04 febbraio 2015

USHUAIA, una città italiana alla "fine del mondo".



Ushuaia, storia di una cittadina nella Terra del Fuoco che nasce nel 1948 con l’arrivo di 600 italiani dal Veneto. Una città italiana alla «fine del mondo» che con i suoi panorami mozzafiato è diventata un'attrazione turistica.

Stefano Fonsato

Il pallone più australe
Il Sud – sì, con la «s» maiu­scola – come un vero e pro­prio stile di vita. Orgo­glio, fie­rezza, cica­trici: il punto car­di­nale da cui sono par­tite un’infinità di sto­rie e su cui si fonda tutto ciò che riserva il pre­sente. E lo si può ben dire quando si parla di Ushuaia, la città più australe del pia­neta, in quell’Argentina mai così troppo pro­fonda da ricol­le­garsi comun­que all’Italia.

Una cit­ta­dina che oggi conta circa 57mila abi­tanti la cui sto­ria è stata scritta, nel 1948 da una spe­di­zione di oltre 613 ita­liani, per lo più bolo­gnesi (ma c’erano anche veneti e friu­lani) par­titi sulla nave «Genova» dal capo­luogo ligure e sbar­cati da que­ste parti il 28 otto­bre di quell’anno dopo 32 giorni di tra­ver­sata sotto la guida di Carlo Bor­sari, impren­di­tore edile e mobi­liere, che a quei tempi si aggiu­dicò uno di quei tanti appalti pen­sati dal governo di Bue­nos Aires per lo svi­luppo indu­striale argen­tino.

Di appalti se ne aggiu­di­ca­rono tanti, tan­tis­simi gli ita­liani. Bor­sari arrivò più a sud di tutti, in una landa deso­lata e senza un vero per­ché, buona solo, fino a quel tempo, per costruirci un grosso car­cere (chiuso pro­prio nel 1947). Il fascino pae­sag­gi­stico della Terra del Fuoco, l’amore per le bel­lezze natu­rali… Tutti con­cetti (ri)scoperti con la modernità.

Al governo argen­tino di Peron inte­res­sava (ri)costruire quella città, popo­larla, far fio­rire eco­no­mi­ca­mente quelle lande e, gra­zie a que­gli ita­liani di buona volontà, ci riuscì.
      La nave Genova in partenza per l'Argentina
Una spe­di­zione leggendaria
Nell’immediato dopo­guerra dello Sti­vale, con le città distrutte e un’economia da far ripar­tire da sot­to­zero, la scelta di andar­sene — anche dall’altro capo del pia­neta — rien­trava nella nor­ma­lità. Quella a Ushuaia fu, a ben vedere, la spe­di­zione più leg­gen­da­ria, avven­tu­rosa, ma che diede i suoi frutti.
D’altra parte le basi erano solide: Bor­sari, infatti, si pre­murò di por­tarsi appresso – oltre a tutto il mate­riale da costru­zione appo­si­ta­mente smon­tato — anche un par­roco e un’insegnante per i bambini.
E se prima «el Fin del Mundo» met­teva i bri­vidi, ora è un con­cetto che riem­pie d’orgoglio gli abi­tanti di que­ste parti, tanto da diven­tare pra­ti­ca­mente un brand turi­stico e com­mer­ciale. Qui tutto gira attorno al fatto che la civiltà fini­sca in que­sta cit­ta­dina, poi, se si vuole pro­se­guire col Pia­neta Terra, si deve essere pro­fondi appas­sio­nati di Antar­tide. C’è il Museo de la Fin del Mundo, le inse­gne degli eser­cizi com­mer­ciali ripe­tono la Fin del Mundo come un man­tra. E c’è la squa­dra di cal­cio di Ushuaia, se mai ce ne fosse ancora il biso­gno, a riba­dirlo: Los Cuer­vos del Fin del Mundo.
Il Los Cuer­vos è una società affi­liata al San Lorenzo de Alma­gro, cam­pioni d’Argentina e squa­dra del cuore di Padre Ber­go­glio, che – nean­che a farlo appo­sta – si auto­di­chiarò «Papa pescato alla fine del mondo». Da bravi con­so­ciati, anche i Los Cuer­vos vesto il ros­so­blù, come il San Lorenzo e, non a caso, come il Bolo­gna. Nell’archivio foto­gra­fico della fami­glia Bor­sari, spicca una pagina di una rivi­sta anni ’50, in cui si inneg­giava a una squa­dra di ita­liani che domi­nava nella «Tierra del Fuego» e che si fre­giava di indos­sare i colori del Bolo­gna, della squa­dra che tre­mare il mondo faceva, figu­ria­moci poi alla «fine»…
«Qui a Ushuaia molte cose ricor­dano l’Italia – spiega il difen­sore ven­ti­no­venne dei Los Cuer­vos Mar­celo «Chelo» San­chez -, i negozi di pasta fre­sca, le inse­gne in lin­gua, il fatto che impaz­ziamo per i sughi… Le tra­di­zioni sono rima­ste, la gente che ricorda le pro­prie ori­gini anche, come in tanti punti dell’Argentina. Forse da que­ste parti ancora di più…».
      
       L'arrivo dei migranti a Ushaia
Cam­pioni sistematici
I Los Cuer­vos sono il punto di rife­ri­mento del cal­cio distret­tuale di Ushuaia, di cui si lau­reano cam­pioni in carica (così come avve­nuto di recente) con una certa siste­ma­ti­cità: inu­tile met­tersi a spie­gare il sistema gerar­chico del cal­cio argen­tino (il più com­plesso al mondo), basti sapere che ci tro­viamo al sesto livello della pira­mide: «E quindi non c’è spa­zio per gli sti­pendi, nem­meno per i pic­coli com­pensi ai gio­ca­tori – pro­se­gue «Chelo», che si lascia andare alla pro­ver­biale filo­so­fia spor­tiva argen­tina -. La mia vita gira attorno alla fami­glia e al mio impiego in tri­bu­nale qui in città. Il cal­cio resta puro diver­ti­mento: sono in una squa­dra com­po­sta essen­zial­mente da ragazzi molto gio­vani. L’umiltà però non deve mai man­care e a quelli che cre­dono che la mia espe­rienza sia un grande aiuto, fac­cio notare che il col­let­tivo è tutto e che siamo tutti, allo stesso modo, pic­coli gra­nelli di sab­bia di una grande spiaggia».
Di giorno in tri­bu­nale, di sera sul campo di alle­na­mento. La cor­nice è quella di un pae­sag­gio incon­ta­mi­nato, unico nel suo genere: «…Dove le mon­ta­gne inne­vate striz­zano l’occhio all’oceano – descrive con orgo­glio Mar­celo –. Qui è tutto mera­vi­glioso: ora è estate e ci sono 17 ore di luce al giorno, l’aria è tra le più pulite al mondo. In più la città è tran­quilla, per strada non si corre alcun tipo di peri­colo: i nostri bam­bini pos­sono gio­care indi­stur­bati per ora all’aria aperta. Certo, non è tutto rose e fiori…».
Già, non solo per­ché, dopo le estati abba­glianti (in cui, comun­que, non si arriva mai a supe­rare i 15–17 gradi di mas­sima), seguono inverni con poca luce natu­rale a dispo­si­zione e dai pae­saggi inne­vati (anche se mai tre­men­da­mente ghiac­ciati), un po’ come quelli che si scor­gono in alcuni fram­menti del film Diari della moto­ci­cletta: «Qui i pro­blemi più grossi sono legati agli spo­sta­menti – pro­se­gue Chelo – Dall’Isola Grande della Terra del Fuoco, dov’è situata Ushuaia, è dif­fi­cile andar­sene. Le distanze col “mondo nor­male” sono dav­vero note­voli e uscire da que­sta terra, per quanto bella e appa­gante, è costosissimo».
«A Ushuaia comun­que c’è quanto di più com­pleto una per­sona dai più vasti oriz­zonti possa desi­de­rare – chiosa il difen­sore argen­tino -, l’incrocio di cul­ture e men­ta­lità è cer­ta­mente inte­res­sante: la città venne fon­data come luogo in cui i car­ce­rati avreb­bero potuto tra­sfe­rirsi per rico­min­ciare una nuova vita. Poi arri­va­rono gli stra­nieri, molti dei quali ita­liani, che a più riprese si mesco­la­rono con gli ori­gi­nari della Terra del Fuoco e, col tempo, si è creato un mel­tin’ pot di ampio respiro».
      Ushaia
Un popolo di costruttori
Tor­nando alla vicenda tri­co­lore, alla spe­di­zione del ’48 ne seguì un’altra nel mese di ago­sto dell’anno suc­ces­sivo, che porto a quota 1300 pre­senze ita­liane a Ushuaia di cui costi­tui­vano il 40% della popo­la­zione totale. In molti tor­na­rono dopo due anni di duro lavoro (anche se remu­ne­ra­tivo poi­ché riu­sci­vano a man­te­nere i fami­gliari rima­sti in Ita­lia), altri rima­sero dando seguito alle nuove gene­ra­zioni in Argen­tina. Fatto sta che gli ita­liani costrui­rono, all’epoca, 140 case pre­fab­bri­cate, 170 in mat­toni (tut­tora esi­stenti), la cen­trale idroe­let­trica (attiva fino al 1981) e l’ospedale.
La vicenda delle migra­zioni generò anche un’interrogazione par­la­men­tare per pre­sunto sfrut­ta­mento, archi­viata però una volta appu­rato che le con­di­zioni di trat­ta­mento degli ope­rai erano buone.
E al porto che ospitò la nave «Genova», il più impor­tante dalle parti dello Stretto di Magel­lano, lavora come sti­va­tore il por­tiere dei Los Cuer­vos, Fede­rico Romero, o «El Loco», come viene sim­pa­ti­ca­mente sopran­no­mi­nato: «Io sono di Rosa­rio e vivo a Ushuaia da cin­que anni – spiega –. Di que­sta cit­ta­dina mi sono inna­mo­rato subito e ho deciso di restare. 
I pae­saggi che si tro­vano qui non esi­stono da nessun’altra parte al mondo: sem­bra di essere in alta mon­ta­gna, ma allo stesso tempo c’è l’oceano. Certo la vita al porto è dura e le dif­fi­coltà più dure arri­vano d’inverno: se la neve cade abbon­dante, non ci si può più muo­vere, restiamo tutti bloc­cati qui. Ma, in fondo, non è poi la fine del mondo». O forse sì…
il manifesto – 3 febbraio 2015

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