Beppe Fenoglio
Esce in questi giorni, per Einaudi, Il libro di Johnny
di Beppe Fenoglio, un’edizione radicalmente nuova del più importante
romanzo sulla Resistenza italiana. In un primo momento Fenoglio aveva
ideato un’unica grande storia che aveva come protagonista Johnny.
Partiva dagli anni del liceo ad Alba e proseguiva con il corso
ufficiali, l’8 settembre, il ritorno in Piemonte, l’adesione alla guerra
partigiana, il passaggio dai garibaldini ai badogliani. Poi, su
indicazioni editoriali, riscrisse la prima parte di questo progetto
trasformando Primavera di bellezza in un libro autonomo: tagliò
le prime ottanta pagine e aggiunse tre capitoli finali facendo morire
Johnny al primo scontro a fuoco. La seconda parte, riscritta più volte,
fu recuperata postuma col titolo Il partigiano Johnny. In
questa edizione Gabriele Pedullà ricostruisce la struttura del grande
romanzo così come Fenoglio lo aveva pensato.
Riprendiamo da http://www.leparoleelecose.it/ il primo
capitolo, che è assente dalle edizioni di Primavera di bellezza e del Partigiano Johnny,
e le prime pagine del saggio introduttivo di Gabriele Pedullà, dedicate
alla storia letteraria ed editoriale di questo capolavoro del Novecento.
Il libro di Johnny
Dall’alto della torre medievale la
sirena ululò nella notte di giugno. Subito la madre lo chiamò con la sua
voce imperterrita: – Johnny? L’UNPA –. Johnny rotolò da un ciglio
all’altro del letto, sospirando vestí una parte dei suoi leggeri
indumenti estivi. Poi passò nella camera dei genitori, torrida. Suo
padre giaceva in un sonno inviolabile, con un fendente di luce lunare
attraverso il viso. – Posso frugare nelle tasche di papà per una
sigaretta? – bisbigliò, rivolto all’angolo di buio assoluto in cui era
coricata sua madre. Non poteva affrontare senza tabacco ore e ore di
vagabondo servizio UNPA. Trovò nelle tasche del padre una sigaretta,
deformata dalla pressione di un mazzo di chiavi.
Fuori, la notte premeva concreta e
vischiosa, non meno lugubre nelle radure di chiaro di luna; e giusto in
quel momento vi si iniettava il rumorio dei bombardieri, flebile e
smarrito, interamente patetico.
Davanti al municipio, alcune guardie
civiche stavano infilandosi la giubba sulle braccia sudate e
rimproverando vanamente i borghesi che allo smorire del primo sibilo si
erano affacciati alle finestre sulla piazza, grasse macchie bianchicce
effondenti a distanza odore di sonno faticoso e di carne surriscaldata. –
Quando si renderanno conto che siamo in guerra? – deprecò un civico,
finendo d’abbottonarsi tutto. – E che gli inglesi ci volano sulla testa?
– aggiunse un altro dalla tenebra dei portici. Poi sbucarono i pompieri
dai loro misteriosi recessi, in divisa militaresca, fiutando l’aria,
l’aria elettrica eppure estenuata delle notti di allarme aereo. E già
mendicavano svergognatamente da fumare, da questo la cartina e da quello
la presa di tabacco. Buona parte erano uomini della città, fattisi
accettare nei vigili del fuoco per non voler conoscere altro fronte che
l’interno; ad occhio li distinguevi dai comuni pompieri d’estrazione
contadina per la minor mole fisica e la superiore attillatezza
dell’uniforme.
Johnny accese la sigaretta e all’ultima
luce del fiammifero setacciò quella folla evaporante, senza trovarvi un
solo camerata dell’Unione Nazionale Protezione Antiaerea. Sospese di
fumare, perché alle sue spalle gracidò una voce idiotamente sarcastica.
Era, inconfondibilmente, il caposquadra della DICAT Giovanni Rabino,
detto Juancito, ex legionario di Spagna: l’oscurità non ancora cosí
folta da mascherare la devastazione dell’acne sulle sue guance spolpate.
– Siamo alle maledette solite con voi giovani, – cominciò: – E
stanotte, per la prima ed ultima volta in vita mia, darò torto al Duce.
No, non mi avete frainteso. Perché il Duce sbaglia a confidare tanto in
voi giovani –. Qualcuno tra guardie e pompieri approvò confusamente. –
In noi, – continuò Juancito, percuotendosi il petto, – in noi Egli può e
deve aver fiducia. Siamo in allarme da dieci minuti e di tutto il
servizio UNPA c’è un solo presente –. Gli anziani rigorgogliarono e
Juancito annunziò che non piú tardi di domani avrebbe conferito col
Segretario Politico per questo sconcio dei giovani fascisti arruolati
nell’UNPA. – Ma non voglio intabaccarmi oltre. Tanto sono convinto che
noi, noi della vecchia guardia, siamo piú che sufficienti per vincere
questa guerra.
Johnny tentò la difesa dei compagni:
molto probabilmente erano già di ronda, in piena attività; conoscevano
il servizio a memoria e dovevano aver pensato di… – Proprio questo è lo
sconcio! – troncò il caposquadra. – Gli ordini non si pensano, gli
ordini si ricevono. Ma voi giovani sapete tutto da prima, vero? Siete
intelligentissimi, voi giovani, al punto che un primo ed unico ordine vi
basta per sempre. Ebbene, dovete diventare come noi anziani, che siamo
intelligenti almeno quanto voi, eppure amiamo ricevere ordini, li
de‐si‐de‐ria‐mo gli ordini. Ma vi raddrizzeremo. Avremo un’infinità di
tempo per raddrizzarvi, dopo la vittoria.
Squillò il telefono nell’aria saponosa
del corpo di guardia: certamente un posto di vedetta DICAT su qualche
pura, ventilata collina. Un civico colmò il vano giallastro della porta e
invitò Juancito all’apparecchio; lo chiamò Juancito in pieno rispetto e
per antica sodalità, ma Juancito gli sibilò che lui era il caposquadra
Rabino, Juancito esclusivamente quando bevevano birra insieme o insieme
giocavano a biliardo. Poi marciò al telefono e presto ridacchiò in gola
al microfono. – Macché, macché, macché. Ridere mi fanno. No pasaran.
Ciao. – No pasaran, – ripeté, rimescolandosi, col gusto del capo popola‐
re, alla frotta subordinata. Gli aerei scivolavano a nord,
all’altitudine massima. Un pompiere disse che cercavano Torino, una
guardia che miravano, i porci, a rovinarci la fiat. Juancito interruppe
di spremersi sebo dalla faccia e scherní: – Non ci riusciranno mai.
Sentite da voi stessi, sono quattro gatti e tutti insieme fanno il
rumore di una macchina da cucire. E a noi stanno arrivando a grande
velocità le batterie contraeree tedesche. Oh, intendiamoci: non le
avremmo viste mai, non fosse per l’enorme amicizia personale fra il Duce
e il Führer. Voi non siete affatto scemi, ciononostante non potete
formarvi un minimo concetto dell’amicizia che lega i Due. Un’amicizia…! –
Parlò adagio un contadino‐pompiere: – Non c’è che dire. Abbiamo scelto
bene, abbiamo scelto giusto, stavolta.
– Sergente, – esordí una voce sottile:
ed era una finezza, perché le camicie nere godevano a rifilargli il
corrispettivo grado militare; – Sergente, contro la noia raccontateci
qualcosa della Spagna –. Juancito raggiò, ma non accondiscese. – È cosa
passata, e una robetta in confronto all’attuale… –
Qualcosa delle donne spagnole,
caposquadra, – pregò un lussurioso. – Siete un branco di puttanieri,
ecco quello che siete. E questa è una caratteristica che deve sparire,
spa‐ri‐re, dal carattere nazionale. Maschi sí, maschioni pure, ma
puttanieri assolutamente no. – Sergente, il generale Franco è sempre
dalla nostra parte, non è vero? E presto o tardi scenderà in campo al
nostro fianco. – Seguro como la muerte, sicuro come la morte. Il fatto è
che al momento l’intervento della Spagna al Duce e al Führer proprio
non serve. Ma naturalmente, io lo conosco, il Caudillo sta mordendo il
freno. Sapeste però l’amicizia che c’è tra Loro Tre! Un’amicizia…!
Il rumore degli aerei era soltanto piú
una gracile vibrazione, ma ancora un alto lamento della loro solitudine,
smarrimento, impotenza. Mezzanotte batté all’orologio civico, quindi al
campanile della cattedrale. Uno dell’UNPA veniva, sfruttando abilmente i
riquadri d’ombra dei portici; Johnny sperò fosse Ettore, ma non ne
aveva la taglia né l’andatura. Gli si affrettò incontro ugualmente, a
preservarlo da Juancito. Era Mario, un garzone meccanico del quartiere
di Johnny, sui diciotto anni, sgraziato e appassionatamente serio.
Eccettuati Ettore e Franco, Johnny non poteva augurarsi miglior compagno
per la ronda dell’UNPA. – Avviamoci subito, cosí non ti sorbisci
Juancito. – Quell’ignorante! – scattò il ragazzo, con una strappata
sfilandosi di tasca il bracciale giallo dell’Unione.
Rasentarono il piú tenebroso dei muri
municipali e si addentrarono nella loro zona per una viuzza del borgo
antico. Le selci secolari luccicavano come rigenerate dalla galvanica
luce lunare. E la stessa prigione era vivace, il regolamento allentato
dallo stato d’allarme: dalle finestre a bocca di lupo cadeva in segmenti
la conversazione dei detenuti, monotona, gergale, fuori della guerra.
Mario finí di lisciare il bracciale
infilato di rabbia. – Lasciamelo dire una volta, come unico sfogo per
tutta stanotte. Io li odio. Tutti, da Mussolini a questo somaro di
Juancito –.
Disse Johnny: – Io li disprezzo. Sono
nato nello stesso anno e mese in cui marciarono su Roma, e sento di
disprezzarli dalla nascita 1. – Ma disprezzarli basta?
Io credo che bisogna odiarli. O forse sono arrivato a odiarli perché
sono un ignorante anch’io. Ci vorrebbe la tua grande istruzione, forse,
per fermarsi al disprezzo.
Johnny s’era distratto: ora modulava Polvere di Stelle 2 su
versi inglesi di sua propria fattura, abbandonata la lunga ricerca del
testo originale. E Mario chiese in che lingua cantasse, poiché italiano
non era. – Puro caso, ma avevo indovinato che era inglese. Dio che
soddisfazione dev’essere saper l’inglese! – Johnny annuí. – Spesso,
quando sono furibondo o nauseato, gli grido o canto inglese sulla
faccia. – Tanto ne capiscono un K., – ghignò Mario. – Al corso
premilitare, al maggiore Borgna e ai cadetti l’avrò fatto venti volte. –
Fortuna tua, Johnny. Hai un bel sollievo, tu. Ma come fai a saper
l’inglese cosí bene, come dicono le persone competenti? – L’ho studiato
piú e meglio d’ogni altra cosa, ma ciò non basta a spiegar tutto.
Perché, ad esempio, a me la parola inglese venga piú pronta e piú esatta
dell’italiana, e perché tutti i discorsi che faccio a me stesso siano
in inglese, automaticamente. Non capisci? Non è colpa tua, è misterioso
pure a me.
All’altezza del convento di clausura: – E
il nome Johnny? Non può essere il tuo vero nome di battesimo. – No, fu
la mia professoressa d’inglese a chiamarmi Johnny, in terza ginnasio.
Entrò nell’uso dei miei compagni di scuola, poi dei miei di casa e
infine di tutti in città. – Un giorno o l’altro, mi dispiace, passerai
un guaio per chiamarti cosí, per lasciarti chiamare cosí. – È una
sciocchezza. Persino il Segretario Politico mi chiama Johnny. – Gli hai
già parlato assieme? – indagò Mario, deluso e guardingo. – Aspetta. Fu
quando vincemmo il campionato provinciale di pallacanestro. Ci
invitarono in Federazione per la bicchierata e naturalmente il
Segretario e il Vice parlarono con ciascuno di noi giocatori –. La
squadra del GUF, ricordò Mario. Del NUF, corresse Johnny. – GUF o NUF, è
sempre la medesima str… Io sono franco, e tu non ti offendere. Ma io
non vi digerisco, nessuno di noi operai vi può digerire, con tutte le
vostre arie e la divisa da ufficiali. Non negare che c’è una buona
percentuale di scemi e di porci in questo NUF. – Prego, una maggioranza.
Erano arrivati sui bastioni dominanti
gli argini e il fiume, e l’afa annichiliva anche il suono processionale
delle acque. L’oscuramento era ineccepibile, fin nei paesi sulle prime
colline, nei borghi della pianura oltrefiume. Il ronzio degli aerei era
stato completamente assorbito dal tessuto spugnoso della notte. E Mario
pregò che il cessato allarme suonasse a minuti: domani, cioè oggi,
doveva alzarsi alle cinque, come sempre, e a che ora si alzava
normalmente Johnny lo studente?
L’allarme non cessò, ed essi tornarono
alla truce mole del Municipio, sulla piazza canuta. Gli uomini in
servizio si erano quasi tutti ritirati sotto i portici, afflosciati sul
lastricato tiepido, e le bianche flanelle sbocconcellavano la tenebra.
Gruppi nuovi, pattuglie UNPA reduci dalla prima ispezione, Ettore,
tuttora assente. – Dov’è Juancito? Pardon, il caposquadra Rabino? –
Seppero che il proprietario del Caffè Calissano si era mezzo affacciato
per una boccata d’aria libera e Juancito ne aveva approfittato per farsi
servire una ghiacciata. Johnny entrò nel corpo di guardia. Il
volontario telefonista, un impiega‐ to già avanti negli anni,
borghesissimo, sedeva austeramente abbottonato e incravattato davanti a
un romanzo poliziesco aperto fra il telefono e la lampada da tavolo; il
sudore gli scivolava oleoso fra la stoppia bianca delle guance. –
Nessuna novità particolare, ma la faranno lunga stanotte, – e ricadde
sul giallo. Dalla soglia del Caffè Calissano esorbitava una chiazza di
luce segosa, e Johnny vi corse: gli uomini attenti pensarono balzasse a
sopprimere quella luce e mortificare il responsabile, e gli gridarono
appresso che sbagliava, dentro stava il caposquadra, per una
consumazione fuori orario. Sventolò nervosamente una mano all’indietro,
non s’impicciassero e soprattutto non schiamazzassero. Le monete nella
tasca sfuggivano alla conta nel sussulto della corsa, ma dovevano
bastare per cinque sigarette a borsa nera. Juancito pendeva sul banco
zincato, succhiando fragorosamente da una cannuccia, per la completa
decolorazione del povero ghiaccio residuo. Il caffettiere smise di
spugnarsi il petto flaccido, livido. Johnny gli sillabò alla muta
«sigarette», spostando‐ si alla cassa aggiunse appena audibilmente: – Al
prezzo che volete voi, ma cinque sole. Mi sono alzato alla sirena, e
non so precisamente quanto mi trovo in tasca –. L’assorto fasci‐ sta non
si voltò mai.
Si risentivano i bombardieri, come se
cariassero la notte, e Ettore era giunto al Municipio per il primo
rapporto. – Che ci fai eternamente qui? – subito criticò: – Dici che è
la tua zona. E che significa? Anch’io ho una zona ben delimitata, eppure
in un’ora ho girato tutta la città. Avresti una sigaretta, Johnny? – Di
un anno piú giovane di Johnny, la sua istruzione oscuramente conclusa
all’Avviamento Professionale, era magro e nodoso, villosissimo, con
baffi adulti, una generale emanazione di virilità precoce ed un’assurda,
ma costante, inarginabile pretesa di essere, in tutte le circostanze
pratiche, l’uomo‐guida. – Grazie. Il tuo difetto, Johnny, è la troppa
grammatica. Prima che spunti Juancito, vuoi filartela con me e avere un
assaggio di pratica come la intendo io?
Verso il termine della Via Principale
deviarono nel nobile portone di Palazzo Pagani. – Il primo rifugio della
città, – commentò Ettore, forse per ingraziarsi il capofabbricato,
interito e a braccia conserte, come un aiutante giustiziere, sul primo
pianerottolo. Ma l’uomo aveva corrugato la fronte e sbuffò che si
trattava della quarta ronda UNPA che stanotte gli invadeva il rifugio: a
che farci poi? comunque, scendessero, scendessero. Li avrebbe
certamente sermoneggiati piú a lungo, e forse respinti, se i due fossero
stati del popolo anziché, notoriamente, della buona borghesia.
I rifugiati erano una quarantina, tutta
una collezione di ceti: dai grandi proprietari terrieri del piano nobile
ai dirigenti e procuratori del secondo, dai floridi bottegai del
pianterreno agli impiegati di categoria B del terzo, fino ai proletari
delle casucce‐stie in fondo al cortile; un democratico agglomerato che
si dava soltanto perché a Palazzo Pagani imperava, da sirena a sirena,
il piú draconiano capofabbricato dell’intera città. Le donne
sventagliavano se stesse e i loro queruli discorsi di razioni
alimentari: gli uomini giocavano a carte su casse da imballaggio o
svisceravano le ultime operazioni belliche; la gioventú flirtava o
leggeva o canterellava ritmi e canzoni.
Esplorando dall’ingresso, Johnny
incontrò subito lo sguardo di Gheri Pagani, sua compagna di liceo a una
classe di distanza, le smorte, tarde trecce grevemente immobili sulla
vestaglia logora. Arrivò da lei, arando quell’umanità incantinata. –
Ciao, Johnny. Perdona la vestaglia vecchia e brutta. Qui non siamo a
Torino, dove mi dicono furoreggi una ve‐ ra e propria moda da rifugio –.
Il libro posato in grembo era di Charles Morgan 3. – A
questo punto che sta facendo Piers Tenniel, Lord Sparkenbroke? Sei una
pecora nera, Margaret. Il tuo preciso dovere sarebbe di leggere
Körmendi 4 e l’altra mezza dozzina di romanzieri
magiari nostri alleati. – Li la‐ scio tutti alle pettinatrici laggiú. Ma
non stanno esattamente leggendo. Johnny, saluta la mamma, per favore –.
All’anziana signora una fungaia rinnovantesi di gocce di sudore
brillantava il labbro smagrito. – Johnny caro. Tua madre patisce il
caldo quanto me? È anche lei in cantina? – No, signora, sta languendo
nel suo letto. Noi non possediamo un capofabbricato di ferro come il
vostro. – È un bruto, il nostro! Capacissimo di forzare la porta e
rovesciar dal letto una signora indisposta. – Non è cosí, mamma, –
sospirò Gheri: – è soltanto un poveraccio dipendente, fatto terribile
dal suo atroce terrore della legge. – Povera me, piú nulla che mi
vivifichi. Con la nostra bella casa di Spotorno, la barca di famiglia
davanti… Sei mai stato da noi a Spotorno, Johnny? Non farmici pensare,
Gheri. Figlia mia, impediscimi di pensarci. Mi riferiscono che la
Riviera è diventata un inferno. Orribili storie di spie, di mine e
sommergibili e tutte quelle altre diavolerie di cui voi uomini siete
tanto piú pratici di noi.
La compagnia fervidamente stretta
attorno alle tre sorelle pettinatrici crepitava di risa e interiezioni:
Ettore stava a un passo dal cerchio intimo, rigido fisso e muto, amante
ed avversario. Un uomo alla sinistra di Johnny ammise di non aver mai
ritenuto Graziani5 un generale di quella forza. –
Grazia‐ ni? – sbottò un vicino: – Ma Graziani è il piú grande genera‐ le
che sia al mondo. Dovresti saperlo dall’Africa. – Diciamo il vero,
quelli però erano soltanto selvaggi… – Una signora domandò se in cielo
si risentiva il ron‐ron degli aerei, e dalla sua rampa il capofabbricato
rispose gravemente che mai me‐ glio che in quell’attimo. – Cercano
Torino, non c’è dubbio.
Gheri accavallò le gambe, voluminose e
molli. – Scusami, Johnny, ma sei una tale delusione con quel bracciale
dell’UNPA. – Che debbo fare? – Mi riuscirebbe di vedere chiunque con
quel bracciale, chiunque tranne te. Non puoi piú aspi‐ rare ad essere il
dream‐boy con quel bracciale indosso. – Il dream‐boy! – scattò Johnny: –
Tu sai dirmi che dovrei fare? – L’uomo accanto sentenziò: – Come
generale, come condottiero, Graziani è superiore allo stesso Badoglio.
Sí, sí, sebbene il riconoscerlo bruci un po’ a piemontesi come noi –. La
signora Pagani osservò pacatamente che le sue pigionali pettinatrici
ora esageravano. – Intendiamoci. Per la piú vecchia, o meglio per la
meno giovane, io ho una tremenda ammira‐ zione personale. Mai vista una
donna piú donna.
Un’altra ronda UNPA scese, guidata da
Franco Biglino, amico di Johnny e compagno di NUF, iscritto a Magistero.
Alla prima occhiata scoprí Gheri e Johnny, ma si limitò a dondolare una
mano, a significare «Lieto di vedervi, ma per il mio gusto di stanotte
siete troppo intellettuali, scusatemi», e si aggregò alle pettinatrici,
sotto la smorfia di Ettore.
– Dodi Mongardi, – riprese Gheri, – mi
ha scritto da Spoleto, dalla scuola ufficiali. Sai che sono la sua
madrina. Una lettera amara, pericolosa, da stupire che la censura non
l’abbia intercettata. Dodi, sai, un pochino s’illudeva sull’esercito.
Bene, pare ne sia rimasto rudemente deluso. Mi scrive che è brutto e
sudicio come ogni altro ambiente in Italia, scrive cose che veramente mi
pare miracolo che la censura non abbia trattenuto la lettera. Non
vorrei gli capitasse come al mio cugino d’Alessandria. Scrisse dalla
scuola ufficiali cose del genere, ma la censura gli bloccò la lettera e
fu immediatamente espulso dal corso e spedito al reggimento come sol‐
dato semplice –. Johnny schioccò le labbra: – Ti pare grave, Gheri? – Ma
non diventare ufficiale!? Ed era quasi avvocato! – Dico, ti pare grave?
– Seriamente, Johnny, a te non importerebbe di passare nell’esercito
come soldato semplice? Con tutta la tua cultura? – E chi si è coltivato
per diventare ufficiale? Rispondendo a Dodi, aggiungi i miei saluti,
vuoi?
– Certo, ma mi trovo imbarazzatissima a
rispondergli. Io sono solamente una ragazza. Piú avanti, boccheggiando
nell’aria consunta, Gheri s’informò se Johnny andava prossimamente a
Torino, e saputo che domani stesso: – Ci verrei tanto anch’io, ma la
mamma non mi lascia piú viaggiare in treno. È convinta che gli inglesi
arriveranno presto a bombardare i nostri treni di giorno. Vai per esami?
– Johnny andava per ritirare il libretto delle firme regolarizzato. –
Che avete fatto per ultimo al corso d’inglese? – Edgar Allan Poe. Sí,
Gheri, il tuo Poe. Siamo stati un mese fermi sulla Casa di Usher.
– Stupendo! Poe piace molto anche a te, non è vero, Johnny? – Piace
molto anche a me, ma un pochino meno che a te e Baudelaire.
– Certo, ma mi trovo imbarazzatissima a rispondergli. Io sono solamente una ragazza.
Alla lontanissima percussione, i
rifugiati si riscossero orgasticamente, come rendendosi conto di un
principio d’asfissia. Le ronde dell’UNPA si slanciarono all’aperto,
contendendosi i gradini muscosi.
I bombardieri sganciavano e la
contraerea ribatteva, i due grandi fragori sembrando spiaccicarsi l’un
contro l’altro a mezz’aria, cosicché la notte ne era franta per la
connessura, come una noce. Franco disse: – Picchiano Torino. Se qualcosa
è destinato a saltare, sia il Magistero –. Corsero alla foce della Via
Principale, a una traversa perpendicolare alle collinette oltrefiume. Ma
nessun sboccio sanguigno, nessun lampo rovescio dirompeva il catramoso
orizzonte. Ettore suggerí autoritariamente di correre ancora a tutte
gambe alla villa di B. sul primo poggio, da dove avrebbero visto tutto
quanto c’era da vedere. Ma avanti che fossero tutti d’accordo, gli
inglesi avevano virato sulle Alpi, e venti minuti dopo suonò il cessato
allarme.
Note
1 Johnny è nato dunque nell’ottobre del 1922. La precisazione è importante per le successive chiamate alle armi.2 Adattamento italiano di Natalino Otto della canzone di Hoagy Carmichael (1899‐ 1981) Stardust (1927). Durante il fascismo era assai frequente che le canzoni inglesi e ame‐ ricane venissero tradotte e riadattate da musicisti italiani.
3 Charles Langbridge Morgan (1894‐1957), scrittore inglese, autore tra l’altro del ro‐ manzo cui allude qui Johnny: Sparkenbroke. A Tale of Piers Tenniel, tradotto in italiano co‐ me Nel bosco d’amore (1938).
4 Ferenc Körmendi (1900‐1972); scrittore ungherese molto popolare negli anni Trenta, sarà nuovamente evocato nel romanzo.
5 Rodolfo Graziani (1882‐1955), maresciallo italiano, governatore della Somalia e dal 1937 viceré d’Etiopia; dal 1939 capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano. Sostituito nel 1941 dopo gli insuccessi contro gli inglesi in Africa, per due anni Graziani si ritirò a vita privata, fino a quando, il 29 settembre 1943, non assunse la carica di Ministro della Guerra della Repubblica Sociale.
* * *
Le armi e il ragazzo
di Gabriele Pedullà
Nei suoi quarantuno anni di vita Beppe
Fenoglio sembra essere riuscito a inanellare uno dopo l’altro quasi
tutti gli errori che, nei casi piú sfortunati, accompagnano i primi
passi dei giovani scrittori nel mondo dell’editoria: ha firmato
distrattamente contratti di esclusiva con due distinte case editrici
allo stesso tempo; non ha protetto abbastanza i propri dattiloscritti
dalle inevitabili richieste di «normalizzazione», salvo poi far seguire a
questi eccessi di condiscendenza lunghi silenzi e opporre rifiuti
sdegnosi a richieste assai piú ragione- voli, con il risultato – sí, è
successo anche questo – che la sua insicurezza e il suo riserbo sono
stati qualche volta scambiati per una singolare forma di superbia.
Al netto del temperamento non facile di
Elio Vittorini e di Livio Garzanti, non ci vuole molto a riconoscere che
anche Fenoglio ha avuto qualche responsabilità nella sequenza di
equivoci che hanno avvelenato i suoi ultimi anni. Il piú grande errore
di Fenoglio, l’errore di cui ancora oggi i suoi lettori non riescono a
capacitarsi, è legato però senza dubbio al grande progetto narrativo nel
quale lo scrittore di Alba si lanciò dopo la pubblicazione della Malora (1954).
Del giovane narratore che sapeva di avere scritto alcuni racconti
magistrali ma non aveva ancora raggiunto il successo, oltre
all’insicurezza, Fenoglio possedeva un altro tratto tipico: il timore di
non riuscire ad approdare al romanzo (una ossessione assurda nel suo
caso, e tanto piú se consideriamo che a quel punto della sua vita un
romanzo Fenoglio lo aveva portato a compimento, e un bel romanzo, La paga del sabato,
ma con uno dei suoi tanti atti di arbitrio Vittorini era riuscito a
persuaderlo a metterlo da parte). Il materiale per una storia lunga
l’avrebbe preso dalla propria esperienza di partigiano nelle Langhe,
esatta- mente come aveva fatto almeno in parte per la sua raccolta
d’esordio, I ventitre giorni della città di Alba (1952). Ma –
forse perché cercava di distanziare un argomento ancora cosí scottante
biograficamente, o magari perché sentiva di non aver trovato ancora lo
stile adatto per un progetto tanto impegnativo – Fenoglio si impose
questa volta un singolare detour: il romanzo sarebbe stato
scritto prima in inglese, la lingua dei suoi autori prediletti, e solo
in un secondo tempo lui stesso si sarebbe preoccupato di riportarlo in
italiano.
Del duro lavoro di Fenoglio negli anni
successivi sappiamo poco. Ma ecco che, dopo un numero imprecisato di ri-
scritture, a metà del 1958 la prima parte del dattiloscritto è ormai
abbastanza pulita perché Fenoglio possa finalmente mostrarla all’editore
cui ha destinato il libro: quel Garzanti che da qualche tempo ha preso a
pubblicare alcuni degli autori piú interessanti del periodo, da Carlo
Emilio Gadda a Pier Paolo Pasolini e Goffredo Parise. Scrivendo e
riscrivendo, la storia ha assunto ormai dimensioni assai cospicue,
attorno alle ottocento pagine, e Fenoglio si rende conto che una mole
simile può essere un ostacolo. Forse accusa anche una certa stanchezza.
Cosí, consegnata in lettura la parte iniziale del romanzo che intende
intitolare Primavera di bellezza, per non rimandare troppo
l’uscita del volume propone all’editore una pubblicazione scaglionata in
due volumi. Garzanti però è appena stato scottato dall’uscita di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di
Gadda (1957): un giallo, anch’esso inizialmente previsto in due parti,
di cui la seconda non avrebbe mai visto la luce. Cosí con Fenoglio la
risposta dell’editore è cortese ma inevitabilmente freddina (lettera del
5 settembre 1959). piuttosto, suggerisce Garzanti, i capitoli iniziali
andrebbero resi piú sciolti («potrebbe giovarsi di qualche taglio»):
anche Pietro Citati, giovane critico e collaboratore della casa
editrice, ha letto infatti il dattiloscritto e ha avuto l’impressione
che la partenza sia eccessivamente lenta («credo che tutti le abbiano
detto che le prime 40 pagine non sono delle piú invitanti»).
Fenoglio esita, non sa che fare. poi,
all’improvviso, la decisione. niente volume in due parti e niente
ulteriori dilazioni. Asciugato, potato di tutta la prima parte che ai
«garzantiani» piace meno, il dattiloscritto è rapidamente pronto per la
stampa. Basterà trovare una conclusione per la storia, che narra
l’esperienza del giovane alter-ego di Fenoglio nel Regio Esercito dal
principio del 1943 sino alla crisi dell’8 settembre arricchita da un
paio di flash-back sulla vita precedente del protagonista. Fenoglio
aggiunge cosí tre capitoli supplementari: fa entrare il suo Johnny nella
Resistenza in un sussulto di orgoglio e altrettanto rapidamente lo fa
morire nella prima azione di guerra, con uno straordinario effetto
delusivo.
E le altre seicento pagine, che Fenoglio
ha già riscritto parecchie volte (almeno una in inglese e due in
italiano)? Da Garzanti nessuno le ha lette perché il testo è ancora
troppo «sporco» e qua e là conserva singole parole e intere frasi non
tradotte, per non parlare del gran numero di sigle («S.C.», «A1», «A2»…)
che ne certificano la condizione precaria di brogliaccio privato. E
Fenoglio saluta la scelta di lasciar cadere queste pagine addirittura
con sollievo: la morte di Johnny, scrive a Garzanti, gli lascia il campo
libero per altre storie da ambientare «non già sullo sfondo della
guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guerra» (lettera del 10
marzo 1959). L’autore pare contento cosí e dunque in casa editrice
nessuno ha da ridire. Rimaneggiato secondo il nuovo piano, Primavera di bellezza viene
perciò pubblicato in fretta e furia nell’aprile del 1959 con un
discreto successo di vendite e di critica, che per Fenoglio vuol dire
soprattutto la rappacificazione con i recensori della stampa comunista
che avevano accolto con aperta ostilità i suoi esordi. Cosí, una volta
uscito il libro, a quei fogli nel cassetto Fenoglio sembra addirittura
smettere di pensare, troppo preso dai nuovi progetti narrativi che lo
incalzano a ritmo sempre crescente. Ancora partigiani, certo. Ma storie
improvvisamente piú svincolate dall’armatura autobiografica di cui
Fenoglio si era servito per sorreggere il suo primo progetto romanzesco
impegnativo dopo il rifiuto opposto da Vittorini alla Paga del sabato e il lungo apprendistato coi racconti.
Sono anni fervidi e straordinariamente
creativi. purtroppo però Fenoglio presto si ammala. Grande fumatore,
nell’autunno del 1962 entra in clinica per disturbi respiratori e si
vede diagnosticare un tumore ai bronchi. Non c’è piú niente da fare e la
morte lo coglie nel febbraio dell’anno successivo. La tragedia consente
però se non altro di dirimere la controversia legale tra le due case
editrici a cui si è legato, Einaudi e Garzanti, e alla fine sarà
quest’ultima a pubblicare una raccolta dei suoi racconti e un romanzo
breve che secondo molti è il suo capolavoro (Una questione privata) sotto il titolo complessivo di Un giorno di fuoco (1963).
L’accoglienza questa volta è piú
calorosa che mai. non si tratta solo della scontata emozione per la
morte precoce dell’autore: tutte le voci piú autorevoli della critica
del tempo, a cominciare da Gianfranco Contini e da Emilio Cecchi,
parlano di Fenoglio con profondo rimpianto; chi lo ha trattato male,
come Carlo Bo, pronuncia un significativo mea culpa. Cosí,
prevedibilmente, attorno allo scrittore appena scomparso si scatena
anche una piccola caccia all’inedito. Fenoglio pare abbia lasciato molte
altre carte oltre a quelle con cui è stato messo assieme Un giorno di fuoco ed
è Einaudi questa volta ad aggiudicarsi i diritti per i futuri libri e
la ristampa dei passati. Dei tanti frammenti rinvenuti il piú
editorialmente appetitoso sembrerebbe essere proprio la continuazione
della storia di Johnny. È dunque da qui che, nell’estate del 1968,
riparte la vicenda di Fenoglio nelle librerie. Da Un giorno di fuoco sono
passati cinque anni e il nuovo clima letterario, segnato dal
neo-sperimentalismo del Gruppo ’63, non potrebbe essere meglio disposto
verso un’opera che attraverso la fusione di italiano e inglese sembra
potersi leggere in chiave espressionistica e di contestazione della
lingua media. Ma Johnny sembra al contempo un fratello maggiore dei
giovani militanti del movimento studentesco: e c’è da subito chi, tra i
primi recensori, saluta il romanzo di Fenoglio come il ponte ideale tra
due generazioni di «ribelli».
Il titolo del libro – Il partigiano Johnny –
è redazionale ed è stato scelto dal curatore del volume, il giornalista
e critico letterario Lorenzo Mondo, che approntando il testo ha mirato
soprattutto ad offrire ai lettori un volume accessibile, dunque senza
preoccuparsi troppo di incrociare liberamente le due stesure
pervenuteci. La battaglia della leggibilità è sicuramente vinta ma il
grande clamore suscitato dal caso Fenoglio mette in allarme i critici
accademici. Qualcosa non torna, e Maria Corti, allora uno dei grandi
nomi dello strutturalismo italiano, attacca con durezza il lavoro di
Mondo. C’è un problema di rispetto dell’ultima volontà dell’autore e un
problema di cronologia da stabilire. E ci sono, soprattutto, un gran
numero di altri inediti da presentare al pubblico, perché Fenoglio è
stato a tratti uno scrittore compulsivo, ca- pace di lanciarsi
contemporaneamente in piú progetti. Cosí, sulla scia delle polemiche
filologiche, la Corti (già autrice di saggi rivoluzionari sul sistema
delle varianti nell’Arcadia di Sannazaro e nei racconti di
Romano Bilenchi) convince l’editore Einaudi a lanciarsi in un’edizione
completa delle opere di Fenoglio che metta finalmente ordine nelle carte
e presenti ai lettori, in cinque volumi, l’intero corpus dei
manoscritti, comprese le versioni provvisorie superate dai testi a
stampa apparsi durante la vita dell’autore. Un unicum assoluto nella
storia della filologia italiana per un autore contemporaneo.
L’edizione della Corti esce nel 1978 e rivela che del Partigiano Johnny (ormai
tutti lo chiamano cosí) sono sopravvissute tre stesure distinte: la piú
antica, in inglese, copre unicamente il marzo e l’aprile del 1945; una
versione successiva, in italiano con saltuari inserti in inglese,
procede invece dal rientro ad Alba di Johnny sino alla battaglia di
Valdivilla, con cui la storia si conclude (febbraio 1945); vi è infine
un terzo rifacimento, sempre in italiano occasionalmente «anglicizzato»,
ma – a differenza del precedente – sopravvissuto solo in parte, e in
maniera quasi continua solo dalla liberazione di Alba (ottobre 1944)
allo scontro di Valdivilla; in questa terza forma la storia si conclude
però con la morte di Johnny. Anche di Primavera di bellezza viene
scoperta una versione alternativa, piú antica e assai piú lunga (ma
senza gli ultimi tre capitoli), che con ogni verosimiglianza è la stessa
che Fenoglio aveva fatto leggere a Citati e a Garzanti nell’estate del
1958. Ma essendoci in questo caso una redazione a stampa esplicitamente
approvata dall’autore, questo ritrovamento appare di gran lunga meno
significativo e passa quasi sotto silenzio nelle critiche dell’epoca.
Il problema della nuova edizione della
Corti – lo rilevarono subito i recensori piú acuti, come Alfredo
Giuliani – è che, nello stesso momento in cui offre ai futuri studiosi
di Fenoglio uno strumento preziosissimo per entrare nel laboratorio
creativo dell’autore, rifiuta di mettere in mano ai lettori comuni un
testo leggibile. Per questa via il pericolo è che il libro che ormai in
molti hanno già preso a considerare una delle vette della letteratura
italiana del xx secolo rimanga confinato all’accademia. O – altra
possibilità – che l’ammirevole impresa del team diretto dalla Corti non
sia servita a nulla, perché i lettori comuni continueranno a leggere
comunque l’edizione Mondo con tutti i suoi evidenti problemi.
È in questo contesto che, quattordici
anni dopo l’edizione Corti e ventiquattro anni dopo l’edizione Mondo,
nel 1992 l’Einaudi decide di dare alle stampe una terza edizione critica
nel quadro di un piú generale riordinamento delle opere di Fenoglio
affidato a un altro grande nome della filologia italiana: Dante Isella.
La domanda adesso è: come evitare le pratiche contaminatorie di Mondo
senza togliere al grande pubblico la possibilità di leggere il romanzo
di Fenoglio? La soluzione di Isella, semplice ed economica, è stata
grosso modo quella di adoperare l’ultima stesura soltanto a partire dal
punto in cui essa procede senza interruzioni; per le sezioni precedenti,
anche quando possediamo l’ultimo rifacimento, si offre lo stesso la
redazione piú antica, cosí da evitare innesti illegittimi dal punto di
vista filologico; una cesura in parte prima e parte seconda segnalerà al
lettore dove finisce un dattiloscritto e dove comincia l’altro.
Su queste basi il compromesso di Isella è
stato accolto con favore dai colleghi e, soprattutto, ha superato la
decisiva prova del pubblico, promuovendo la conoscenza di Fenoglio per
poi imporsi rapidamente come testo «canonico» del Partigiano:
quello, tanto per intenderci, che leggono gli studenti a scuola e su cui
si effettuano le traduzioni. Sembrerebbe dunque che grazie a Isella la
questione sia stata risolta una volta per tutte. perché, allora, una
nuova sistemazione del ciclo di Johnny? La prima considerazione da cui
occorre partire è che Fenoglio non ha mai immaginato un libro con le
caratteristiche del Partigiano Johnny. per alcuni anni della
sua vita Fenoglio ha pensato a una storia che raccontasse l’esperienza
del suo alter-ego letterario dal giugno del 1942 alla primavera del 1945
(con alcuni flash-back che risalgono indietro sino al 1935, in modo da
coprire l’intero periodo di formazione di Johnny). Questo progetto, come
si è detto, è entrato in crisi nell’estate del 1958 per la scarsa
simpatia di Garzanti verso l’ipotesi di una pubblicazione in due volumi
distanziati nel tempo. Di fronte alla sordità dell’editore, Fenoglio ha
optato a questo punto per la soluzione che sarebbe apparsa di lí a poco
con il titolo di Primavera di bellezza, dove – attraverso un
duplice taglio della prima e dell’ultima, piú consistente parte – la
storia finisce per coprire solo il periodo gennaio-settembre 1943 e si
conclude, come si è visto, con l’uccisione improvvisa del protagonista
al momento del battesimo del fuoco partigiano.
Dopo l’uscita di Primavera di bellezza,
per quanto ne sappiamo, l’autore si è disinteressato del lungo
manoscritto rimasto nel cassetto. Con Johnny morto, le pagine successive
al ritorno ad Alba erano inutilizzabili in quanto tali e potevano
essere recuperate al massimo come bozza di lavoro per singoli episodi
(alcune pagine per esempio rifluiranno in Una questione privata) o per trarne qualche racconto breve con cui soddisfare le richieste delle riviste: scene di colore e brevi tranches de vie partigiane. Nulla di piú.
Chi però legge Primavera di bellezza e Il partigiano Johnny non
può non rimanere colpito da quanto le due vicende combacino quasi
perfettamente (l’eccezione essendo gli ultimi tre capitoli del primo) e
come anzi molti partico- lari del Partigiano – che rimane di
gran lunga il piú letto dei due romanzi – si chiariscano assai meglio
alla luce del lungo antefatto sull’università, il corso per allievi
ufficiali e lo scioglimento dell’esercito regio. Il primo pensiero, in
questi casi, è che sarebbe bello riunire le due metà: ma l’operazione
che ogni lettore è portato a fare mentalmente, ignorando il finale un
poco posticcio con cui a un certo punto Fenoglio si è sbarazzato del suo
Johnny, non può essere ripetuta sulla carta. Primavera di bellezza è
il risultato di una precisa scelta dell’autore e nessun filologo degno
di questo nome si presterebbe mai a un’operazione discutibile come
quella di tagliare arbitrariamente le ultime pagine del romanzo in modo
da riunire i capitoli precedenti con l’edizione Isella in un’unica
grande saga.
Se però riconosciamo, come pare inevitabile, che Il partigiano Johnny in
quanto tale è una creazione artificiale dei filologi (non importa quale
delle tre versioni si scelga), perché Fenoglio non ha mai concepito le
avventure di Johnny dopo il ritorno a casa come un segmento
narrativamente autonomo, che potesse cioè stare da solo senza il lungo
preambolo scolastico-militare, rischiamo di trovarci dinnanzi a una
nuova impasse. E una impasse tanto piú grave in quanto – diciamo la
verità – nessuno sembra oggi disposto a rinunciare al libro che in forme
diverse Lorenzo Mondo, Maria Corti e Dante Isella hanno avuto il grande
merito di far conoscere e apprezzare a tre generazioni di lettori.
Le ragioni della filologia condannano Il partigiano in
quanto frammento di un organismo piú vasto ma impediscono che lo si
ricongiunga al preambolo che Fenoglio, a un certo momento, ha
esplicitamente voluto autoconcluso. Allo stesso tempo, però, le ragioni
della letteratura collocano la storia di Johnny, e in particolare la sua
seconda parte, tra le massime espressioni del romanzo italiano. Come
comportarsi allora? Non sono mancate le proposte, e qualche anno fa uno
dei maggiori specialisti di Fenoglio, Roberto Bigazzi, ha suggerito
addirittura di saldare assieme la Primavera di bellezza del 1959 (compresi dunque gli ultimi tre capitoli), il Partigiano di
Isella e i capitoli della primissima stesura in inglese che
porterebbero piú avanti di due mesi la vicenda, senza darsi troppi
pensieri per le ripetute morti e resurrezioni del protagonista. In tal
modo, scrive Bigazzi, «considerando che un lettore filologicamente
avvertito o anche semplicemente post-moderno, deve avere la libertà di
scegliere il suo Partigiano», ognuno potrà «decidere se
accettare una delle due volte in cui vede morire Johnny […] o se invece
dare alla sua storia il finale meno eroico ma molto piú amaro» del lungo
frammento in inglese.
La soluzione che si è adottata con Il libro di Johnny è ancora differente, e si basa sulla scelta di valorizzare anzitutto la redazione piú antica di Primavera di bellezza (recuperata
dalla Corti nel 1978), vale a dire la stesura che lessero Garzanti e
Citati nell’estate del 1958: di una sessantina di pagine piú lunga di
quella andata a stampa (al netto dei tre capitoli aggiunti per dare un
finale al libro) ma soprattutto ancora sprovvista della conclusione con
cui il protagonista veniva affrettatamente fatto morire al rientro in
Piemonte. A partire dal ritorno di Johnny ad Alba qua e là l’inglese
comincia a chiazzare l’italiano, segno inequivocabile che la seconda
parte del romanzo è rimasta a un livello di elaborazione linguistica piú
primitivo rispetto alla prima; dal punto di vista del racconto però le
due metà si saldano perfettamente, rendendo possibile il
ricongiungimento dell’unica stesura di Primavera di bellezza pensata per avere una continuazione (la piú antica) con il troncone di romanzo che siamo normalmente abituati a chiamare Il partigiano Johnny.
Quanto alla seconda parte, per evitare
inaccettabili soluzioni contaminatorie, due erano le ipotesi sul tavolo:
adottare l’edizione critica del Partigiano approntata da
Isella e fondata, come si è detto, sulla stesura piú antica per i primi
venti capitoli e sulla stesura piú recente per i successivi ventuno;
oppure rifarsi interamente alla sola redazione piú antica, che è tra
l’altro l’unica a esserci giunta completa. Si è optato per la seconda
soluzione per almeno tre diversi ordini di motivi. Recuperando nella sua
integralità il primo Partigiano è possibile infatti:
– evitare di costruire il testo su tre
testimoni distinti, ognuno dei quali relativo a un diverso stadio di
composizione. La prima stesura del Partigiano ha infatti il non
trascurabile vantaggio di offrire ai lettori un testo piú coeso
linguisticamente e piú coerente narrativamente;
– documentare la forma originaria, ma
anche piú completa, del progetto fenogliano (con l’esclusione dei
materiali in inglese, troppo provvisori), attestandosi in tal modo
all’estremo opposto dell’ultima volontà dell’autore. per l’intero ciclo
di Johnny, infatti, tale ultima volontà coincide con l’edizione di Primavera di bellezza edita
nel 1959 (e dunque con la morte del protagonista e la scelta di lasciar
cadere la seconda parte della storia). Di ogni singola sezione
sopravvissuta, Il libro di Johnny offre invece ora, uniformemente, la piú antica stesura pervenutaci;
– adottare la versione dell’ultima parte del Partigiano che
meglio lega con le sezioni precedenti dell’opera. Preoccupato per la
mole considerevole del libro (che in parte doveva essergli sfuggito di
mano), nell’ultimo rifacimento Fenoglio sembra essere stato mosso
anzitutto dal desiderio di potare tutto il non necessario, ma cosí ha
finito spesso per rinunciare proprio a quei passaggi che consentivano di
legare meglio l’ultima parte della storia di Johnny a Primavera di bellezza, e in particolare ai fondamentali capitoli albesi sacrificati nel 1958.
Gabriele Pedullà
Da http://www.leparoleelecose.it/?p=18741
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