30 aprile 2015

C. PAVESE, Paesi tuoi



Pasquale Briscolini

Paesi tuoi”. Ovvero: cosa c’entra l’amore in un romanzo? 

Quando lesse il mio vecchio libro, - a quei tempi era un pericolo vederci, ma in compenso eravamo più giovani – Masino ci pensò sopra un pezzo, evitò di parlarne in presenza di compagni, e ogni tanto se la rideva da solo.

E’ l’incipit dell’articolo di Pavese su L’Unità di luglio di quell’anno, il 1946, e il quarto del gruppo “Dialoghi col compagno” in cui si riconoscono alcune “costanti” che sono sottese ad ogni articolo.
La prima costante è riconoscibile nel clima particolarmente comunicativo: Pavese ha proprio voglia di “comunicare” con gli interlocutori che di volta in volta propone e di essere empaticamente vicino a loro. Si scherza e si dicono cose serie, ma sempre con leggerezza: si è tra “compagni”, certo in senso politico (non a caso gli articoli sono pubblicati su L’Unità) ma non solo, anche in senso profondamente umano.

La seconda “costante” è “l’intento formativo” - non certo pedantemente didattico ma di tono leggero e accattivante - volto a sostenere temi che a lui stanno particolarmente a cuore, nella sua visione del mondo.

Una terza è la latente “polemica” con il Partito sulla libertà dello scrittore. Che secondo alcuni dovrebbe finalizzare la sua produzione alle esigenze “politiche”; ma questa non è certo l’idea di Pavese, che rivendica invece la libertà completa dello scrittore che andrà – semmai – “verso l’uomo”.

Proviamo ad ascoltare e far emergere, in questo quarto articolo del gruppo, i fili e i messaggi che navigano sott’acqua, in immersione. Così procede Pavese dopo l’incipit facendo parlare Masino:
  • Però , - disse, - accidenti. Anche tu ci hai messo l’amore. Uno e una che si piacciono.
  • Non va?
  • Io dico una cosa. Quando sai che qualcuno, anche un amico, fa l’amore davvero, ti diverti? Fa rabbia, fa invidia, fa malinconia: non si può neanche pensarci. Invece, in un romanzo non trovi che coppie e te le guardi, le conosci, le segui. Parola che mi vergogno di essermi divertito.
  • E che cos’altro vuoi trovare in un romanzo?
  • Prendi il tuo. Non c’è solo l’amore. C’è un padrone e dei salariati. C’è un caso di lotta di classe. Si capisce leggendo come la campagna sia arretrata e il lavoro sfruttato. Anche il delitto di Talino è conseguenza di queste condizioni storiche. L’amore invece cosa c’entra?
Insomma, “ci sono cose serie” - dice Masino, - “e l’amore cosa c’entra?”. Si sente quasi in colpa per essersi divertito leggendo, quando le cose di cui “ci si dovrebbe occupare” sono altre: il lavoro e il padrone, la lotta di classe. E Pavese risponde (per adesso prendendolo un po’ in giro, come poi lui stesso dirà):
  • C’entra sì. Se non ci fosse lo sfruttamento, Gisella non s’innamorerebbe del meccanico. Perciò tutti e due, essendo vittime, s’innamorano e fanno fronte ai padroni. Difatti è innamorato di Gisella anche Ernesto del Prato. Perché? Ma perché è un meccanico, un salariato anche lui. Masino capisce quando lo piglio in giro. Sa che lo faccio per spiegarmi e non s’offende.
Nella risposta scherzosa, Pavese finge di seguire Masino sulla strada del “dover essere”, e quindi di spiegare tutto in termini di “sociale” e di “lotta di classe”. Poi chiarisce lo scherzo e Masino insiste:
  • Ma allora quella storia d’amore che cosa vuol dire, che cosa ci fa?
Pavese risponde, questa volta seriamente, e gli spiega che ogni lettore deve poter trovare nella storia un proprio aggancio: gli conferma quello che noi sappiamo, che in realtà è il lettore che “scrive”, leggendo, il proprio libro perché lo riporta (in qualche modo, lo interpreta) nel proprio vissuto:

Dissi a Masino che tutti i modi di leggere una storia sono buoni, hanno il loro bello. Le storie si scrivono appunto per questo: ogni ceto di lettori deve trovarci un richiamo, un interesse. Si comincia dalle cose di tutti i giorni, mangiare, dormire, far l’amore; se non c’è questo, tutto il resto sono chiacchiere; poi queste cose si congegnano in modo che si capisca perché succedono – e chi lo sa perché succedono le cose? Ci sono motivi infiniti, e dev’essere chiaro che sono successe ma ciascuno vederci il motivo, l’esperienza sua - l’ignorante e quello in gamba - altrimenti tanto valeva lasciar stare.
La spiegazione non soddisfa Masino perché ha fatto un largo giro di parole ma ha evitato il problema; e lui insiste:
  • “Sì, ma perché sempre l’amore? - ripeté Masino – Che cosa importa a me che leggo che un altro si sia trovata la ragazza?
Questa volta Pavese affronta il punto dell’amore in un romanzo, e non come l’accenno di prima in cui sembrava essere un’esigenza verso il lettore, ma piuttosto come un’esigenza profonda dello scrittore, che ha proprio bisogno di “innamorarsi” – almeno nella fantasia – per aver più voglia di parlare e di raccontare:

  • E’ una grossa questione, Masino. Devi sapere che una storia è sempre fatta di simpatia verso la gente. Chi la racconta – che di solito per sua disgrazia o per le arie e strafottenze che si dà è un tipo in rotta con tutti – non riesce a scriverla se, almeno in quelle ore che lavora, qualcosa non gli tocca il cuore e lo scalda e gli fa voler bene alla gente, ai personaggi, alla giornata che passa. Ma c’è un sistema per scaldarsi, per cambiar la giornata, per godere le cose e la gente come sono, meglio che interessarsi a una ragazza, sia pure in fantasia? Per la stessa ragione che, quando vuoi bene a una ragazza, hai voglia di scriverle lettere, e tutto ti piace e fa godere, anche il cane e la pioggia – per la stessa ragione chi inventa una storia d’amore, se non è proprio uno zuccone o un pervertito, si mette in grado di voler del bene a tutti quanti i personaggi, e li capisce più a fondo e si diverte a raccontarli. Ci sono sì dei libri senza storie d’amore, e bellissimi anche, ma sono libri d’altri tempi.
Masino-Pavese capisce che quest’ultimo è un altro punto importante, e infatti lo rinvia di un attimo perché adesso vuole insistere su un aspetto. Di fatto è Pavese che vuol parlare di se’, della sua difficoltà a stabilire rapporti profondi con gli altri. In sostanza, vuol parlare della sua solitudine, e si fa chiedere da Masino:

  • Poi ne parliamo, - fa Masino al volo, - ma ti dai delle arie anche tu. Possibile che chi scrive sia in rotta con tutti? Come fa?
  • Lo sapessi, Masino. Ma giorno per giorno mi convinco di questo. Bada bene: tutti lo cercano uno che scrive, tutti gli vogliono parlare, tutti vogliono poter dire domani “so come sei fatto” e servirsene, ma nessuno gli fa credito di un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo. Si direbbe che han sempre paura di trattare con chi è stato o sarà, non con chi è.
Si sente che Pavese parla di se’, e in modo sottilmente accorato; Masino tenta di fare un’ipotesi del perché accade questo:

  • Forse sentono l’intellettuale borghese che parla invece di agire.
  • Può darsi. Ma conosco intellettuali borghesi a iosa e nessuno è trattato come chi senza trucchi fa il mestiere di scrivere.
Masino dà un’altra spiegazione e questa volta sembra colpire nel segno:

  • Sai com’è? – disse Masino. – Se tu vai d’accordo,  anche gli altri ti vanno d’accordo. Si vede che chi scrive è il primo a non dar confidenza a nessuno. Come vuoi dunque che la diano a lui?
  • Allora tacqui. Per un poco tacemmo.
Pavese tace, come se volesse far ricadere su di se’ la colpa della propria solitudine, per essere lui il primo a non avere interesse per gli altri. E’ un tema che riprenderà nel Diario il 17 agosto del ’50, a pochi giorni alla fine tragica: “Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”

Ma come a interrompere bruscamente quell’attimo di straniamento, Masino riprende:

  • Com’è che dicevi? – disse a un tratto Masino. – ci sono romanzi senza storie d’amore?
  • Non proprio romanzi, ma ce n’è. Tutte le volte che chi scrive è abbastanza robusto da interessarsi agli altri e trovar bello il mondo e aver voglia di dirlo, senza bisogno di eccitarsi come un cane a quell’odore, viene fuori una storia stupenda. Ma ben pochi ci riescono. Ci riuscivano di più in passato, in società organizzate in modo che la questione sessuale non era ancora diventata ideologia come adesso. Avevan altro da pensare, quella gente.
Dobbiamo ricordare che siamo nel 1946, e Pavese è nel pieno della sua attrazione verso il mito, verso il periodo lontanissimo della notte dei tempi prima del logos. E’ stato affascinato dalla lettura de “La fisiologia del mito” di Untersteiner, che ha peraltro avuto parole di grande apprezzamento per i “Dialoghi con Leucò”. Ed è quindi convinto - e qui lo sostiene - di quanto oggi Massimo Recalcati dice con riferimento a Freud: “Tra le due guerre mondiali Freud dà alle stampe , con il titolo Il disagio della civiltà, una riflessione lucida sulle ragioni profonde del malessere a lui contemporaneo ma più in generale sul binomio civiltà e disagio. Freud pone con forza la sua tesi: l’iscrizione dell’uomo nel campo della civiltà esige una rinuncia pulsionale. Questa rinuncia trova nella legge dell’interdizione del godimento sostenuta dal Super-io sociale dell’epoca il suo agente fondamentale. Per essere civili, afferma Freud, è necessario assumere la rinuncia ai propri soddisfacimenti pulsionali come condizione per l’appartenenza a una comunità umana.”

Masino riparte provando, in una qualche “visione mitologica” a unire con una speranza quel passato remoto con un futuro per lui auspicabile:

  • E non credi che una nuova società possa rifare quelle antiche condizioni?
  • E’ possibile, certo.
Allora Masino aveva ragione: l’amore non serve nei romanzi, basta fare una società nuova! E lui non si fa sfuggire l’occasione per ribadirlo e vincere definitivamente la partita:

  • Ma allora avevo ragione a dire che le storie d’amore non sono essenziali e voi scrittori esagerate e ci sono delle cose più serie?
  • Tu hai sempre ragione, Masino. Tutto dipende, però.


In conclusione: ha ragione o no Masino? Certo: basterebbe fare una società nuova; ma questo è possibile o indietro non si può tornare? E poi, cosa vuol dire andare avanti o tornare indietro? Dovremmo intanto metterci d’accordo su questo, ma è lì il problema. Che, di fatto, non riusciamo a metterci d’accordo praticamente su niente. A volte ci proviamo e ci crediamo; qualche volta siamo convinti di esserci riusciti. Per scoprire, un attimo dopo, che “tutto dipende, però”.

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