06 aprile 2015

HUGO BALL, IL DADAISTA CONVERTITO AL MISTICISMO



Nel 1923 Hugo Ball, esponente del movimento artistico più trasgressivo, scopre un'altra rivoluzione: quella dei maestri dell'ascetismo cristiano. Arriva in libreria, finalmente tradotto in italiano, il suo studio del cristianesimo bizantino.

Silvia Ronchey

Il dadaista convertito al misticismo bizantino

«Quando mi imbattei nella parola Dada fui chiamato due volte da Dionigi Areopagita: D. A. – D. A.», annota Hugo Ball in Fuga dal tempo, il diario che documenta il passaggio, tra il 1913 e il 1921, dal dadaismo al cristianesimo bizantino, o meglio alla sua mistica, una conversione estetica prima ancora che etica e comunque meno religiosa che filosofica. È all’apice di quel transito che scrive le tre vitae sanctorum che compongono Cristianesimo bizantino.

Ne ha letto gli originali in antichi volumi «le cui pagine in folio crepitano, sfogliandole, come le vele di una fregata» e lo sospingano a un’eversiva libertà dal saeculum, il tempo del mondo, sulle tracce di tre maestri di fuga: di anacoresi, letteralmente “ritirata” (dal greco anachoreo, “me ne vado”), per Ball “secessione”.

Ball – scrittore, performer, regista, fondatore del dadaismo con Tristan Tzara – amava la saggezza dell’India, il manicheismo, che aveva divulgato nel cristianesimo le regole di astinenza buddiste, la filosofia di Nietzsche, Bakunin, la psicoanalisi, il pianoforte, il teatro e la poesia espressionista. Quella dal tempo fu l’ultima delle sue fughe.

C’era stata prima quella dal fronte, dopo l’arruolamento volontario nel 1914 e l’orrore per lo spettacolo sacrificale delle trincee, che scardinava ogni idea di teatro. Rifugiato a Zurigo, le oppose le quinte effimere dell’antispettacolo Dada.

Nei poèmes sans mots e nella poésie phonétique di Ball al Cabaret Voltaire, «rinuncia secca» al «linguaggio ormai corrotto dalla propaganda», già trapelava una mistica: occorreva abbandonare la parola per «ritirarsi (anachoreo) verso la sua alchimia più intima». Si era accorto che la sua voce «non avendo più altra scelta aveva adottato l’antichissima cadenza della sacra lamentazione, lo stile di quei canti liturgici che diffondono il loro gemito per le chiese d’oriente e d’occidente».

La lingua che Ball cercava aveva il «sommerso, boccheggiante mutismo dei pesci»: «I suoi caratteri guizzano in quelle curve del destino che attraversano all’improvviso la nostra coscienza come un flusso di luce». Il dadaismo del Café Voltaire e il pacifismo della Critica dell’intelligenza tedesca, il suo libro del 1919, cospirarono nella rilettura di tre classici della mistica bizantina.

Il De coelesti hierarchia di Dionigi Areopagita, una vetta irradiata da Platone, «il grande sole d’oriente», da Giamblico, da Proclo (ma, ignorava Ball, soprattutto da Damascio). La Scala Paradisi di Giovanni Climaco, che «combatte la realtà come una pestilenza e la zavorra della vita come un’eresia». La Vita metafrastica di Simeone Stilita, l’“orologio di dio” che dissolve il tempo, ritto sulla meridiana della sua colonna.

«Abbiamo disimparato la lingua dei geroglifici. È andata perduta la sua chiave», scrive Ball. «Non capiamo più niente. Ma così siamo finiti sotto cieli che si fendono e vomitano sanme gue e fuoco». L’immagine della guerra accomuna le descrizioni delle sofferenze dei monaci nei testi degli antichi padri e in quello di Ball: «Tutti hanno la morte davanti agli occhi. Vivono e soffrono cose indicibili. Sputano sangue, gli occhi sono febbricitanti. Gli angeli della consolazione li attendono, annientati, laceri e sudici».

Per i figli superstiti del secolo breve, «atleti della disperazione», la risposta ai problemi del tempo cui appartengono è la soppressione dei bisogni, l’addio a «tutte le cure cui ci costringono società e stato, abitudine e comodità, proprietà e famiglia». Perché, scrive Ball, «i mali della società, paralisi e isteria» possono essere eliminati «solo assecondando la dissoluzione della forma interiore».

Dal dadaismo al bizantinismo c’è un passaggio obbligato e sotterraneo, che può percorrersi anche in direzione inversa: per esempio dal bizantinismo all’astrattismo, come predicato negli stessi anni del Novecento da Matisse e praticato da Kandinsky, grande amico di Ball, che dalle icone appese ai muri del suo atelier derivò il rifiuto della materialità nell’arte.

All’icona bizantina, di cui l’arte contemporanea è orfana o figlia, Hugo Ball dedicherà gli scritti filosofici degli anni tra il 1923 e il 1927, trattando il rapporto tra immagine archetipica (Urbild) e immagine riprodotta (Abbild): del “fenomeno originario” l’icona non è copia ma “impronta”, una sorta di negativo della sua struttura intima, in cui alla mancanza della terza dimensione fa riscontro la necessità della ripetizione. Per questo l’arte bizantina è astratta e seriale come quella novecentesca, fino a Andy Warhol o a Yves Klein.

Il medioevo dadaista di Ball è precursore dell’evo postmoderno. Per la riscoperta dell’estetica concettuale bizantina, del suo messaggio di disintegrazione e sovvertimento dell’immagine e della parola stessa. Per la rilettura della teologia mistica cristiana non come fede trascendente e neppure come ideologia pubblica ma come declinazione immanente di un pensiero negativo, pessimista se non nichilista, che si fa interiormente libertario e pacifista.
    Hugo Ball
Per l’individuazione in Bisanzio dell’alveo carsico di un incessante scambio sapienziale tra oriente e occidente in cui cristianesimo e buddismo, yoga ed esicasmo, attraverso i secoli e i millenni, attraverso le regioni oggi insanguinate da un conflitto solo superficialmente religioso, tracciano un’unica ininterrotta civiltà. Per l’intuizione della parentela tra mistica antica e moderna iniziazione psicoanalitica e la ricerca delle radici di questa nelle forme della “terapia” ascetica dell’anima, della santa esichìa.

In questa ricerca della libertà interiore nella secessione dalla contemporaneità brutale, dal suo culto della tecnica, della guerra, dell’edonismo, del consumismo, non c’è differenza tra l’asceta, l’esteta, il rivoluzionario. Sono la stessa figura, l’evoluzione disincarnata di un resistente la cui «spada sguainata contro la propria volontà», sospesa tra medioevo e Dada, sempre in assoluto conflitto col presente, è l’unica forma di resistenza possibile alla «ferita dei tempi».

Tra le ultime note della Fuga dal tempo, al 3 gennaio del 1921, si legge: «Il socialista, l’esteta, il monaco. Tutti e tre sono d’accordo sulla necessità di abbandonare la moderna cultura borghese al suo declino. Da loro tre proverranno gli elementi di un nuovo ideale».


la Repubblica - 18 marzo 2015

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