Pubblicati in italiano i sermoni del frate domenicano tedesco vissuto tra ’200 e ’300. Fu il più grande mistico del suo tempo, ma il suo pensiero può ancora dirci qualcosa come questo passo che riprendiamo da uno dei suoi testi: "L'amore non vuole essere in nessun altro luogo, se non dove è eguaglianza e unità. Fra il signore e il servo non vi è pace, perché non vi è uguaglianza. L'uomo e la donna sono diversi l'uno dall'altra, ma nell'amore sono del tutto uguali".
Gianfranco Ravasi
Meister Eckhart
Ecce, mitto angelum meum. Diz ist geschriben in dem êwangeliô und
sprichet ze tiutsche: sehet, ich senden mînen engel. Abbiamo voluto
citare nell’originale l’incipit della quarta delle 64 prediche che
Meister Eckhart aveva dedicato alla sequenza delle domeniche dell’anno
liturgico (altri 55 sermoni saranno, invece, riservati al ciclo delle
feste in onore dei santi). La predica da noi evocata nel suo avvio è
quella per la terza domenica di Avvento: lo spunto è offerto da un passo
di Luca (7,27), presente anche in Matteo (11,10), ove Gesù tratteggia
la figura di Giovanni Battista ricorrendo a un’espressione del profeta
Malachia (3,1). La citazione biblica è ovviamente in latino a cui segue
l’identificazione della sua fonte, in un alto-tedesco molto curioso:
«Questo sta scritto nel Vangelo e vuol dire in tedesco: Guardate, mando
il mio angelo».
E da lì si sviluppa il sermone in modo didascalico e creativo al tempo
stesso, nella lingua popolare, rigettando così il latino sacrale e colto
tradizionale allora dominante, che però era ben praticato dall’oratore,
come attestano altre sue prediche in latino. Ora, uno dei maggiori
studiosi di questo grande e provocatorio personaggio medievale, Loris
Sturlese (è, con Georg Steer, il curatore dell’edizione critica delle
opere di Eckhart in corso a Stoccarda presso l’editore Kohlhammer), ci
propone una sorprendente avventura nel mondo apparentemente remoto
eppure vivace di un’epoca storica segnata da figure imponenti (siamo tra
il Duecento e il Trecento). Una di esse è proprio questo domenicano di
Turingia, nato prima del 1260 e vissuto alternandosi tra la sua patria e
Parigi, ove salirà sulla cattedra di Maestro reggente, intercalandovi
incarichi di alto livello nel suo ordine religioso.
Nel 1326 due suoi confratelli, però, lo denunciano davanti al tribunale
ecclesiastico di Colonia per alcune sue tesi considerate eretiche.
Eckhart interpone appello presso la Sede apostolica che allora aveva
sede ad Avignone durante il famoso esilio papale da Roma. Siamo nel 1327
e, nelle more del processo i cui giudici affidano a un collegio di
periti l’esame delle proposizioni teologiche incriminate, il Meister
muore.
Era il 28 gennaio 1328. Un anno dopo, il 27 marzo 1329, con la bolla In
agro dominico («Nel campo del Signore»), papa Giovanni XXII, il francese
Giacomo Duèse, condanna 17 proposizioni come eretiche e 11 come
sospette, riconoscendo però che il loro autore, prima di morire, si era
dichiarato pronto a rigettare tutto quanto da lui scritto «che potesse
generare nelle menti dei fedeli un significato eretico o erroneo o
contrario alla fede».
Una vicenda controversa, quindi, che s’aggroviglia attorno a un pensiero
geniale e fluido, non di rado amante del paradosso, pronto ad
affacciarsi su abissi vertiginosi, inoltrandosi nei terreni più
accidentati della mistica, della teologia e dell’esegesi (famoso è il
suo Opus tripartitum, uno scritto incompiuto il cui nucleo si basava su
un’esposizione di tre libri biblici: Genesi, Sapienza ed Esodo).
Prescindendo dai contesti storici in cui essi sono inseriti, i sermoni
si inquadrano nella liturgia, dall’Avvento fino all’ultima domenica dopo
la festa della Trinità (la ventiquattresima) e rivelano – al di là
della discussa questione della loro “oralità” cristallizzata poi nello
scritto – l’impronta redazionale dello stesso predicatore. Suggestiva
nello svelare la loro genesi orale rimane, comunque, quell’enfasi a cui
lo stesso autore allude, strumento di coinvolgimento
dell’ascoltatore/lettore. Questo non toglie che il primato vada al
pensiero e alla sostanza.
Alla scoperta di questo contenuto tematico fa da guida la raffinata e
intensa introduzione di Sturlese che sa individuare i percorsi
fondamentali che reggono una riflessione ramificata orizzontalmente e
penetrante in profondità, capace però di non perdere mai la sua vivacità
“enfatica”. Ecco solo qualche esempio, quasi a caso: «L’uomo non sa che
cosa è Dio. Come un uomo che ha vino nella sua cantina e non ne avesse
bevuto né assaggiato, egli non sa che è buono. Così è con le persone che
vivono nel non sapere: non sanno cosa è Dio e credono e sono convinte
di vivere… Certa gente vuole amare Dio come ama una mucca che si ama per
il latte e per il formaggio e per il proprio vantaggio… Fanno le loro
buone azioni ad onore di Dio, come digiunare, vegliare, pregare, e lo
fanno però con lo scopo che nostro Signore dia loro, per questo,
qualcosa, o che Dio loro faccia, per questo, qualcosa che a loro piace:
tutti questi sono commercianti»!
Questa sorta di volgarità religiosa nasce da un “non sapere” la genuina
realtà di Dio e da «tre cose che impediscono di ascoltare la parola
eterna. La prima è la corporeità, la seconda è la molteplicità, la terza
è la temporalità. Se l’uomo trascendesse queste tre cose abiterebbe
nell’eternità…e là udrebbe la parola eterna». E qui entra in scena una
categoria cara a Eckhart, l’underscheit, la “distinzione”: essa è la
condizione metafisica della creaturalità che si autopone in modo
autarchico, staccandosi dalla sorgente dell’essere che è Dio e quindi
precipitando nel nulla. Ma lasciamo la parola al Meister in un passo
appartenente al suo commento al libro dell’Esodo: «Ogni ente creato
preso o concepito indipendentemente come per sé distinto da Dio non è
ente, ma è nulla. Infatti, ciò che è separato e distinto da Dio è
separato e distinto dall’essere».
In questa linea è decisiva la presa di coscienza della presenza estrema
di Dio nella nostra “intellettualità” (vernünfticheit): essa segna la
svolta dal “non sapere” a un sapere trasformato, una svolta esistenziale
radicale che l’oratore compara a una folgorazione. È appunto la
scoperta che in noi risiede una scintilla del divino e quindi
dell’essere, e il modo per «afferrare il bene proprio è quello di unire
la volontà propria con la volontà di Dio», in un abbandono-sintonia con
la sua libertà.
Naturalmente ben più complessa è la visione antropo-teologica di
Eckhart, condotta talora alle frontiere dell’ossimoro tematico (si
provi, ad esempio, a leggere la Predica 8). Sarà, però, un’esperienza
esaltante perché, come diceva un teologo ben più pacato e tradizionale
come il cardinale Charles Journet (1891-1975), «tutti i mistici sono
pericolosi da leggere, ma è un bel rischio che dev’essere corso».
Il Sole 24 Ore – 19 aprile 2015
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