un vero e proprio stile di
vita. Orgoglio, fierezza, cicatrici: il punto
cardinale da cui sono partite un’infinità di
storie e su cui si fonda tutto ciò che riserva il
presente. E lo si può ben dire quando si parla di Ushuaia,
la città più australe del pianeta, in quell’Argentina mai
così troppo profonda da ricollegarsi comunque
all’Italia.
Una cittadina
che oggi conta circa 57mila abitanti la cui storia è stata
scritta, nel 1948 da una spedizione di oltre 613 italiani,
per lo più bolognesi (ma c’erano anche veneti e friulani)
partiti sulla nave «Genova» dal capoluogo ligure
e sbarcati da queste parti il 28 ottobre di
quell’anno dopo 32 giorni di traversata sotto la guida di
Carlo Borsari, imprenditore edile e mobiliere,
che a quei tempi si aggiudicò uno di quei tanti appalti
pensati dal governo di Buenos Aires per lo sviluppo
industriale argentino.
Di appalti se ne
aggiudicarono tanti, tantissimi gli
italiani. Borsari arrivò più a sud di tutti, in una
landa desolata e senza un vero perché, buona solo,
fino a quel tempo, per costruirci un grosso carcere (chiuso
proprio nel 1947). Il fascino paesaggistico della
Terra del Fuoco, l’amore per le bellezze naturali…
Tutti concetti (ri)scoperti con la modernità.
Al governo argentino
di Peron interessava (ri)costruire quella città,
popolarla, far fiorire economicamente
quelle lande e, grazie a quegli italiani di buona
volontà, ci riuscì.
La nave Genova in partenza per l'Argentina
Una spedizione
leggendaria
Nell’immediato
dopoguerra dello Stivale, con le città distrutte
e un’economia da far ripartire da sottozero, la
scelta di andarsene — anche dall’altro capo del pianeta
— rientrava nella normalità. Quella a Ushuaia
fu, a ben vedere, la spedizione più leggendaria,
avventurosa, ma che diede i suoi frutti.
D’altra parte le basi
erano solide: Borsari, infatti, si premurò di portarsi
appresso – oltre a tutto il materiale da costruzione
appositamente smontato — anche un parroco
e un’insegnante per i bambini.
E se prima «el Fin del
Mundo» metteva i brividi, ora è un concetto
che riempie d’orgoglio gli abitanti di queste parti,
tanto da diventare praticamente un brand
turistico e commerciale. Qui tutto gira attorno
al fatto che la civiltà finisca in questa cittadina,
poi, se si vuole proseguire col Pianeta Terra, si deve
essere profondi appassionati di Antartide. C’è
il Museo de la Fin del Mundo, le insegne degli esercizi
commerciali ripetono la Fin del Mundo come un mantra.
E c’è la squadra di calcio di Ushuaia, se mai ce ne
fosse ancora il bisogno, a ribadirlo: Los Cuervos
del Fin del Mundo.
Il Los Cuervos è una
società affiliata al San Lorenzo de Almagro, campioni
d’Argentina e squadra del cuore di Padre Bergoglio,
che – neanche a farlo apposta – si autodichiarò
«Papa pescato alla fine del mondo». Da bravi consociati,
anche i Los Cuervos vesto il rossoblù, come il
San Lorenzo e, non a caso, come il Bologna. Nell’archivio
fotografico della famiglia Borsari, spicca una
pagina di una rivista anni ’50, in cui si inneggiava
a una squadra di italiani che dominava nella
«Tierra del Fuego» e che si fregiava di indossare
i colori del Bologna, della squadra che tremare
il mondo faceva, figuriamoci poi alla «fine»…
«Qui a Ushuaia
molte cose ricordano l’Italia – spiega il difensore
ventinovenne dei Los Cuervos Marcelo «Chelo»
Sanchez -, i negozi di pasta fresca, le insegne
in lingua, il fatto che impazziamo per i sughi… Le
tradizioni sono rimaste, la gente che ricorda le
proprie origini anche, come in tanti punti dell’Argentina.
Forse da queste parti ancora di più…».
L'arrivo dei migranti a Ushaia
Campioni sistematici
I Los Cuervos sono
il punto di riferimento del calcio distrettuale
di Ushuaia, di cui si laureano campioni in carica (così
come avvenuto di recente) con una certa sistematicità:
inutile mettersi a spiegare il sistema
gerarchico del calcio argentino (il più complesso
al mondo), basti sapere che ci troviamo al sesto livello della
piramide: «E quindi non c’è spazio per gli stipendi,
nemmeno per i piccoli compensi ai giocatori
– prosegue «Chelo», che si lascia andare alla
proverbiale filosofia sportiva argentina
-. La mia vita gira attorno alla famiglia e al mio impiego
in tribunale qui in città. Il calcio resta puro
divertimento: sono in una squadra composta
essenzialmente da ragazzi molto giovani. L’umiltà
però non deve mai mancare e a quelli che credono che
la mia esperienza sia un grande aiuto, faccio notare che il
collettivo è tutto e che siamo tutti, allo
stesso modo, piccoli granelli di sabbia di una grande
spiaggia».
Di giorno in tribunale,
di sera sul campo di allenamento. La cornice è quella
di un paesaggio incontaminato, unico nel suo
genere: «…Dove le montagne innevate strizzano
l’occhio all’oceano – descrive con orgoglio Marcelo
–. Qui è tutto meraviglioso: ora è estate
e ci sono 17 ore di luce al giorno, l’aria è tra le più
pulite al mondo. In più la città è tranquilla, per
strada non si corre alcun tipo di pericolo: i nostri
bambini possono giocare indisturbati per ora
all’aria aperta. Certo, non è tutto rose e fiori…».
Già, non solo perché,
dopo le estati abbaglianti (in cui, comunque, non si arriva
mai a superare i 15–17 gradi di massima),
seguono inverni con poca luce naturale a disposizione
e dai paesaggi innevati (anche se mai tremendamente
ghiacciati), un po’ come quelli che si scorgono in alcuni
frammenti del film Diari della motocicletta: «Qui
i problemi più grossi sono legati agli spostamenti
– prosegue Chelo – Dall’Isola Grande della Terra del
Fuoco, dov’è situata Ushuaia, è difficile
andarsene. Le distanze col “mondo normale” sono
davvero notevoli e uscire da questa terra, per
quanto bella e appagante, è costosissimo».
«A Ushuaia comunque
c’è quanto di più completo una persona dai più vasti
orizzonti possa desiderare – chiosa il difensore
argentino -, l’incrocio di culture e mentalità
è certamente interessante: la città venne
fondata come luogo in cui i carcerati avrebbero
potuto trasferirsi per ricominciare una nuova
vita. Poi arrivarono gli stranieri, molti dei quali
italiani, che a più riprese si mescolarono con
gli originari della Terra del Fuoco e, col tempo, si
è creato un meltin’ pot di ampio respiro».
Ushaia
Un popolo di costruttori
Tornando alla
vicenda tricolore, alla spedizione del ’48 ne
seguì un’altra nel mese di agosto dell’anno successivo,
che porto a quota 1300 presenze italiane a Ushuaia
di cui costituivano il 40% della popolazione
totale. In molti tornarono dopo due anni di duro lavoro
(anche se remunerativo poiché riuscivano
a mantenere i famigliari rimasti in
Italia), altri rimasero dando seguito alle nuove
generazioni in Argentina. Fatto sta che gli italiani
costruirono, all’epoca, 140 case prefabbricate,
170 in mattoni (tuttora esistenti), la centrale
idroelettrica (attiva fino al 1981) e l’ospedale.
La vicenda delle
migrazioni generò anche un’interrogazione parlamentare
per presunto sfruttamento, archiviata però una
volta appurato che le condizioni di trattamento
degli operai erano buone.
E al porto che ospitò la
nave «Genova», il più importante dalle parti dello Stretto di
Magellano, lavora come stivatore il portiere dei
Los Cuervos, Federico Romero, o «El Loco», come viene
simpaticamente soprannominato: «Io
sono di Rosario e vivo a Ushuaia da cinque anni –
spiega –. Di questa cittadina mi sono innamorato
subito e ho deciso di restare.
I paesaggi che si
trovano qui non esistono da nessun’altra parte al mondo:
sembra di essere in alta montagna, ma allo stesso
tempo c’è l’oceano. Certo la vita al porto è dura e le
difficoltà più dure arrivano d’inverno: se la neve
cade abbondante, non ci si può più muovere, restiamo
tutti bloccati qui. Ma, in fondo, non è poi la fine del
mondo». O forse sì…
il manifesto – 3
febbraio 2015
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