Ignazio Buttitta a Roccamena nel 1963
È uscito, per Quodlibet, Letteratura come storiografia di Emanuele Zinato. Questa è l’introduzione che riprendiamo da
Letteratura come storiografia?
di Emanuele Zinato
Non come sono andate le cose, ma come sono andate per i muratori: a questo vogliono parare le Domande di un lettore operaio.
La scienza non può dargli una risposta: si occupa di potenze, nazioni,
popoli, alleanze, gruppi d’interesse, non mai di uomini. Uomini che sono
vissuti prima di noi, li incontriamo solo nella letteratura. (H.M.
Enzensberger, Letteratura come storiografia, in “Il menabò”, n. 9, luglio 1966, p. 14)
I. Le parole-chiave presenti nel titolo e nel sottotitolo di questo libro, e rese in qualche misura provocatorie dalla forma interrogativa, necessitano di una spiegazione. Letteratura come storiografia è il titolo di un saggio di Enzensberger che uscì nel luglio 1966 sul “Menabò-Gulliver”, la
leggendaria rivista europea coordinata da Francesco Leonetti e diretta
da Elio Vittorini e da Italo Calvino. Da Vittorini, già ammalato, fu
progettato un numero tutto tedesco affidato appunto a Enzensberger: il nono fascicolo, corredato di campioni testuali del Gruppo 47, da Walser a Kluge, da Weiss a Johnson. Il saggio di Enzensberger, che lo introduce, delinea una ricostruzione originale della letteratura tedesca del dopoguerra e un’ipotesi teorica fondata sulla differenza fra storiografia (un testo di Golo Mann) e letteratura (una pagina di Berlin Alexanderplatz di Döblin). Entrambi i testi cercano
di fare il punto su quanto è accaduto a Berlino nell’anno 1928, ma lo
storiografo guarda ai dati sull’incremento della disoccupazione, lo
scrittore presenta invece il punto di vista soggettivo di un passante
nella metropoli, con le drogherie, le vetrine e il profumo di trippa. La
letteratura, scrive Enzensberger, custodisce «nella penombra delle
opere» le «tracce dei dimenticati».
Rispetto alla situazione, già larvatamente postmoderna, del «boom» economico (avvenuto in Germania quasi un decennio prima che
da noi), negli anni cruciali della guerra d’Algeria e della costruzione
del muro, con il progetto del «Menabò-Gulliver», così come era avvenuto
con “Officina”, si cerca, forse per
l’ultima volta, di «superare la separatezza del lavoro intellettuale
senza rinunciare alla specificità della produzione artistica» [1].
E’ davvero, questa, un’esperienza inattingibile nel nostro presente omologato e “senza trauma”? Forse non è così se, come scriveva
Franco Fortini, la sola storia che conti davvero, la sola veramente
traumatica, è quella cui dobbiamo la nostra nascita. E noi siamo, nella
quasi totalità, figli e nipoti della mutazione: da ciò la necessità di interrogare oggi le scritture del secondo Novecento.
Mutazione è un
concetto di origine genetica, variamente utilizzato come metafora per
definire la trasformazione antropologica degli italiani durante
l’irruzione della cultura dei consumi [2].
Se le migrazioni interne, la motorizzazione, la paleotelevisione,
l’espansione dei consumi, la scolarizzazione di massa, hanno avuto luogo
già negli anni del boom, tra 1958 e 1963, esse deflagrano come contraddizioni e divengono “inconscio politico” nel quindicennio successivo. E’ la soglia, cruciale e inesplorata, che Giulio Bollati, riferendosi agli scrittori che l’hanno attraversata, ha chiamato “landa sconosciuta della modernizzazione”:
In Volponi la
modernità industriale si interiorizza in un misterioso impulso
all’unicità di pensiero, senso e materia; Pasolini si cala –
come un Baudelaire intenerito – negli inferni urbani e suburbani indotti
da quella; Calvino la traduce in ingegnose ed evasive metafore
scientifiche. (…)Per questi scrittori la società non è un dato, ma
un’ipotesi. Scrittori che hanno continuato in proprio il
lavoro che la sinistra (quella comunista in primo luogo) ha lasciato a
mezzo col risultato di aprire la strada a una concezione del
mondo come “dato”, e non come una continua, responsabile “costruzione”
umana; aprendo quindi la strada a un neoliberismo di fatto,
molto prima che spuntassero all’orizzonte i teorici del neoliberismo e
del neocontrattualismo.[3]
Come la “mutazione” italiana interagisca con la nozione, oggi già desueta, di “postmoderno” è una questione aperta. Il dibattito, ricostruito da Monica Jansen[4], ha messo in luce posizioni assai diverse: a esempio, negli anni Novanta, quelle di Remo Ceserani e di Romano Luperini. Il
primo, convinto che la svolta che caratterizza i processi culturali e
il sensorio umano della contemporaneità sia epocale, il secondo propenso
viceversa a considerare il postmoderno una fase interna al moderno.
Credo che l’epoca del dopo, con i suoi connotati (citazionismo, intreccio ammiccante e irriverente di materiali alti e massmediatici), e i suoi postulati (fine della Storia e delle Grandi Narrazioni), presupponesse un “superamento” della modernità che era
invece l’estremizzazione dei suoi presupposti. A ben guardare, la
stessa proposta del sociologo polacco-inglese Zygmunt Bauman di
descrivere i fenomeni postmoderni con la metafora della Liquid Modernity [5] si fonda infatti su una delle più famose figure marxiane del moderno nella sua epoca classica: “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria”[6]. Dunque, mi sembra convincente, per definire il contemporaneo, il ricorso alla categoria di ipermodernità, elaborata in Francia e ripresa in Italia in un recente libro di Raffaele Donnarumma: la mutazione, di cui siamo figli, si può intendere anche e soprattutto come accelerazione, ipercinetica e compulsiva, dei processi socioeconomici e culturali più tipici del moderno[7].
II. Tutti i saggi riuniti in questo volume riguardano autori, testi, esperienze e problemi dal “miracolo” agli “anni Zero” e riprendono l’idea di letteratura
come forma simbolica che, nella modernità, ha avuto la possibilità di
accedere a sfere dell’esistenza e dell’esperienza cui la storiografia
non ha accesso[8]. Questi requisiti del resto non sono propri solo del romanzo e non sono evaporati con l’accelerazione della modernità: anche il saggio[9], ibrido di tensione oggettiva e invenzione soggettiva, il reportage e la poesia dialogica, plurivoca e narrativa del secondo Novecento[10], si sono assunti un compito analogo. Nell’epica della coscienza, dell’interiorità e della percezione soggettiva, risorse specifiche della letteratura del Novecento, il non contemporaneo può riaffiorare come contemporaneo, come ha scritto Ernst Bloch in Eredità del nostro tempo
(1935) per spiegare le zone di arretratezza psicosociale sulle quali
l’ideologia nazista faceva leva. E, più in generale, se si può ancora
ipotizzare una qualche specificità del testo letterario, questo – con Francesco Orlando- si può intendere come un discorso la cui figuralità permette il ritorno del represso: compresenza di modelli del mondo tra loro contrari, in equilibrio dinamico, drammatico e conflittuale. Le opere letterarie, proprio in quanto costruite di contraddizioni e di significati opposti, sono abitate da più voci e da più punti di vista, sono dunque necessariamente aporetiche e ambigue e, in un’epoca come la nostra di “pensiero unico”, rappresentano una risorsa di plurivocità e di alterità.
Il libro è bipartito: la prima sezione comprende due laboratori culturali del secondo Novecento (le riviste “Officina” e “Il Menabò”) la cui eredità considero
ancora vitale e trasmissibile, e alcuni strumenti teorici e
metodologici fra cui spicca la critica tematica e, dunque, una prospettiva di lettura antropologica e interdisciplinare in grado di mettere in contrappunto le opere e il mondo. Se tematizzare può essere un modo nuovo per storicizzare[11], individuando non solo le costanti ma anche le varianti e le cesure, le due tematiche maggiormente presenti in questi saggi, il corpo e il lavoro, sono intese appunto in quanto temi e motivi e non come archetipi: piuttosto che rappresentare il luogo della separatezza rispetto alla storia, la corporeità si
pone come sottosuolo delle relazioni sociali, punto di transito dei
gesti appresi, dei ruoli contraddittori, del ritorcersi dell’io
nell’assimilazione della maschera pubblica. Oltre che porre in scena forze libidiche, insomma il
corpo nelle rappresentazioni letterarie (specie nelle epoche di più
rapida mutazione) ha sempre qualcosa a che fare con la riproduzione
materiale dell’esistenza.
La seconda sezione interroga alcuni maestri del secondo Novecento, che continuano a scrivere nel cuore degli anni ottanta (Parise,
Fortini, Volponi, Morante, Sciascia, Primo Levi) e quattro scrittori
degli anni Zero (Affinati, De Signoribus, Di Ruscio, Sarchi) in qualche
modo capaci di raccogliere dai maestri tradizione e eredità. Tutti
i testi presi in esame sono a loro modo ambiguamente reattivi nei
confronti della mutazione: la indagano nei modi indocili, pluriprospettici e diagnostici con cui le opere letterarie sanno rispondere alle ulcerazioni della storia.
Goffredo Parise, raggiunto a New York nel 1975 dalla notizia dell’assassinio di Pasolini, in alcuni articoli pubblicati sul Corriere della sera avverte il fascino e l’allarme della modernizzazione italiana intesa come un “cataclisma” inevitabile, dopo il quale solo alcuni vivranno, come “ i pesci (…)
che con enorme spreco di energie e lasciando dietro di sé un numero
incalcolabile di vittime, riuscirono a respirare anche quando i mari si
erano ritirati”. Analogamente, la scrittura corporale di Paolo Volponi, sia poetica che narrativa, sembra sottendere una paradossale euforia “monetaria”, sospesa
tra invettiva e apologia: e, in una contraddittoria formazione di
compromesso fra torti e ragioni, perfino il suo romanzo più allegorico, Le mosche del capitale (1989) sembra “cantare” l’epica grottesca e terribile della mutazione, la forza vittoriosa e travolgente del neoliberismo.
Nonostante l’esplicita dichiarazione autoriale, i versi di Paesaggio con serpente (1984), forse la più rilevante fra le raccolte poetiche di Fortini, ci dicono che se il canto-incanto della letteratura non può “uccidere il serpente”, può forse esorcizzarlo con la sua cerimoniale ritualità. Proprio come accade nella coeva poesia “ilozoica”, epigrammatica e didattica di Primo Levi, affollata di figure animali (Ad ora incerta, 1984), nei versi di Fortini l’idillio è impossibile, l’individuo non è che un luogo biologico attraversato, nella sua labile durata, dalle forze storico-sociali, e il “dente della storia” morde e recide non meno di quello della natura.
Leonardo Sciascia, naturalmente predisposto a raffigurare stoicamente la violenza del Potere, sembra dagli anni
Settanta in poi lo scrittore più capace di precorrere le ibridazioni
fra saggismo e narrazione che s’imporranno negli anni Zero allestendo lucide allegorie di un preciso contesto. Si pensi agli enigmatici omicidi politici nel museo d’arte de Il Contesto (1971) o alla fasulla pista eversiva dei “ragazzi dell’89” in Il Cavaliere e la morte (1988): negli stessi anni in cui in Italia nel teatrino dei media si faceva largo uso dello spettacolo macabro del terrorismo, il sapere critico diveniva inconcepibile e la democrazia diventava teleplebiscitaria.
Il romanzo incandescente e terminale di Elsa Morante, Aracoeli (1982), racconta un’apocalisse corporea non solo individuale, la perdita dell’ Eden materno di Emanuele, ma collettiva,
sostanziata storicamente, fra guerra di Spagna e miracolo economico: si
narra in prima persona, in parziale sintonia con le diagnosi di
Pasolini, il modo in cui il
corpo percepisce e patisce lo scandalo storico del mondo “infetto” di
rabbia di annientamento piccolo-borghese.
Con i testi degli anni Zero, il posizionamento dello scrittore nel campo della mutazione italiana si complica: se la scrittura diviene più marcatamente ibrida, la rappresentazione diviene globale a comprendere in via orizzontale le figure dell’esule e del migrante e, verticalmente, l’esplorazione antropologica delle emozioni. In Cristi polverizzati (2009), l’espatriato marchigiano Luigi Di Ruscio, con una furiosa e comica vitalità linguistica e utopica, narra dal suo esilio norvegese una radicale situazione biologica calata in un preciso orizzonte temporale e sociale: il “dispatrio”, il lavoro in fabbrica, la memoria degli anni Cinquanta. Mediante il ricorso alla microstoria e all’apologo, i versi di Eugenio De Signoribus (Poesie 1976-2007) sembrano dirci che ogni ricognizione poetica è vana
in termini puramente soggettivi: la voce diviene plurale, ingloba la
dialogicità di più enunciatori estranei alla cittadella blindata
dell’Occidente, secondo una tipologia discorsiva teatrale e diegetica. Eraldo Affinati (in sintonia con una tendenza delle scritture italiane variamente descritta come nonfiction e “ritorno al reale”) si pone a sua volta ne La città dei ragazzi (2008) con forme narrative contaminate, fra saggismo, autobiografia e diario, alcuni fra i massimi problemi del nostro presente: l’incontro coi migranti, la responsabilità dell’insegnamento, il problema dell’eredità culturale e della paternità. Infine, Alessandra Sarchi (L’amore normale,
2014), alle varianti della mutazione preferisce opporre le costanti
biochimiche e psichiche dell’esperienza amorosa, sottraendo
l’esplorazione dei sentimenti al tritacarne del “rosa” seriale e immettendola in uno organismo narrativo finzionale, debitore di modelli principalmente visivi e decisamente plurivoco.
III. La domanda del titolo, dunque, vuole alludere alla più ampia questione dei rapporti fra scritture d’invenzione e scritture veridiche. E’ legittimo, a esempio, “leggere
un testo che vuole comunicare nell’ordine del ragionamento come se
quest’ultimo potesse venire alterato dalle tensioni letterarie interne
alla scrittura”? O, viceversa, una poesia alla stregua di un’argomentazione filosofico-politica? No,
se ciò equivale a intendere il mondo delle scritture, per intero, come
se fosse finzione, letteratura. Questa indistinzione, diffusa nella
teoria nordamericana dell’ultimo trentennio, corrisponde a un
atteggiamento cinico o scettico del critico letterario, «tagliato fuori
dai centri della elaborazione extraletteraria del sapere» e persuaso, a
un tempo, che l’«ordine del vero» sia controllato
da specializzazioni inattingibili e «che tutto l’arco del sapere non
rigorosamente specialistico possa essere trasferito nell’ordine
dell’immaginario»[12]. Sì, se con l’ammettere zone ibride di “letterarietà” anche in testi a prevalente statuto argomentativo, si privilegiano il nucleo conflittuale correlato, in ogni tipologia discorsiva, alla densità figurale e la forza – intrinsecamente contraddittoria e soggettiva- dell’immaginazione.
L’antico problema del rapporto fra storia e letteratura[13],
è del resto più volte riaffiorato nell’età moderna e contemporanea: si
tratta di una relazione complessa, le cui difficoltà sono segnalate
dalla stessa ambiguità semantica del termine storia (racconto/ricostruzione veridica o frutto dell’immaginazione?). Oggi,
in ogni campo disciplinare (storia, diritto, filosofia, scienze) il
discorso sembra articolarsi di preferenza secondo modalità narrative. In
questa prospettiva spicca Hayden White che, con il suo concetto di Metastoria (1973), sembra incline a considerare la storiografia come retorica e narrazione. Inoltre, un rafforzamento della visione universalmente “narrativa”, in base alla quale ogni disciplina è modellata come storytelling, è più di recente venuto dai fortunati approcci cognitivisti che tendono
a fornire una base fisio-biologica alla teoria della ricezione e a
estendere il modello narrativo a ogni forma di conoscenza[14].
Se
l’opinione corrente è dunque che la letteratura e la storiografia (
così come i saperi giuridici, medici, economici) abbiano una comune base
narrativa, gli scrittori, tuttavia, non sembrano essere sempre di
questo stesso parere: José Saramago, a esempio, proprio come Enzensberger, in nome dei diritti della “zona scura”, ha opposto lo storiografo al romanziere sostenendo che la funzione dello scrittore consiste nel “guardare la storia in ogni angolo, raccontarla da tutti i punti di vista” :
Direi che la Storia,
così come la scrive o […] così come la fa lo storico, è prima di tutto
libro, non più che il primo libro […] Resterà tuttavia
sempre una grande zona oscura, ed è lì, a mio parere, che il romanziere
ha il suo campo di lavoro[15].
Forse la letteratura può essere considerata come quella
forma paradossale di storiografia e di ricostruzione che si prende la
libertà di riconfigurare, manipolare, rovesciare, vanificare i dati
ufficiali e che custodisce «nella penombra delle opere» sia la voce dei
vincitori che le «tracce dei dimenticati»: proprio in quanto discorso pluralistico e irriducibile all’unità. E come “ginnastica della coscienza”, “simulazione di esperienze”, “esercizio delle facoltà svincolato da costrizioni esterne e quindi relativamente libero”[16], ci è ancora necessaria in un’epoca in cui la rapidità liquida e ipercinetica della mutazione abbaglia, colonizza e intorpidisce la coscienza.
Nota
Dei 15 saggi qui raccolti
due sono ancora inediti (1, 11), gli altri (qui proposti con lievi
modifiche) sono usciti dal 2001 al 2014 in varie sedi: il n. 2 in Il demone dell’anticipazione. Cultura, letteratura, editoria in Elio Vittorini (a c. di E. Esposito, Il Saggiatore, Milano, 2009); il n. 3 in “Moderna” (X, 2008); il n. 4 in “Il Verri” (46, 2011); il n. 5 in Per Romano Luperini (a c. di P. Cataldi, Palumbo, Palermo, 2010); il n. 6 in La città e l’esperienza del moderno (a c. di M. Barenghi, G. Langella, G. Turchetta, ETS, Pisa, 2012); il n. 7 in Letteratura e denaro. Ideologie metafore rappresentazioni (a c. di A. Barbieri e E. Gregori, Esedra, Padova, 2014); il n. 8 in Dieci inverni senza Fortini (a c. di L. Lenzini, Quodibet, Macerata, 2006); il n. 9 in “Istmi”, (9-10, 2001); il n. 10 in Omaggio a Luminitza Beiu-Paladi a c. di I. Tcheoff, Stoccolma, Acta Universitatis Stockholmiensis, 2011; il n. 12 in L. Di Ruscio, Cristi polverizzati (Le Lettere, Firenze, 2009); il n. 13 in I dieci libri dell’anno 2008/2009 (a c. di A. Berardinelli, Libri Scheiwiller, Milano, 2009); il n. 14 in “Nuova corrente” (n. 150, 2012), il n. 15 in “Between” (2014).
[1] G. Gronda, Premessa a Per conoscere Vittorini, Mondadori, Milano, 1979, p. 9.
[2] Cfr. E. Montale, Mutazioni (1949) in Auto da fé, Il Saggiatore, Milano, 1966, pp. 86-89; P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1990; A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2006, A. Berardinelli, Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Quodlibet, Macerata 2007.
[3] G. Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino, 1983, pp. 195-207.
[4] M. Jansen, Il dibattito sul postmoderno in Italia, Cesati, Firenze, 2002.
[5] Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2003.
[6] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista,
a c. di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 87. La
metafora marxiana ha suggerito il titolo del libro di Marshall Berman All That Is Solid Melts into Air: The Experience of Modernity (New York, Simon & Schuster, 1982), tradotto in Italia col titolo di L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna, 1985 e ripubblicato nel 2012 col titolo Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria.
[7] R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 101-108.
[8] Cfr. G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna, 2011.
[9] A. Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Marsilio, Venezia, 2002.
[10] E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino, 2005.
[11] Cfr. S. Zatti Sulla critica tematica: appunti, riflessioni, esempi, in «Allegoria», n. 52-53, gennaio-agosto 2006, p. 7 e R. Luperini, Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet, Macerata, 2013, pp. 109-118.
[12] F. Fortini, Prosa scientifica come narrativa, in Breve Secondo Novecento, Manni, Lecce, 1996, p. 77.
[13] Cfr. L. De Federicis, Letteratura e storia, Laterza, Bari, 1998.
[14] Cfr. A. Casadei, Poetiche della creatività. Letteratura e scienza della mente, Bruno Mondadori, Milano, 2011.
[15] J. Saramago, História e ficção in “Iornal de letras, artes e idéias”, IX, 1989, p. 20.
[16] M. Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti, Quodlibet, Macerata, 2013, p. 18. Da http://www.leparoleelecose.it/
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