Pasquale Briscolini
Quando lesse il mio
vecchio libro, - a quei tempi era un pericolo vederci, ma in compenso
eravamo più giovani – Masino ci pensò sopra un pezzo, evitò di
parlarne in presenza di compagni, e ogni tanto se la rideva da solo.
E’ l’incipit
dell’articolo di Pavese su L’Unità di luglio di quell’anno, il
1946, e il quarto del gruppo “Dialoghi col compagno” in cui si
riconoscono alcune “costanti” che sono sottese ad ogni articolo.
La prima costante è
riconoscibile nel clima particolarmente comunicativo: Pavese ha
proprio voglia di “comunicare” con gli interlocutori che di volta
in volta propone e di essere empaticamente vicino a loro. Si scherza
e si dicono cose serie, ma sempre con leggerezza: si è tra
“compagni”, certo in senso politico (non a caso gli articoli sono
pubblicati su L’Unità) ma non solo, anche in senso profondamente
umano.
La seconda “costante”
è “l’intento formativo” - non certo pedantemente didattico ma
di tono leggero e accattivante - volto a sostenere temi che a lui
stanno particolarmente a cuore, nella sua visione del mondo.
Una terza è la latente
“polemica” con il Partito sulla libertà dello scrittore. Che
secondo alcuni dovrebbe finalizzare la sua produzione alle esigenze
“politiche”; ma questa non è certo l’idea di Pavese, che
rivendica invece la libertà completa dello scrittore che andrà –
semmai – “verso l’uomo”.
Proviamo ad ascoltare e
far emergere, in questo quarto articolo del gruppo, i fili e i
messaggi che navigano sott’acqua, in immersione. Così procede
Pavese dopo l’incipit facendo parlare Masino:
- Però , - disse, - accidenti. Anche tu ci hai messo l’amore. Uno e una che si piacciono.
- Non va?
- Io dico una cosa. Quando sai che qualcuno, anche un amico, fa l’amore davvero, ti diverti? Fa rabbia, fa invidia, fa malinconia: non si può neanche pensarci. Invece, in un romanzo non trovi che coppie e te le guardi, le conosci, le segui. Parola che mi vergogno di essermi divertito.
- E che cos’altro vuoi trovare in un romanzo?
- Prendi il tuo. Non c’è solo l’amore. C’è un padrone e dei salariati. C’è un caso di lotta di classe. Si capisce leggendo come la campagna sia arretrata e il lavoro sfruttato. Anche il delitto di Talino è conseguenza di queste condizioni storiche. L’amore invece cosa c’entra?
Insomma, “ci sono cose
serie” - dice Masino, - “e l’amore cosa c’entra?”. Si sente
quasi in colpa per essersi divertito leggendo, quando le cose di cui
“ci si dovrebbe occupare” sono altre: il lavoro e il padrone, la
lotta di classe. E Pavese risponde (per adesso prendendolo un po’
in giro, come poi lui stesso dirà):
- C’entra sì. Se non ci fosse lo sfruttamento, Gisella non s’innamorerebbe del meccanico. Perciò tutti e due, essendo vittime, s’innamorano e fanno fronte ai padroni. Difatti è innamorato di Gisella anche Ernesto del Prato. Perché? Ma perché è un meccanico, un salariato anche lui. Masino capisce quando lo piglio in giro. Sa che lo faccio per spiegarmi e non s’offende.
Nella risposta scherzosa,
Pavese finge di seguire Masino sulla strada del “dover essere”, e
quindi di spiegare tutto in termini di “sociale” e di “lotta di
classe”. Poi chiarisce lo scherzo e Masino insiste:
- Ma allora quella storia d’amore che cosa vuol dire, che cosa ci fa?
Pavese risponde, questa
volta seriamente, e gli spiega che ogni lettore deve poter trovare
nella storia un proprio aggancio: gli conferma quello che noi
sappiamo, che in realtà è il lettore che “scrive”, leggendo, il
proprio libro perché lo riporta (in qualche modo, lo interpreta) nel
proprio vissuto:
Dissi a Masino che tutti
i modi di leggere una storia sono buoni, hanno il loro bello. Le
storie si scrivono appunto per questo: ogni ceto di lettori deve
trovarci un richiamo, un interesse. Si comincia dalle cose di tutti i
giorni, mangiare, dormire, far l’amore; se non c’è questo, tutto
il resto sono chiacchiere; poi queste cose si congegnano in modo che
si capisca perché succedono – e chi lo sa perché succedono le
cose? Ci sono motivi infiniti, e dev’essere chiaro che sono
successe ma ciascuno vederci il motivo, l’esperienza sua -
l’ignorante e quello in gamba - altrimenti tanto valeva lasciar
stare.
La spiegazione non
soddisfa Masino perché ha fatto un largo giro di parole ma ha
evitato il problema; e lui insiste:
- “Sì, ma perché sempre l’amore? - ripeté Masino – Che cosa importa a me che leggo che un altro si sia trovata la ragazza?
Questa volta Pavese
affronta il punto dell’amore in un romanzo, e non come l’accenno
di prima in cui sembrava essere un’esigenza verso il lettore, ma
piuttosto come un’esigenza profonda dello scrittore, che ha proprio
bisogno di “innamorarsi” – almeno nella fantasia – per aver
più voglia di parlare e di raccontare:
- E’ una grossa questione, Masino. Devi sapere che una storia è sempre fatta di simpatia verso la gente. Chi la racconta – che di solito per sua disgrazia o per le arie e strafottenze che si dà è un tipo in rotta con tutti – non riesce a scriverla se, almeno in quelle ore che lavora, qualcosa non gli tocca il cuore e lo scalda e gli fa voler bene alla gente, ai personaggi, alla giornata che passa. Ma c’è un sistema per scaldarsi, per cambiar la giornata, per godere le cose e la gente come sono, meglio che interessarsi a una ragazza, sia pure in fantasia? Per la stessa ragione che, quando vuoi bene a una ragazza, hai voglia di scriverle lettere, e tutto ti piace e fa godere, anche il cane e la pioggia – per la stessa ragione chi inventa una storia d’amore, se non è proprio uno zuccone o un pervertito, si mette in grado di voler del bene a tutti quanti i personaggi, e li capisce più a fondo e si diverte a raccontarli. Ci sono sì dei libri senza storie d’amore, e bellissimi anche, ma sono libri d’altri tempi.
Masino-Pavese capisce che
quest’ultimo è un altro punto importante, e infatti lo rinvia di
un attimo perché adesso vuole insistere su un aspetto. Di fatto è
Pavese che vuol parlare di se’, della sua difficoltà a stabilire
rapporti profondi con gli altri. In sostanza, vuol parlare della sua
solitudine, e si fa chiedere da Masino:
- Poi ne parliamo, - fa Masino al volo, - ma ti dai delle arie anche tu. Possibile che chi scrive sia in rotta con tutti? Come fa?
- Lo sapessi, Masino. Ma giorno per giorno mi convinco di questo. Bada bene: tutti lo cercano uno che scrive, tutti gli vogliono parlare, tutti vogliono poter dire domani “so come sei fatto” e servirsene, ma nessuno gli fa credito di un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo. Si direbbe che han sempre paura di trattare con chi è stato o sarà, non con chi è.
Si sente che Pavese parla
di se’, e in modo sottilmente accorato; Masino tenta di fare
un’ipotesi del perché accade questo:
- Forse sentono l’intellettuale borghese che parla invece di agire.
- Può darsi. Ma conosco intellettuali borghesi a iosa e nessuno è trattato come chi senza trucchi fa il mestiere di scrivere.
Masino dà un’altra
spiegazione e questa volta sembra colpire nel segno:
- Sai com’è? – disse Masino. – Se tu vai d’accordo, anche gli altri ti vanno d’accordo. Si vede che chi scrive è il primo a non dar confidenza a nessuno. Come vuoi dunque che la diano a lui?
- Allora tacqui. Per un poco tacemmo.
Pavese tace, come se
volesse far ricadere su di se’ la colpa della propria solitudine,
per essere lui il primo a non avere interesse per gli altri. E’ un
tema che riprenderà nel Diario il 17 agosto del ’50, a pochi
giorni alla fine tragica: “Ti stupisci che gli altri ti passino
accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai,
non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”
Ma come a interrompere
bruscamente quell’attimo di straniamento, Masino riprende:
- Com’è che dicevi? – disse a un tratto Masino. – ci sono romanzi senza storie d’amore?
- Non proprio romanzi, ma ce n’è. Tutte le volte che chi scrive è abbastanza robusto da interessarsi agli altri e trovar bello il mondo e aver voglia di dirlo, senza bisogno di eccitarsi come un cane a quell’odore, viene fuori una storia stupenda. Ma ben pochi ci riescono. Ci riuscivano di più in passato, in società organizzate in modo che la questione sessuale non era ancora diventata ideologia come adesso. Avevan altro da pensare, quella gente.
Dobbiamo ricordare che
siamo nel 1946, e Pavese è nel pieno della sua attrazione verso il
mito, verso il periodo lontanissimo della notte dei tempi prima del
logos. E’ stato affascinato dalla lettura de “La fisiologia del
mito” di Untersteiner, che ha peraltro avuto parole di grande
apprezzamento per i “Dialoghi con Leucò”. Ed è quindi convinto
- e qui lo sostiene - di quanto oggi Massimo Recalcati dice con
riferimento a Freud: “Tra le due guerre mondiali Freud dà alle
stampe , con il titolo Il disagio della civiltà, una riflessione
lucida sulle ragioni profonde del malessere a lui contemporaneo ma
più in generale sul binomio civiltà e disagio. Freud pone con forza
la sua tesi: l’iscrizione dell’uomo nel campo della civiltà
esige una rinuncia pulsionale. Questa rinuncia trova nella legge
dell’interdizione del godimento sostenuta dal Super-io sociale
dell’epoca il suo agente fondamentale. Per essere civili, afferma
Freud, è necessario assumere la rinuncia ai propri soddisfacimenti
pulsionali come condizione per l’appartenenza a una comunità
umana.”
Masino riparte provando,
in una qualche “visione mitologica” a unire con una speranza quel
passato remoto con un futuro per lui auspicabile:
- E non credi che una nuova società possa rifare quelle antiche condizioni?
- E’ possibile, certo.
Allora Masino aveva
ragione: l’amore non serve nei romanzi, basta fare una società
nuova! E lui non si fa sfuggire l’occasione per ribadirlo e vincere
definitivamente la partita:
- Ma allora avevo ragione a dire che le storie d’amore non sono essenziali e voi scrittori esagerate e ci sono delle cose più serie?
- Tu hai sempre ragione, Masino. Tutto dipende, però.
In conclusione: ha
ragione o no Masino? Certo: basterebbe fare una società nuova; ma
questo è possibile o indietro non si può tornare? E poi, cosa vuol
dire andare avanti o tornare indietro? Dovremmo intanto metterci
d’accordo su questo, ma è lì il problema. Che, di fatto, non
riusciamo a metterci d’accordo praticamente su niente. A volte ci
proviamo e ci crediamo; qualche volta siamo convinti di esserci
riusciti. Per scoprire, un attimo dopo, che “tutto dipende, però”.
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